Dossier

Approfondimento – Crescere nel Burkina Fasu

21/01/14

Intervista a cura di Renata Rizzitelli

Stefania, mamma adottiva di Adrien, ci racconta l’esperienza dell’incontro con il suo bambino e i modi di allevamento istituzionali in Burkina Faso. Si tratta di saggezze antiche: parlare molto con i bambini, abituarli ad una realtà con poche risorse e a volte pericolosa, trasmettere una capacità di lettura del contesto che viene assimilato come naturalmente difficile, costruire nel confronto con l’ambiente una forza interiore che diventa parte della cultura e del carattere individuale. Adrien trasmette, con l’intensità dello sguardo, tante parti del suo mondo emotivo, Stefania sa coglierli e ci racconta questi passaggi in modo spontaneo e intenso.

Mi chiamo Stefania e sono la mamma di un meraviglioso bambino di  tre anni e nove mesi, nato in Burkina Faso.

Dopo una lunga quanto, ai nostri occhi,  immotivata attesa durata 16 mesi, a partire dall’abbinamento fra noi e Adrien (nome di fantasia),  mio marito ed io siamo andati a prendere il piccolo nel settembre 2012; siamo stati in Burkina Faso per un periodo;  ciò ci ha consentito di osservare  le condizioni di vita di questi bambini ed in generale del loro gruppo di appartenenza.

Il nome di Burkina Faso (ex Alto Volta) fu istituito nell’agosto del 1984 dal rivoluzionario Thomas Sankara e significa “Terra degli uomini integri”. Dal 1896 al 1960 il Burkina fu una colonia francese, e ancora oggi le ingerenze esterne sono determinanti.

Thomas Sankara rappresentò l’ unico grande punto di svolta per questo popolo, che iniziò a credere nella possibilità di un futuro realmente libero e autonomo. Il capitano Thomas Sankara prese il potere, con un colpo di stato, nel 1983. Attuò una politica estremamente progressista, di riforme sociali ed economiche che, in soli quattro anni, permisero di elevare il tasso di scolarizzazione, migliorare le strutture socio-sanitarie, costruire dighe per l’irrigazione dei campi, riordinare i finanziamenti pubblici attraverso la lotta alla corruzione e ai favoritismi. Si oppose al pagamento del debito del Fondo Monetario Internazionale e allo sfruttamento delle risorse da parte delle multinazionali.  Anche i settori dell’arte e della cultura vennero incentivati.

Inutile dire che tutto questo diede un gran fastidio, sia a livello internazionale che ai poteri forti interni al paese, quindi nel 1987 durante un ennesimo colpo di stato Thomas Sankara venne fucilato, e salì al potere l’ attuale president, Blaise Campaorè.

Ad oggi, la situazione economica del paese è una delle più critiche del mondo, con pesanti disparità, contraddizioni interne e forti condizionamenti che provengono dalle grandi potenze occidentali.

Seppure politicamente il Burkina Faso sia uno dei paesi africani più stabili, la fierezza e la dignità del popolo, che spesso sono  espresse dai giovani studenti, fanno sì che ciclicamente si verifichino delle rivolte che sfociano nel sangue e nella soppressione. Possiamo dire che, dietro ad una parvenza di stabilità, si celi una forma di dominio sul popolo, tale da mantenere uno stato di immobilità che non permette alle persone, e soprattutto ai bambini, di vivere in modo dignitoso, garantendo almeno il minimo indispensabile per tutti.

In mezzo a questo alternarsi di “calma apparente” (quasi rassegnazione) e di “rivoluzione” (l’ ultima importante ci fu nel marzo/aprile 2011 e durò diversi mesi, con manifestazioni sfociate in violenza, saccheggi e coprifuoco), i bambini, in Burkina, crescono come possono. Chi se lo può permettere (molto pochi) vive dignitosamente e riceve una buona istruzione; chi non se lo può permettere cresce per strada o negli istituti.

In questi periodi di forte tensione interna, il fratello combatte contro il fratello per motivi di divisione politica; la povertà  è dilagante,  tanto che a volte i bambini vengono lasciati negli istituti, per periodi più o meno lunghi, in modo che vengano nutriti e curati, perché i genitori  non sono in grado di poterlo fare.

Ciò che ci ha colpito è il numero estremamente considerevole di bambini abbandonati, in attesa di una sistemazione.

