Dossier

Approfondimento – Warum Krieg

21/01/14

Il cosiddetto “carteggio” tra Freud e Einstein, che in realtà consiste in due sole lettere, è per molti versi un’anomalia nell’opera freudiana, sia per la sua genesi ed i contenuti che per l’atteggiamento dello stesso Freud nei suoi confronti. E’ un lavoro che si trova ad avere due contesti, quello storico dell’epoca, e quello dell’opera freudiana nel suo insieme, situata quest’ultima in un contesto psicoanalitico più vasto; eppure sembra curiosamente avulso da qualsiasi ambiente fisico o mentale. Nemmeno la lettera di Einstein fa riferimento agli eventi politici dell’epoca, anche se forse erano questi a fare da sfondo alla sua scelta dell’argomento.

Nel 1931 il Comitato Permanente per la Cultura e le Arti della Lega delle Nazioni invita l’Istituto Internazionale della Cooperazione Internazionale ad organizzare gli scambi epistolari tra degli intellettuali rappresentativi “su argomenti ritenuti idonei per servire gli interessi comuni della Lega delle Nazioni e della vita intellettuale” (Freud 1933, pag. 197), e a pubblicare le lettere. Tra i primi a ricevere l’invito fu Einstein, il quale propose il nome di Freud. Quindi troviamo qui una prima anomalia, nel senso che questa lettera non sembra nascere da uno spontaneo bisogno di Freud di scrivere sull’argomento; Freud afferma anzi di essere stato colto poi di sorpresa dal contenuto della lettera di Einstein poiché si aspettava che si sarebbe trattato di qualche altro argomento, nella fattispecie, l’educazione dei bambini, e non di qualcosa che egli definisce “un problema pratico, qualcosa che riguarda gli statisti” (Freud 1933, pag. 203).

Un secondo elemento che mi colpisce come anomalo è il fatto che sembra esserci un distacco totale dalla realtà politica del momento, alla quale non si fa il neppur minimo accenno. Vale forse la pena ricordare che Freud ricevette la lettera di Einstein all’inizio dell’agosto del 1932 e finì la propria risposta un mese più tardi. Ma i primi sette mesi del 1932 erano densi di avvenimenti politici e di segnali minacciosi: nel febbraio si aprì la conferenza per il disarmo a Ginevra, mentre solo quattro anni prima era fallito un referendum in Germania contro la costruzione di nuove navi da guerra. Il 9 luglio terminò la conferenza di Lau­sanne sul pagamento riparativo dei danni di guerra da parte della Germania, con la quale si concordò il pagamento di 3 miliardi di marchi. Contestualmente l’Austria decise di rinunciare all’ Anschluss con la Germania fino al 1952, in cambio di prestiti da parte della Lega delle Nazioni, nonostante questa rinuncia contrastasse con quella parte dell’opinione pubblica (austriaca e tedesca) che era stata favorevole, già l’anno precedente, alla creazione di un’unione doganale tra Germania ed Austria, fallita a causa di altre potenze europee. Inoltre il ’32 vide la rapida ascesa del partito nazista in Germania,il quale vinse le  elezioni di aprile in Prussia, Baviera, Wurttemberg e Amburgo, mentre nelle elezioni di fine luglio i nazisti ebbero 230 seggi.

Di tutto ciò non c’e cenno nella lettera freudiana; eppure Freud non era affatto tagliato fuori dal proprio ambiente e dalle preoccupazioni politiche del momento, come si può dedurre anche da alcune affermazioni di Jones, il quale nota, rispetto al 1931, che eventi esterni stavano per premere sulla vita di Freud, e sul movimento psicoanalitico in genere, a partire dalla crisi economica mondiale iniziata con il fallimento del Kreditansalt viennese, che portava sulla sua scia delle conseguenze politiche disastrose sia per la Germania che per l’Austria. In questo stesso anno, Freud si dichiara pubblicamente sostenitore del movimento pan-europeo del Conte Coudenhove Kalergi, proponendo (senza successo) la candidatura di questi per il Premio Nobel per la Pace.

