Dossier

Psicoanalisi e guerra: riflessioni sparse

21/01/14

Maria Rosa De Zordo

 

 

Psicoanalisi e guerra: basterebbe fare riferimento al carteggio tra Freud e Einstein del 1932, richiesto da un comitato della Società della Nazioni, o alle ultime opere di Freud per testimoniare l’interesse del padre fondatore della psicoanalisi verso ciò che succede fuori della stanza di analisi, con particolare attenzione al fragile processo di civilizzazione. La crisi economica e le difficoltà degli ultimi anni portano massicciamente nei nostri studi ciò che avviene all’esterno e, anche se con i nostri pazienti cerchiamo di dare un significato affettivo interiore profondo a quanto ci viene comunicato, non possiamo ignorare la realtà esterna, preoccupante e dolorosa. Vorrei   proporre qualche esperienza personale. Ricordo la guerra nella ex Jugoslavia del 1992. Molti bosniaci profughi furono accolti in una sede della Croce Rossa  a Jesolo/VE e noi operatori del Servizio Psichiatrico di zona fummo invitati a intervenire in aiuto alle persone particolarmente traumatizzate. Avevamo il supporto di un mediatore linguistico, proveniente anch’egli dalla Bosnia. Quando il paziente cominciava a parlare della sua storia, il mediatore piangeva insieme a lui e si metteva a raccontare la propri storia, così che l’operatore doveva porgere ascolto a entrambi.

In quel periodo seguii per qualche tempo una giovane signora di Sarajevo, che parlava un poco l’italiano e un poco l’inglese. Rimasta recentemente  vedova prima di poter espatriare, raccontava che un cecchino aveva colpito il marito: bastava uscire per andare  a prendere dell’acqua, che si correva il rischio di non tornare. La signora era acompagnata dal figlio, un bambino di 7-8 anni, che non parlava e non capiva l’italiano, per cui gli proposi, attraverso la mamma, di raccontarmi qualcosa con un disegno, se lo desiderava. Nel primo disegno il bambino cominciò con la solita casetta, gli alberi, il sole, il coniglietto pasquale che nascondeva i piccoli regali in giardino (eravamo poco dopo la Pasqua). Poi disegnò sulla sinistra del foglio un aereo e con la  voce cominciò ad imitare il rumore di un aereo pesante (di bombe?) che vola a bassa quota. Io mi sentii per qualche momento sconvolta, perché ricordai improvvisamente con una fitta al cuore che nell’immediato dopoguerra italiano (ero piccola),  ogni tanto volavano degli aerei civili o militari, pochi all’epoca, e il loro rumore mi terrorizzava. Io non ho ricordi della guerra, se non i racconti che ho ascoltato, ma evidentemente nella memoria (implicita?) qualcosa era rimasto. Mi immedesimai nel terrore senza parole di quel bambino e al trauma che portava con sé. Cercai di esprimergli attraverso la mamma e anche per la mamma qualcosa delle emozioni di terrore vissute nella loro zona di guerra. Ci incontrammo alcune volte, poi entrambi poterono ritornare nella  terra di origine.

Un collega croato, in training in Italia, ci raccontò in un seminario i drammi dei soldati che tornavano dalla guerra traumatizzati, sconvolti, irascibili e spesso “cattivi” in famiglia, con racconti di odio e vendetta. Ci parlò anche delle difficoltà di avvicinare loro o i familiari, i bambini, tanto la sofferenza, l’odio,  era una parte di sé difficile da riconoscere e verbalizzare come affettiva, trasmessa inconsapevolmente alla giovane generazione.

Ogni guerra prepara la prossima.

Ebbi modo di seguire in psicoterapia per più di tre anni nel Servizio  Psichiatrico un soldato della missione italiana in Bosnia. Non riusciva più a dormire la notte, poiché gli ritornavano le immagini degli orrori cui aveva assistito, per esempio quei sentierini di dieci centimetri dai quali bisognava stare molto attenti a non uscire per non finire sopra una mina. E mi raccontava di come altri colleghi soffrissero dello stesso disturbo, che oggi definiamo post traumatico, e con una terminologia diagnostica etichetta una sofferenza che andrebbe elaborata.

Ho portato questi ricordi personali, perché quell’esperienza mi ha fatto riflettere che, se noi operatori non avessimo avuto una qualche formazione psicoanalitica (qualcuno di noi era già analista) e la possibilità di parlare di queste esperienze con gli analisti del Servizio e i supervisori esterni, forse il sia pur modesto ascolto che potevamo offrire ci sarebbe stato ancor più intollerabile.

Vorrei accennare anche a un’esperienza che come Centro Veneto di Psicoanalisi (ne ero allora Segretario Scientifico) insieme con l’allora Presidente del Centro Alberto Semi, abbiamo proposto in un seminario aperto, ricordando il carteggio Freud – Einstein  del 1932.