Il Burkina Faso è stato il primo stato africano a sottoscrivere la carta sui diritti dell’infanzia  dell’Aia; le adozioni internazionali sono gestite dal Ministero dell’Azione Sociale e della Solidarietà Nazionale. La procedura consiste nel fatto che l’Ente per le adozioni internazionali, a cui la coppia che si propone per l’adozione ha dato mandato, presenta il dossier al suddetto ministero e il Burkina  procede con l’ abbinamento, dopo il quale inizia la procedura burocratica: in questa fase purtroppo i tempi sono alquanto dilatati.

Durante la nostra permanenza, siamo stati principalmente nella struttura che ci ospitava, nella capitale Ouagadougou; ma abbiamo avuto modo di guardarci  intorno e fare delle considerazioni durante gli spostamenti necessari, prima per andare a conoscere e a prendere il nostro bambino e poi per le pochissime formalità che rimanevano da concludere.  Ciò che più ci è rimasto profondamente dentro è lo stato in cui vivono i burkinabè (così si chiamano gli abitanti del Burkina Faso), in particolare i bambini.

Siamo stati anche ospiti dell’Istituto dove si trovava nostro figlio per conoscerlo e fare in modo che anche lui prendesse contatto con noi e mostrasse o meno un attaccamento nei nostri confronti, prima di portarlo via. Abbiamo provato delle emozioni straordinarie, di felicità allo stato puro, perché finalmente potevamo, dopo così tanto tempo, conoscere ed avere con noi il nostro bambino, che avevamo atteso e visto solo in una fotografia per quasi un anno e mezzo.

In generale, il tempo è vissuto dai burkinabè in modo molto tranquillo; si ha la sensazione che  possa essere dilatato senza alcun limite. Per questo motivo, a fronte della nostra preoccupazione perché, dal momento dell’abbinamento fra  noi e Adrien, i mesi passavano,  avvertivamo una assoluta tranquillità e  immobilità.

Adrien cresceva e non aveva la possibilità di stare con noi in una famiglia.

Al momento dell’incontro con il bambino, che sapeva della nostra esistenza da poche settimane, abbiamo avuto la netta sensazione che ci avesse riconosciuti, grazie al fatto che precedentemente gli avevamo mandato un album con varie nostre fotografie. Quando lo hanno portato verso di noi e Adrien ci ha visti, ha continuato a fissarci, soprattutto me, negli occhi, intensamente e per un tempo che mi è parso interminabile; lo sguardo era profondo, adulto e sembrava mi studiasse, come se mi stesse chiedendo: “Che intenzioni hai?”. Ci è parso che tutto il resto fosse improvvisamente  diventato assente  alla sua percezione, come alla nostra,  perché Adrien appariva  catturato  dalla nostra presenza e chiuso, con noi, come in una bolla.

In seguito abbiamo conosciuto anche  gli altri bambini ospitati dall’istituto, una settantina in tutto, ed è come se tutti loro ci fossero entrati dentro, profondamente. Gli sguardi dolci, fieri, penetranti, ma allo stesso tempo speranzosi che anche per loro potesse esserci un futuro migliore, ci hanno legati a quel meraviglioso paese per sempre. Pensiamo spesso a  quell’infanzia dignitosa ma esageratamente provata dalla povertà e dalla disuguaglianza, di fronte alla quale ci siamo sentiti impotenti e frastornati. È un’ infanzia che sintetizza, con purezza d’ animo e trasparenza emotiva, la storia e la cultura stesse del Burkina, terra ricca di tradizioni ma anche di sofferenza legata all’incertezza sul futuro.

Mi è sembrato che per i bambini più grandi fosse più facile assorbire il fatto che noi eravamo lì per  Adrien, anche perché avevano visto molti altri andar via con coppie di genitori adottivi; per i più piccoli, invece, ho percepito il dolore  di non poter venire con noi ed ho notato come il denominatore comune fosse legato allo sguardo … non  ci lasciavano mai! Suppongo che  questa “sete” di sguardi sia legata al bisogno di relazione generato non soltanto dallo stato di abbandono, ma forse anche dall’usanza di tenere i bambini legati dietro la schiena, privandoli del contatto diretto  dei visi; tale  usanza  abbiamo riscontrato essere rispettata anche dalle “mamà” (i bambini  chiamano in questo modo le loro tate di riferimento in Istituto).