L’anno seguente, cioè lo stesso anno del carteggio, Freud firma un appello distribuito ai membri della professione medica di Henri Barbusse contro la possibilità di una nuova guerra mondiale, appello che terminava con questa frase: “In quanto guardiani della salute dei popoli, alziamo la nostra voce in monito contra una nuova interminabile carneficina verso la quale vengono sospinte le nazioni, le cui conseguenze non possono essere previste” (Jones 1955, pag.171).

Anche sul piano strettamente personale, comunque troviamo Freud che scrive ad Arnold Zweig, in data 18 agosto, una lettera piena di premure e preoccupazioni per il destino sia dello stesso Zweig che di Einstein, che era da poco stato costretto a riparare a Leiden.

Vorrei discutere più ampiamente in un secondo momento questo curioso effetto “Torre d’Avorio” che il testo stesso di Freud produce, dicendo per ora soltanto che mi sembra connesso con una più generale tendenza dell’autore a dubitare che la psicoanalisi possa avere qualche tipo di interrelazione col mondo sociale e politico reale. Però questa posizione, che si trova, per esempio, già alla fine di “La morale sessuale civile e il nervosismo moderno”, in realtà si scontra con quella concettualizzazione, presente anch’essa fin dai primissimi scritti freudiani, della interazione tra society ed individuo come fonte delle sofferenze nevrotiche, e che queste sono in un certo senso lo scotto che l’essere umano paga all’evoluzione della cura. Si trova già in una lettera a Fliess del 31/5/1897 quella che sarà poi l’idea maestra da cui prenderà forma Il Disagio della Civiltà, e che si trova espressa anche nel carteggio, cioè: “La civiltà consiste nella rinuncia progressiva” (Jones 1955, pag. 335). Del 1905 (“caso di Dora”, 1901) è l’affermazione che “[…] siamo costretti nelle nostre anamnesi a prestare tanta attenzione alle circostanze puramente umane e sociali dei nostri pazienti quanto ai dati somatici ed ai sintomi (Freud 1901, pag.18). Ci sono effettivamente molti scritti freudiani che danno una misura della dimensione sociale della prima psicanalisi, considerata sotto l’aspetto di fonte di cambiamento dell’individuo rispetto alla società.

Anche interessante vedere come la posizione di parziale non-intervento e di non-prescrizione politica che caratterizzava abbastanza Freud contrasta con la posizione di Money-Kyrle, per esempio, o degli analisti viennesi della seconda generazione che si riconoscevano nelle idee di Fenichel (Edith Jacobson, Annie Reich, Kate Friedlander, George Gero, Barbara Lantos, Edith Gyomroy, Berta Bornstein) i quali erano convinti che la psicanalisi doveva impegnarsi sul piano sociale, passando attraverso una teorizzazione di psicoanalisi marxista o almeno socialista. Questa presa di posizione doveva costituire un terreno di disaccordo rispetto agli altri analisti viennesi, e lo sviluppo di una psicoanalisi “sociale” nei fatti poté avvenire a Berlino negli anni venti, con la fondazione dell’Istituto di Berlino da parte di Eitingon con altri colleghi, che doveva assicurare terapie psicoanalitiche ai non abbienti.

Su questo Freud ebbe a fare dei commenti che lasciano intendere che vedeva di buon occhio le attività del gruppo berlinese; Eitingon dopo tutto, su suggerimento dello stesso Freud, era stato cooptato nel 1919 come membro del comitato ristretto che doveva preservare la psicoanalisi dopo la morte di Freud.

Echi di questo tipo di impegno sociale si trovano nella costituzione della London Clinic of Psychoanalysis, formalizzata nel 1924 (e anche in seguito in quella della Hamp­stead Wartime Nursery nel 1940, ad opera di Anna Freud, che doveva poi svilupparsi attraverso una struttura per il training istituita nel 1948 fino a diventare The Hampstead Clinic con sede a 20, Maresfield Gardens nel 1951).

Jacoby afferma che l’istituzione dell’Istituto di Berlino avvenne sulla scia di Freud, presentato al quinto congresso I.P.A. a Budapest nel 1918, in cui effettivamente Freud afferma la necessità che lo Stato si faccia carico di cliniche psicoterapeutiche in cui il metallo nobile della psicoanalisi possa venire fuso e legato col rame di altre forme di intervento. Aggiunge inoltre che molto probabilmente il primo passo in questa direzione saranno delle cliniche filantropiche private.

