Dossier

Il mobbing

25/04/13

Emozioni legate alle difficoltà lavorative e progetti terapeutici nel CSM di una ASL romana

Daniela Bonomo

Chi, come me, psicoanalista e psichiatra, lavora anche in un’Istituzione pubblica, gode di un osservatorio ampio su quanto la crisi economica che stiamo vivendo e che si ripercuote in modo drammatico sul mondo del lavoro abbia avuto ripercussioni sulle richieste di aiuto che giungono nei nostri studi e negli ambulatori pubblici che si occupano di salute mentale. L’Istituzione pubblica che si occupa anche di pazienti gravi è abituata a tener conto di quanto un’occupazione lavorativa sia importante, perché fornisce a questi pazienti la possibilità di mettere in campo le capacità residue, di opporre un argine allo spettro dell’isolamento, della regressione, della disgregazione. Un nucleo intorno al quale costruire un’area di “Io funzionante”, nonché una possibilità di riscatto sociale.

Oltre alla realizzazione di sé, al mettersi in gioco, altro elemento importante del lavoro è la condivisione. Ogni lavoro è per altri e con altri. La gratificazione per il riconoscimento del proprio valore, per un lavoro ben fatto, porta ad un aumento dell’autostima, fa crescere il senso di Sé, così come il suo contrario genera frustrazione e vissuti di fallimento, depressione e spesso comportamenti rabbiosi che tendono a mantenere la coesione di un Sé che rischia di frammentarsi.

In virtù di queste e altre considerazioni e compatibilmente con le risorse economiche, sono attivati dai Servizi Psichiatrici territoriali, tirocini lavorativi, inserimenti in cooperative di servizi o veri e propri inserimenti nel mondo del lavoro, rivolti a quei pazienti che, per la loro patologia, sono esclusi dal ciclo produttivo. Grazie a iniziative come queste, il paziente psichiatrico che lavora in falegnameria o nella cooperativa di giardinaggio può parlare del suo lavoro, delle difficoltà che incontra nello svolgerlo, dell’orgoglio che prova nel vedere un prodotto finito,nel sentirsi lodato per la sua bravura. E così il lavoro diventa metafora di altro e gli consente di rappresentare, in un mondo reale, le presenze e gli affetti del suo non rappresentabile mondo interno.

Può parlare anche del rapporto con gli altri, di come il condividere un luogo, un obiettivo,e le difficoltà per raggiungerlo,abbia creato un contesto solidale, di mutuo aiuto che ha comportato, anche fuori dal lavoro, un aumento della sua capacità di interazione e comprensione del mondo esterno e del suo mondo interno. Per non parlare della possibilità che il lavoro rappresenta un importante strumento di aiuto  nei suoi difficili processi separativi dalla famiglia.

La crisi economica ha fortemente penalizzato questi progetti, aprendo la porta a scenari di cronicizzazione dei pazienti e dei Servizi ma, più in generale, nell’ultimo periodo, le motivazioni alla cura includono sempre di più problematiche legate al lavoro che coinvolgono globalmente giovani e non più giovani, maschi e femmine perché  è sempre maggiore il numero di giovani che faticano ad entrare nel mondo del lavoro o a trovare un lavoro non precario e di livello pari al loro grado di qualificazione e competenza. Ed anche quando questo capita, la pressione sul rendimento è tale da portare a vere e proprie reazioni post- traumatiche. Un giovane di 29 anni, laureato a pieni voti, lavora presso un’importante azienda. E’ bravo, lavora senza orario fisso, in una settimana deve spostarsi da un continente all’altro, non può fermarsi: se si ferma rischia di perdere il posto, ma un giorno non riesce a partire, resta in aeroporto, è confuso. Quando si riprende, chiede aiuto per trovare un modo diverso di vivere, dove il lavoro sia una risorsa e non l’annullamento dell’identità.

Sempre più spesso, quindi, problemi legati al lavoro fanno irruzione nello scenario, nel setting della stanza d’analisi, nell’Istituzione, nell’ ambulatorio psichiatrico. Molte richieste sono passate, per motivi di disponibilità economica, dal privato al pubblico, portando con sé molte problematiche di perdita, di rifiuto, di vergogna riverberanti su di sé e sulla propria storia, ma indissolubilmente legate ad un contesto più generale, ad un’atmosfera condivisa. Una donna di 55 anni, di cultura medio alta, rappresenta la sua disperazione come un grande vuoto dentro, uno stato continuo d’allarme con fenomeni di depersonalizzazione e derealizzazione. Non si sente più se stessa, solo quando vede i nipotini quel vuoto interno e quell’angoscia scompaiono. Conduceva, con il suo compagno una vita agiata. Lui aveva una piccola ditta, lei era impiegata. Poi, con l’arrivo della concorrenza cinese, gli articoli che vendeva il compagno sono stati sempre meno richiesti e, alla fine, la ditta ha dovuto chiudere. Non senza aver prima contratto debiti che ancora stanno pagando. Ma mentre il compagno cercava un altro lavoro, anche per lei le cose cambiavano. Nel posto in cui lavora venivano licenziate delle colleghe, il carico di lavoro aumentava e la paura anche. Ed è questa paura che ora la attanaglia. Lei, che ha sempre amato il suo lavoro, ora ha i conati di vomito quando deve andarci; lei che non si è mai assentata, ora vorrebbe essere in malattia per lunghi periodi.