A questo proposito,  è importante  dire che  alcuni bambini  erano insieme alla loro mamma, che viveva in Istituto con loro, dedicandosi però anche agli altri; ci è apparso da subito evidente come  Adrien e tutti gli altri bambini fossero disponibili e abituati alla relazione sia con i pari che con gli adulti;  ho visto le donne, che aiutavano all’interno dell’istituto, parlare con i bambini continuamente, e mi ha colpito il buon contatto emotivo fra adulti  e  piccoli ospiti.

In Burkina, molti dei bambini che sono in istituto non sono abbandonati o orfani, ma vengono lasciati lì dai genitori fino a quando non sono abbastanza grandi da poter andare a lavorare e “rendere” alla famiglia. I bambini che vengono destinati all’adozione sono certamente in stato di abbandono e su questo punto c’è molta attenzione.

In un contesto come questo, i bambini riescono a “sfoderare” enormi risorse, a cogliere il buono ovunque lo si possa trovare.

Non abbiamo  notato  che  nel comportamento  di questi bambini fosse presente disagio emotivo, malgrado il bagaglio di esperienze difficili, legate soprattutto alle separazioni dalle figure di riferimento affettivo, alla povertà ed alla difficile condizione sanitaria. Circa questa nostra impressione, abbiamo avuto ulteriori conferme da altri genitori adottivi di bimbi provenienti dal Burkina, nessuno dei quali ha riportato manifestazioni comportamentali che potessero far pensare ad un malessere profondo o ad eventuali traumi.

Nel nostro caso, in particolare, gli unici episodi che ci hanno preoccupato, fino ad oggi, si sono presentati durante la primavera scorsa e sono stati caratterizzati da manifestazioni fobiche verso gli insetti. Dare modo ad Adrien di parlare di questa sua paura, legata anche alla realtà della sua terra di origine, nella quale effettivamente esistono insetti molto pericolosi da cui è necessario proteggersi (basti pensare che, arrivati in Italia, ci siamo accorti che Adrien aveva la malaria), e dare voce alle sue angosce, ha fatto sì che nell’ arco di 3-4 settimane questa fobia rientrasse. Probabilmente gli insetti rappresentavano per lui anche altre paure profonde, forse legate alle esperienze fatte in Burkina quando era molto piccolo; la manifestazione di paura  sfociante in vero e proprio terrore ci ha però dato la possibilità di aiutarlo, permettendoci di affrontarla insieme. Adrien, in alcuni momenti, cominciava a comportarsi come se si dovesse scrollare di dosso qualcosa di estremamente pericoloso, urlando e piangendo; pareva proprio che si trattasse di sensazioni antiche, primordiali, a cui non era mai stata data voce. Partendo da queste esperienze dall’ impatto emotivo davvero forte, sia per lui che per noi, Adrien ha potuto parlarci delle sue paure che aveva manifestato anche  la notte, quando  si svegliava e piangeva da solo nel suo lettino: ci ha potuto dire che la paura derivava  del suo disagio quando le mosche lo tormentavano infilandosi da tutte le parti, della sua rabbia quando mamma e papà, cioè noi, lo avevano lasciato ancora da solo, in istituto, dopo averlo ormai incontrato. In effetti, quando siamo tornati da lui, la seconda mattina, quella successiva al giorno in cui ci siamo conosciuti, Adrien era arrabbiato, non ci considerava, anzi cercava di continuo la sua tata di riferimento, cosa che non aveva fatto il giorno precedente, trascorso con lui nella struttura. Ancora oggi, quando guardiamo i filmati girati in quei momenti, Adrien ci fa notare che era arrabbiato proprio con noi e che la notte, quando si trovava da solo, piangeva. Gli abbiamo spiegato che non è dipeso da noi e che anche noi siamo stati molto male nel dover stare separati da lui e che capiamo bene quanto abbia sofferto.

Un altro aspetto che merita particolare attenzione è quello relativo all’ alimentazione. In Burkina vige il detto: “mangia quel che c’è finchè ce n’è”, ed è il motivo per cui quei bambini (incluso il nostro), quando vengono adottati, all’inizio, fino a quando non capiscono che il cibo è garantito, fanno grandi abbuffate. Credo che questo avvenga anche dal punto di vista dello sviluppo affettivo-emotivo. Quello che arriva, anche se poco e condiviso con altri (nell’ istituto del nostro bambino erano in 75, a  fronte di un numero di tate intorno alla decina), diventa la “culla” dei legami affettivi e delle future relazioni.