Certamente, però, il poter documentare come Freud aveva una sensibilità sociale verso quella parte della popolazione, sicuramente oberata da nevrosi in maniera assai pesante, che non poteva permettersi il costo di una psicoanalisi vera e propria, non e abbastanza per capire quale fosse l’opinione di Freud sulla funzione della psicoanalisi all’interno della società; su quale potesse essere il suo ruolo sociale. Sono invece molte le citazioni freudiane sul ruolo e funzione della psicoanalisi all’interno della medicina, o della scienza. Per esempio nella voce per un’enciclopedia o nel lavoro “La Questione di una Weltan‑schauung”, non è troppo difficile cogliere, se non in ter­mini piuttosto generici, quale fosse l’opinione di Freud sul ruolo della psicoanalisi nella società, fino allo scritto del 1932 (Freud 1932a) in cui esprime l’idea che la psicoanalisi non sia tanto utile a vasto raggio nella società come terapia quanto base per una riforma dell’educazione (in senso lato) dei bambini.

Penso che anche questa certa vaghezza sul ruolo sociale della psicoanalisi faccia sfondo al curioso distacco della realtà emotiva che caratterizza la lettera ad Einstein, poiché Freud sembra sentire non solo che il suo interlocutore abbia detto praticamente tutto quello che c’era da dire sull’ argomento (“Mi ha tolto il vento dalle vele, e potrò solo seguire nella sua scia”, afferma) ma anche che non ci sia in realtà un ruolo per lo psicoanalista in questo dibattito, se non nei panni, forse non molto congeniali, del filantropo.

Penso che l’atteggiamento di mancanza di soddisfazione col proprio lavoro che emerge dai commenti di Freud su questo stesso scritto documenti chiaramente il senso di distacco e disagio. Egli la descrive come una discussione noiosa e sterile e in realtà non apporta novità di rilievo rispetto, per esempio, alla discussione in “Il Disagio della Civiltà” sul rapporto tra diritto e potere. In un certo senso, fa riferimento ai lavori precedenti anche per quanto dice sugli impulsi di morte e di vita, e poi chiede persino scusa all’’interlocutore per aver parlato delle proprie teorie! Anche in quella parte del testo, Yakima, in cui discute il proprio pacifismo, sembra contento di lasciare l’indagine ad un li­vello del tutto superficiale, basando la discussione sul concetto dello sviluppo della cultura come processo organico, ma terminandola con una frase che in realtà nega ogni dialettica psicologica: “…noi pacifisti abbiamo un’intolleranza costituzionale rispetto alla guerra, un’idiosincrasia ingrandita, per cosi dire, al più alto grado” (Freud 1933, pag. 215). Non è forse fuori luogo il suo timore, espresso nell’ultima frase, di aver deluso il suo interlocutore. Le implicazioni di questo stato d’animo, quello, cioè, di non sentirsi a proprio agio rispetto al compito assegnato, sono molteplici e significative anche per quelli che saranno gli attuali sviluppi della psicoanalisi in campo sociale.

Vale la pena notare che un altro testo freudiano che aveva creato all’autore un senso di stizza, quasi, rispetto alla propria opera, era “Il Futuro di un’illusione” di cui disse a Ferenczi: “Mi sembra già infantile; fondamentalmente, penso diversamente; lo considero debole analiticamente ed inadeguato come una confessione di me stesso” (Jones 1955, pag. 138). Un altro testo che gli avrebbe creato invece delle remore e delle preoccupazioni era “Mosè e il Monoteismo”, rispetto al quale le preoccupazioni apparentemente riguardano esclusivamente l’impatto sociale dell’ opera. Ma si può arguire che in realtà Freud non ritenesse, prima del 1930, di aver applicato la psicoanalisi in sè alla società, soprattutto se si sommano i fatti appena descritti con le considerazioni espresse nelle parole seguenti: “Se l’evoluzione di una civiltà ha delle somiglianze cosi profonde con lo sviluppo di un individuo, e se gli stessi metodi sono impiegati in entrambi, non sarebbe giustificata la diagnosi che molti sistemi di civiltà sono diventati nevrotici sotto le pressioni delle direttive civilizzanti? Potrebbero svilupparsi delle raccomandazioni terapeutiche sulla scia della dissezione analitica di queste nevrosi che potrebbero avere un interesse pratico… Forse nonostante tutte queste difficoltà possiamo aspettarci che un giorno qualcuno si avventurerà in questa ricerca sulla patologia delle comunità civili” (Freud 1930, pag.144). E seppure Freud ritenesse che la sociologia non potesse essere altro che la psicologia applicata alla società, non pare che nella lettera ad Einstein egli sentisse di essere riuscito in questo intento.