Il clima è diventato pesante. Il capo sottopone il personale a un controllo continuo, la solidarietà tra colleghi è un ricordo lontano, ora ognuno teme di essere il prossimo licenziato e guarda con sospetto gli altri. Lei, che ha il ruolo intermedio, è oggetto di angherie sia dai subalterni che la temono alleata del capo, sia dal capo che la vorrebbe più dura e che fa ricadere su di lei ogni calo di rendimento. Si sente oggetto di  quello stato di pressione e persecuzione che viene definito “mobbing”.  “Mobbing” viene definito il “terrore psicologico sul posto di lavoro” e comprende una serie di comportamenti  aggressivi e persecutori che uno o più colleghi, superiori o sottoposti, possono indirizzare contro un loro simile. La vittima di queste persecuzioni, il “mobbizzato”, viene emarginata, calunniata, criticata: spesso le vengono tolte le qualifiche che aveva e le vengono affidati compiti o di basso livello oppure che possono crearle difficoltà.

Il termine “mob” significa “assalire, aggredire, affollarsi intorno a qualcuno” e il “mobbizzato”  si sente sempre più ansioso, depresso, accusa sintomi psicosomatici. Riferisce spesso di essere terrorizzato all’idea di tornare a lavoro, spesso si assenta per malattia, può arrivare a farsi licenziare, a licenziarsi e persino a togliersi la vita. Nei posti di lavoro, al clima di cooperazione e solidarietà si sostituisce un clima di sospetto e paura; ognuno è minacciato dalla migliore riuscita dell’altro, dalla paura di perdere il posto.

Con il crollo della solidarietà ognuno è veramente solo, si sente tradito dagli altri, non riesce a distinguere più il bene dal male, il vero dalle proprie sensazioni, può sentirsi accerchiato da un mondo così persecutorio da andare incontro a gravi scompensi psicopatologici, a vere bouffée deliranti, a reazioni postraumatiche. Nello scenario può comparire la vergogna il ritiro dalle relazioni sociali, vissuti di estraneità riferiti ad un contesto diventato alieno, di depersonalizzazione e di impotenza: penso ad un insegnante universitario prestigioso, fatto oggetto di accuse infamanti rivelatesi false, e declassato per questo, che si è licenziato e chiuso in casa, non riuscendo più ad andare a testa alta.

Se poi, nella storia di queste persone, ci sono stati vissuti di rifiuto, la conferma dell’inutilità di ogni cambiamento, di un fato immutabile, possono portare a soluzioni drastiche e definitive. Anche la famiglia risente della situazione difficile in cui vive il “mobbizzato” che spesso finisce con il perdere anche le relazioni affettive. Il clima che vive nel posto di lavoro lo segue anche fuori e l’essere sempre sull’orlo della frammentazione lo rende inadatto ad intraprendere o mantenere relazioni interpersonali. L’universitario già menzionato aveva fatto trasferire la sua fidanzata, una ragazza tedesca, a Roma, con la prospettiva di vivere insieme qui. Il senso di indegnità, la vergogna non gli hanno permesso di portare avanti la relazione, l’impegno pratico e mentale nel cercare di dimostrare la sua estraneità alle accuse, hanno finito per allontanarlo dalla sua fidanzata che, dopo un po’ di tempo, lo ha lasciato. Un altro uomo di 40 anni, con una pesante storia familiare, riscattata attraverso il lavoro e la costruzione di una propria famiglia, non riuscendo a gestire la preoccupazione e la rabbia legate ad una pesante situazione di mobbing, in accordo con la moglie, decideva di giocare con il suo bambino piccolo per un tempo stabilito e di limitare l’esposizione del bambino al pesante clima familiare nel timore di potergli nuocere.

Data la sempre maggiore richiesta di aiuto, da parte di persone con questa problematica, nell’ambulatorio psichiatrico pubblico nel quale lavoro, alcuni di noi hanno pensato di dare una risposta a domande simili, attivate dalla stessa problematica lavorativa attraverso la creazione di un gruppo di persone che condividono la stessa situazione nel posto di lavoro. I presupposti da cui è nato questo progetto sono stati: la ricorrenza di vissuti emotivi e relazioni problematiche che possono essere messi in comune nel gruppo; il riferimento ad un contesto, l’ambiente di lavoro, che, pur nella variabilità delle situazioni, presenta temi comuni. Rispondere alle richieste di trattamento privilegiando gli aspetti individuali, intrapsichici o accettando la richiesta di terapia farmacologica, ci sembrava che potesse amplificare la sensazione, nel paziente, di trovarsi di fronte ad un problema esclusivamente suo ed avrebbe accresciuto i’idea di essere malato e inadeguato. Questo avrebbe accresciuto la sua angoscia e lo avrebbe fatto sentire ancor più isolato dal contesto. Obiettivo di questo progetto è invece quello di dare un senso agli stati emotivi intensi per meglio comprendere  la situazione in cui il paziente si è venuto a trovare , diminuire la persecutorietà e creare un contesto solidale. La specificità del lavoro terapeutico consiste nel passaggio da un modello clinico che fonda il suo lavoro sull’intrapsichico e sull’individuo, ad un altro che,pur non negando l’intrapsichico, dà al contesto relazionale un valore essenziale per comprendere i vissuti emozionali.

Il lavoro di gruppo consiste nel mettere strettamente in relazione i vissuti emozionali dei pazienti con le dinamiche organizzative di quello specifico contesto lavorativo. L’ipotesi è che, dare senso ai vissuti dei pazienti, focalizzando l’attenzione sulle dinamiche relazionali e organizzative del contesto in cui si trovano, consenta ai pazienti di comprendere rapidamente e in modo più efficace il loro problema emotivo.