La fierezza nello sguardo, mischiata alla profondità e alla dolcezza, caratterizza tutti i bambini burkinabè: sono bambini che si accontentano di quello che può loro arrivare, ma che esigono di più quando di più gli si può dare, che esprimono le loro emozioni in modo variopinto, soprattutto con la danza e il canto, attività molto presenti nella vita del piccolo villaggio che accoglieva Adrien.

Rimaniamo incantati quando il nostro bambino si mette a ballare (con un senso del ritmo impressionante) e chiude gli occhi, come se quel canto riverberasse dentro di lui… e quel riverbero di emozioni noi (e non solo noi, ma chiunque lo veda ballare) lo sentiamo tutto e ci riporta con la mente agli altri meravigliosi bambini che sono là, ai quali auguriamo non solo l’ indispensabile ma il meglio!

Le madri sono attrezzate ad occuparsi di altri bambini oltre ai loro, a lasciare che i loro piccoli vengano accuditi e nutriti da altri e che si separino da loro quando ciò è necessario per la loro sopravvivenza.

Nella vita in istituto, mentre la figura materna è rappresentata dalle donne che ho descritto, la figura paterna è “il pastore”, che è anche il tutore dei bambini e che, seppure condiviso fra tutti, esercita una  notevole influenza su di essi. Egli è molto rispettato anche dagli adulti e a noi è parso proprio come fosse il “capo tribù”.

Quando i genitori adottivi vanno a prendere i loro bambini, al momento del commiato, sono invitati a pranzare insieme ai membri della comunità, bambini e adulti; successivamente il pastore  celebra un rituale religioso. Il tutto sancisce il momento dell’addio al piccolo che si allontanerà con i suoi genitori; questo rituale è ben conosciuto da tutti gli ospiti e dà la possibilità al bambino di comprendere ciò che sta accadendo ed il cambiamento sostanziale che avverrà nella sua vita.   Adrien, il giorno del comminato,  era vestito a festa, con il costume tradizionale del suo villaggio ed il cappello originale del Burkina, che hanno viaggiato con lui fino in Italia e sono  gelosamente conservati, perché lui possa vederli quando lo desidera; talvolta, infatti, Adrien si mette il cappello della sua  terra.

Ho molto apprezzato questo passaggio perché, secondo me, ha aiutato il bambino a integrarsi  con noi,  conservando però le sue peculiarità, senza correre il rischio di un  appiattimento adesivo in una cultura straniera. Ovviamente abbiamo filmato tutti i momenti, dall’incontro con il bambino  alla partenza: questo  ha dato e darà  la possibilità a Adrien di riguardarli e commentare  con noi ciò che è accaduto.

Dopo un primo periodo di ambientamento, durato qualche mese, e dopo aver parlato con lui dell’esistenza dei filmati, Adrien chiedeva di vederli quasi tutti i giorni con noi,  domandando continuamente  spiegazioni su ciò che accadeva; questo rituale è durato per circa un mese finché questa richiesta è cessata.

Ovviamente, trattandosi di un bambino intelligente e con grandi capacità di adattamento, Adrien ha imparato la nostra lingua  in poche settimane: da subito gli abbiamo parlato in italiano ed abbiamo sempre avuto la sensazione che comprendesse  ciò che gli veniva detto!  Penso ciò dipenda dalla grande empatia esistente fra lui e noi, che ancora oggi consente un’ottima e profonda relazione.

Ci siamo stupiti di quanto Adrien trovasse spontaneo e semplice relazionarsi con noi e cercare il contatto, non in modo eccessivo, ma naturale. Questo è comunque un merito che va riconosciuto anche alle persone che si sono prese cura di lui, alla sua tata di riferimento, che abbiamo visto farlo addormentare legato alla sua schiena: qualcosa di buono gli hanno dato e lui è stato capace di farne tesoro. Ma questo equipaggiamento riguarda anche il poter accettare di usufruire delle risorse buone laddove ci sono.

I bambini burkinabè hanno, in generale, un carattere molto forte, volitivo, intransigente, astuto, sanno di poter arrivare ovunque… proviamo sempre rimpianto pensando a come potrebbero crescere bene se solo venisse data loro la possibilità di rimanere nella loro società, soprattutto senza i  gravissimi  condizionamenti che travagliano queste popolazioni da ormai troppo tempo.