Forse allora si può ipotizzare che il disamore di Freud per questo breve scritto provenisse dal suo sentirsi spogliato della propria professionalità rispetto all’argomento, e quindi sguarnito di armi per confrontarsi con esso. E’ palese, dalla lettura del testo, che in realtà Freud si sentiva quasi senza strumenti teorici con i quali affrontare l’interrogativo diretto postogli da Einstein, se l’urbanità può evitare una guerra. Un’ulteriore indicazione di questo stato d’animo, oltre alla ripetitività del discorso rispetto al rapporto tra diritto e violenza, può essere il riferimento che egli fa all’idea platonica di un’elite che deve essere educata perchè guidi saggiamente la società.

Questo discorso mi sembra molto poco psicologico, soprattutto quando e paragonato alla straordinaria percezione che Freud aveva dell’individualità di ogni essere umano. E’ vero che Freud sembrava sentire che la psicologia della massa aveva delle qualità che la differenziavano notevolmente dalla psicologia dell’individuo, ma la via d’uscita che Freud sceglie dal dilemma che Einstein gli infligge non fa alcun uso del proprio lavoro precedente sulla psicologia delle masse, ed è fondamentalmente una via filosofica, per di più utilizzando una filosofia idealistica che non tiene in alcun conto né il pensiero inconscio né la realtà della psicologia della massa. Lo stesso autore definisce questa idea “un’aspettativa Utopica” (Freud 1933, pag. 213).

Oltre al fatto che gli strumenti teorici che Freud ha usato sono deboli, rispetto a quelli che aveva a disposizione, non psicoanalitici, quello che colpisce e che non abbia usato nemmeno alcun tipo di assetto mentale psicoanalitico per affrontare il problema gruppo, mentre ne parlava, e anzi, non parla nemmeno di gruppi, come è invece tradotto in inglese, ma di masse, concetto forse ancora più alienante. Emblematico di questo assetto mentale la frase in “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”, di tutti i testi freudiani sulla società quello che maggiormente fonde assieme la psicologia dell’individuo e quello dell’insieme di individui, in cui afferma: “La psicologia di un tale gruppo, come noi la conosciamo dalle descrizioni alle quali ci siamo cosi spesso riferiti…” (Freud 1922, pag.122). Penso che questa posizione freudiana, di applicazione delle scoperte psicoanalitiche ai gruppi preformati nella società “a tavolino”, per cosi dire, senza gettarsi nella mischia del gruppo stesso, spiega gran parte della sensazione di distacco, di “Turris Eburnea” che si ricava dalla lettura di alcuni testi “sociologici” di Freud, a differenza dell’appassionata immedesimazione che sorge rispetto a praticamente tutta la parte clinica o propriamente metapsicologica dell’opera. Da questo punto di vista, è molto istruttivo fare un paragone tra lo stile del carteggio e quello infinitamente più personale dei due scritti sulla guerra, che datano dalla prima guerra mondiale, nei quali Freud è presente in prima persona con le proprie angosce e le proprie curiosità su queste.

In questi due brevi lavori si avverte la presenza dello psicoanalista al lavoro rispetto al gruppo: egli si sente parte del gruppo, cosa che emerge fin dalla prima frase: “Nella confusione dei tempi di guerra in cui siamo presi…”. Il secondo paragrafo inizia poi con un riferimento alla situazione sociale dello stesso Freud, quella cioè del non-combattente, che si sente “…smarrito nel proprio orientamento, e inibito nei propri poteri e nelle proprie attività” (Freud 1915, pag. 275). Quello che Freud fa è scrutare le proprie reazioni alla situazione di guerra, interrogarsi al riguardo, e dare inizio ad una catena di ragionamenti e di considerazioni che fanno riferimento sempre alle percezioni dello stesso Freud. Questa procedura è molto più si­mile a quella della clinica psicoanalitica, e molto lontana dall’applicazione “a freddo” delle teorie a un gruppo teorico. Anche il modo in cui Freud tratta, nei due lavori, lo stesso materiale storico, quello sul Concilio Anfizionico greco, svela nel primo caso una partecipazione emotiva che risulta poi del tutto assente nel secondo.