Era il 2003 e Bush aveva da poco invaso l’Iraq. Sulla base di un’esperienza simile che si era tenuta a Torino, invitammo Emanuele Bonasia, Maria Chiara Risoldi, Luigi Ranzato. Il Comune di Padova ci mise a disposizione un’ampia sala, che fu affollatissima. Semi introdusse il seminario (il suo discorso è riportato nel presente Dossier). Poi parlò Bonasia, sviluppando la tesi che la guerra sia anche un’istituzione deputata a gestire illusoriamente la paura della morte tramite  la particolare modalità del figlicidio: sono i figli che vanno a morire, i padri stanno dietro le scrivanie. Bonasia sottolineò la tendenza, anche da parte della psicoanalisi, di negare la paura di morire e la pulsione figlicida come parte di un processo psicotico ad impronta paranoide, volto a elaborare l’angoscia di morte (Bonasia presentò un testo riveduto e rielaborato di un articolo pubblicato nella “Rivista di Psicoanalisi”, 2001,2, 303-318).

Ranzato, psicologo trentino impegnato con la moglie pediatra in una organizzazione umanitaria internazionale, portò l’esperienza del lavoro in Ruanda dopo il genocidio del 1994 da parte degli Huto, maggioranza etnica, nei confronti dei Tutsi, ritenuti l’élite economica e sociale. I Tutsi prevedevano che l’eccidio che avrebbero perpretrato gli Hutu sarebbe stato così atroce che chiedevano alle truppe francesi dell’ONU, che si ritiravano,  di essere uccisi da loro con un colpo di arma da fuoco.

Ranzato ci parlò del lavoro di ricomposizione, quando possibile, delle famiglie, riportando i bambini ai parenti sopravvissuti e cercando di affiancare i soccorsi locali con una modesta, ma l’unica possibile, terapia di catarsi affettiva: non solo la difficoltà della lingua, ma esperienze traumatiche anche difficili da raccontare e traumi che passeranno da una generazione all’altra.

Risoldi parlò della sua esperienza in Bosnia-Erzegovina (seguita da Amati Sas), descritta poi nel libro “Traumi di guerra”, scritto con le colleghe che hanno lavorato con lei (Manni, 2003).  Un’esperienza estrema, in una situazione estrema, ma che esprime il coraggio e la fiducia di poter raggiungere la sofferenza anche quando questa è lontana, solo apparentemente inavvicinabile, in un mondo rivolto alla follia, questa sì distruttiva. Sempre consapevole dei limiti e delle difficoltà, narra un’esperienza che attraverso l’ascolto psicoanalitico ha reso possibile l’espressione di emozioni collegate a traumi, ferite, perdite. Si chiedono le autrici se e come la psicoanalisi possa aiutare a comprendere meglio lo scatenarsi e il perpetuarsi dei tragici percorsi dell’umanità, abituati gli analisti alla violenza e distruttività della vita psichica, ma sgomenti come ognuno di fronte alla distruttività e violenza sociali e storiche. Coinvolte e impegnate sul versante etico di poter fare qualcosa sul versante della pace, durante la guerra in Bosnia, diventano partecipi di un gruppo di lavoro con  psicoterapeute bosniache che operano in un ambulatorio a Tuzla. Con il loro trattamento psicologico di gruppo o individuale riescono a far emergere discorsi di vita là dove dilagano la morte e la distruttività. Donne straordinarie che, con le altre, lavorando anche quindici ore al giorno, sono riuscite a vedere 4.000 donne inventandosi un metodo per quella emergenza. Cito dal libro l’osservazione di una collega bosniaca: «probabilmente, molti esperti troverebbero oggi nel nostro lavoro molto di ciò che non chiamerebbero psicoterapia, però è nostro diritto potere dire che quel qualcosa, in qualunque modo lo chiamassimo, ha comunque alleggerito le anime di quelle donne» (p. 233).  E ancora «In una traumatizzazione così massiccia alla quale era esposta la nostra popolazione, uno dei grossi problemi con cui c’incontravamo era quello che dopo un breve tempo nessuno era in grado di ascoltare l’altro ed ognuno iniziava a portarsi il proprio dolore da solo. A confermare questo fatto c’era anche il silenzio che abbiamo notato nei campi profughi, un silenzio che lentamente si trasformava in depressione» (pp. 233-234).

Secondo un’inchiesta effettuata nel 1993, il 66% fra i profughi manifestava sintomi di depressione, a differenza del 33% della popolazione locale. Un’ulteriore tragedia si sommava a quella appena vissuta.

Il seminario aprì un’animata discussione, tanto che il responsabile della sede dovette interromperci, poiché già da parecchio tempo era scaduto il suo orario. Io avevo preparato alcune note conclusive che non ebbi modo di leggere e, scritte in cartaceo, non ritrovo. Ma soprattutto mi dispiace di non ritrovare la commovente piccola poesia che una bambina di sei – sette anni aveva scritto con la sua grafia ancora incerta: si chiedeva come si può ricostruire ciò che la guerra ha distrutto.

Personalmente ritengo che esperienze traumatiche estreme   siano difficilmente elaborabili da chi le ha vissute, se non forse attraverso un lungo e faticoso  processo, che spesso le vittime non sono in grado di affrontare, o attraverso l’immediata possibilità di parlare di ciò che è stato vissuto (spesso solo con modalità evacuative), ma siano purtroppo sofferenza inconscia delle generazioni successive..