Penso che probabilmente sarebbe ozioso e che peccherei senz’altro di presunzione, se mi mettessi a cercare le cau­se psicologiche di questo cambiamento cosi radicale di modalità di pensiero tra l’uno e l’altro scritto, questa rinuncia totale all’assetto mentale psicoanalitico. In realtà seguirei la stessa procedura più filosofica che scientifica di Freud, se scienza vuol dire porre domande alla natura in tutte le sue forme per poter poi ascoltare le risposte, interloquendo continuamente in modo critico anche con i propri strumenti di indagine, perchè qualsiasi ipotesi potessi fare, rimarrebbe sempre senza la possibilità di una verifica. Però, è proprio la differenza tra i due scritti freudiani che mette in risalto la difficoltà che tutti quanti affrontiamo quando usciamo dal nostro contesto strettamente psicoanalitico, rimanendo per sempre analisti, senza diventare, per esempio sociologi, storici o filosofi.

Il problema diventa penosamente attuale per tutti coloro che desiderano occuparsi precisamente dello stesso campo di indagine che angustiava Freud nel 1915, e cioè, la guerra in genere, ma più specificamente, per noi la prevenzione della guerra nucleare. Il vantaggio (esclusivamente dal punto di vista scientifico, beninteso) che Freud aveva nel ’15 era quello di essere nel mezzo di una guerra e di poter interrogare la realtà circostante, usando anche la percezione delle proprie reazioni come dato, mentre non era affatto nella stessa situazione nel ’32. Anche noi, ora, per fortuna non ci troviamo nel bel mezzo di una guerra, ma desideriamo in qualche modo lavorare perchè una guerra non avvenga. Ci troviamo, cioè, in una situazione che è più simile a quella freudiana del ’32 che non a quella del ’15.

Mi sono chiesta se lo sviluppo della psicoanalisi dopo Freud ci abbia fornito di altri strumenti euristici che possano rendere più semplice il problema: credo che la risposta sia che gli strumenti ci sono, ma il problema della loro applicazione in un campo che non è la psicoanalisi clinica rimane intatto. Per esempio ciò che differenzia la teoria bioniana dei gruppi, a mio avviso, da teorie più descrittive, come lo è anche quella freudiana, non è solo il suo fondarsi sul concetto di identificazione proiettiva ma anche sul concetto di transfert, e sull’uso interattivo col gruppo del transfert, adoperando le proprie reazioni alle identificazioni del gruppo come strumento per comprendere questo anziché unicamente, come tutti facciamo quotidianamente, per leggere i segnali che ci indicano quali siano le aspettative del gruppo ed anche come adeguarcisi. Non molto diversamente da come accade in una psicoanalisi individuale, si potrebbe dire che per capire un gruppo si usano le nostre reazioni somatiche o emotive non per colludere col gruppo spontaneamente, o col paziente, ma per capire che cosa avviene.

Recentemente mi è capitato di fare l’esperienza di cercare di “applicare” le teorie bioniane sui gruppi, non più’ ad un gruppo di persone vive e presenti, ma al problema teorico del passaggio dallo stato d’animo bellicoso di un gruppo (l’equivalente del gruppo dell’aggressività all’azione belligerante. Nel corso di questo studio, mi sono trovata a fare una specie di excursus tra gli inni protestanti, a me ben noti dall’epoca scolastica, allo scopo di esemplificare un sistema di controllo spontaneo della bellicosità che la società cerca di mettere in atto, attraverso il sussumere di questa sotto l’egida e il controllo della chiesa. Direi che lo svolgimento di questa parte del lavoro mi ha permesso di capire che, perchè sia “viva” qualsiasi indagine “sociologica” che fa uso di teorie psicoanalitiche, una condizione minima ma necessaria deve essere che ci sia anche uno spazio della mente dell’analista nel quale egli è identificato col gruppo di cui parla, per cui può far uso delle proprie reazioni trasferenziali rispetto al gruppo. Forse la conclusione, lapalissiana quanto si voglia, è che in primo luogo, l’analista non può analizzare niente che non sia presente in qualche misura per lui, e che in secondo luogo, non può mai prescindere dalla contemporanea autoanalisi delle proprie reazioni.

Eppure, anche se questa sembra essere, ed è una conclusione evidente, che non si potrebbe non trarre, data la natura interrelazionale tra conoscitore e ignoto della psicoanalisi stessa, non sembra essere di per sé risolutiva delle difficoltà che tutti abbiamo quando si tratta di usare le nostre conoscenze teoriche e tecniche per capire la società. Non ritengo che sia fondamentalmente scorretto o metodologicamente inconsistente “applicare la psicoanalisi alla società ” nonostante la posizione metodologica di opposizione a questo uso della psicoanalisi che deriva dal fatto che il mondo non è (fortunatamente) una stanza di analisi, pur riconoscendo la serietà di questo atteggiamento.

Ritengo, semmai, che questi motivi di opposizione che derivano dalla pratica psicoanalitica possano trovare un superamento sia nel lavoro diretto con gruppi di persone interessate nel lavoro sulle dinamiche del gruppo, anziché sulle proprie difficoltà, sia nello studio delle reazioni trasferenziali proprie, ed anche quelle dei pazienti in analisi, rispetto alla società.

Mi pare che, visto che le difficoltà metodologiche sono superabili, la riluttanza che proviamo ad agire in quanto psicoanalisti, psicoterapeuti, psicologi, rispetto alle problematiche sociali, usando i nostri specifici strumenti tecnici, derivi piuttosto dal nostro mondo interno. In realtà penso che abbiamo tutti delle adesioni inconsce alla società in cui viviamo, come anche delle repulsioni nei suoi confronti, e la società è investita con una moltitudine di ruoli straordinariamente ricchi e vari.

Lo studio di queste adesioni può essere molto proficuo per la comprensione dei “moti dell’anima” della società presa come un insieme. Ma almeno una parte delle difficoltà che avvertiamo quando ci accingiamo a pensare psicoanaliticamente alla società che ci circonda, proviene dalle stesse nostre resistenze rispetto al recare disturbo al nostro universo. Emotivamente parlando, riusciamo a sopportare, più o meno bene, il disturbare noi stessi ed i nostri pazienti mentre lavoriamo, ma questo avviene in un ambito veramente ristretto, e pensiamo di poter contenere le ondate di disturbo entro le mura della nostra stanza di analisi. Ma forse non riusciamo a sopportare l’idea di disturbare un’entità più grande alla cui continuata esistenza, al cui “status quo”, riteniamo giusta o sbagliata che sia questa idea, di dover la nostra continuata esistenza. Per poter lavorare come psicoanalisti all’interno della società e per la società, dobbiamo cominciare a fare i conti anche con le nostre proiezioni inconsce sulla società. Bion afferma che il gruppo odia il venir sottoposto a scrutinio e studio, e forse tutti quanti avvertiamo proprio questo “odio”, anche dentro di noi, in quanto membri del gruppo, e cerchiamo di evitare di farne le spese.

Il Warum Krieg? di Einstein e di Freud pone una domanda alla quale non sappiamo dare risposta, ne sappiamo se sarà mai possibile darle una risposta esauriente, tanti sono i fattori in gioco. Penso però che lo studio degli aspetti inconsci dell’aggressività del singolo e della bellicosità dei gruppi sociali, partendo dalle molteplici manifestazioni visibili di questi sentimenti (il razzismo, il tifo sportivo, il ruolo dell’esercito in tempo di pace sono solo alcune di queste) possono essere delle aree di studio legittime ed appropriate per i professionisti nel campo della psicologia. Le applicazioni sociali della psicoanalisi costituiscono un campo ancora poco esplorato, e ritengo che sia possibile la sua esplorazione senza con ciò venire meno all’assetto mentale specifico dello psicoterapeuta e alla tradizione psicoanalitica che contiene da sempre, come caratteristica implicita una sorta di sfida allo status quo.

 

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Questo lavoro è pubblicato in Spiweb per gentile concessione dell’editore Borla 

Si trova in Bion P. (2011). Mappe per l’esplorazione psicoanalitica, Borla, Roma