Dossier

Lavoro e Cinema/Cinema e Lavoro

26/04/13

Agli inizi del xx secolo, milioni di operai e contadini, nei paesi dell’Occidente, conducevano una vita di fatiche e sacrifici, senza prospettive – in una parola, alienata. Il cinema, nato come arte popolare, offriva loro qualche momento di svago e divertimento – ma non solo: consentiva l’accesso a emozioni/ narrazioni inedite, “diverse”, con una loro autenticità, in un mondo segnato da un’implacabile rimozione degli aspetti più personali dell’esperienza.
Per questo, nel cinema delle origini, il lavoro è ben poco rappresentato – tutti lo conoscono fin troppo bene! Ha diritto soltanto a una presenza collaterale, come ingrediente in tutt’altre vicende, ai margini del quadro globale in cui si gioca la vita di una persona. Al cinema, il lavoro assume  – direbbe il filosofo Žižek – un’esistenza meramente “spettrale”.
Quando la presenza si fa più concreta, interviene una sorta di deformazione, per esempio attraverso l’uso della  fantasia e del fantastico, come avviene in due grandi film significativi intorno ai fatali anni ’30, Metropolis di Fritz Lang e Tempi moderni di Chaplin, l’uno fortemente drammatico nella sua visionarietà, l’altro segnato dalla particolare vena comico-satirica del personaggio Charlot.
All’apparenza opposti, sono in realtà due facce della stessa medaglia – la fabbrica ford-taylorista, dove domina già il robot: quello fantascientifico di Metropolis o l’operaio-macchina di Tempi moderni. In ogni caso, è della soggettività che si tratta: in quegli stessi anni, Freud ha posto il tema epocale della pulsione di morte, e insieme sta pensando al disagio – allo scacco – della civilizzazione umana.
Con qualche approssimazione, tutte la rappresentazioni cinematografiche del lavoro e del suo mondo potrebbero collocarsi entro i due modelli descritti. Da un lato, l’aspetto drammatico – e traumatico – della vita lavorativa, con risvolti avventurosi e talvolta fantascientifici, dall’altro la commedia, il comico – le vicende esilaranti di Stanlio e Ollio al lavoro – e persino il grottesco, che sarà sfruttato soprattutto nel cinema italiano anni ’60. Il lavoro appare comunque come una sorta di ‘oggetto d’amore’ che sempre tende a sottrarsi, e chi lo ricerca appare destinato alle ansie e alle delusioni dell’innamoramento.
In un film di Murnau, L’ultima risata, un portiere d’albergo muore letteralmente di dolore dopo aver perduto, con il lavoro, la sua bella divisa rutilante. Anche quando il finale è positivo – Furore, di John Ford – l’orizzonte è pur sempre quello della perdita e della nostalgia: nostalgia di un rapporto semplice e pacifico con un mondo del lavoro meno incerto e alienato.
Lo sguardo “in positivo” si può trovare in due filoni collaterali: quello del cinema documentario – con i capolavori, purtroppo poco conosciuti, di I. Ivens, di Olmi e De Seta, di F. Wiseman – e in quello del cinema scopertamente ideologico, in particolare, ma non solo, quello sovietico. E’ un cinema non privo di interesse proprio per la sua evoluzione: si va da Sciopero – capolavoro di Ejzenštejn – a certi film euforici degli anni ’30 sulla mietitura del frumento che piacevano moltissimo, senza distinzione, ai tre peggiori dittatori del secolo XX!
Si aggira qui il fantasma, tutt’altro che innocuo, dell’idealizzazione: basata sulla rimozione delle dinamiche distruttive attive nel rapporto tra il lavoro e il potere, quando quest’ultimo si presenta privo di limiti.  Sarà la psicoanalisi britannica a inaugurare una riflessione importante – partendo dagli “assunti di base” di Bion – su questa materia incandescente. Esiste, infatti, una rappresentazione del lavoro ‘sotto mentite spoglie’ in un genere cinematografico che non potrebbe sembrarne più lontano: il cinema di guerra.
Nelle “Tempeste d’acciaio”, come le descriveva Ernst Jűnger, il soldato è pur sempre l’operaio della fabbrica tecnologica di massa, e George W. Bush sembra dello stesso parere quando chiama “the job” la guerra in Irak. Ma nella guerra tecnologica, a differenza del passato, il lavoro non solo non manca mai per sua natura, ma è anche un lavoro per specialisti sempre più preparati, il che prefigura le gerarchie sociali – e psicologiche – della società post-bellica.
Solo che il dopoguerra, nell’Europa semidistrutta, è di nuovo un’epoca di lavoro assai scarso e difficile. La sua mancanza non è solo dramma, è tragedia. Il grido d’angoscia di questa terribile condizione si leva da un paese crudelmente ferito, dove solo il cinema riesce a dar voce, una voce forte, a chi vorrebbe ritrovare col lavoro una vita dignitosa.
Il paese è l’Italia, il cinema è quello della grande stagione del neorealismo.
Il successo mondiale di film come Ladri di biciclette, Sciuscià e altri di quegli anni, testimonia della capacità dei De Sica, Rossellini, Visconti, Antonioni e molti altri, di interpretare una nuova configurazione del significato del lavoro, che si trasforma da bene desiderato e perduto, a vero e proprio diritto, avvertito interiormente  come una sorta di “pulsione di ordine superiore” dalla forza  incoercibile, che innerva le vite delle persone in modo universale. Lavoro e democrazia coincidono.
Questo è il messaggio sotteso a una stagione veramente straordinaria per il cinema italiano: nel panorama mondiale, è forse quello che ha dedicato l’attenzione più viva e approfondita ai temi del lavoro.
L’Italia vive a quel tempo una delle più profonde  – e traumatiche – trasformazioni sociali, e implicitamente psicologiche, che abbiano mai investito un paese occidentale, con una migrazione interna di proporzioni bibliche, di cui tuttora siamo inconsapevolmente partecipi.
Tutto, in quegli anni, ruota intorno alla dimensione del lavoro. Il cinema ne restituisce la radiografia, ottimistica e contraddittoria insieme, quale appare nel mondo contadino e nelle grandi fabbriche, nelle borgate e nelle città, con l’accavallarsi di vecchi e nuovi modi di vivere, di crisi morali e di proteste insofferenti. Ne descrive le implicazioni psicologiche profonde, spesso meglio delle analisi sociopsicologiche del periodo.
Citiamo quattro film: Riso amaro, De Santis, sul lavoro nelle risaie; Il grido, Antonioni, sullo smarrimento di un operaio senza lavoro, Il posto, Olmi, sulla prima esperienza in azienda, Il ferroviere, Germi, sull’orgoglio e le aspirazioni dei tecnici: si vedrà così il percorso che porta, alla fine, a un rapporto sempre conflittuale, eppure temporaneamente pacificato, con un mondo di lavoro che alla fine c’è, è reale.
Sembra un percorso giunto al suo termine, con tutti i registi, piccoli e grandi, prima o poi positivamente coinvolti in una visione più ottimistica. Invece, le cose cambiano ben presto, perché la dignità del lavoro è ancora un miraggio, pur nel crescente senso di benessere.
E’ la volta della commedia, all’italiana, con la sua particolare atmosfera dolce-amara, che sconfina nel grottesco. Con il titolo di un libro di E. Zaccagnini, sono “ I ‘mostri’ al lavoro! Contadini, operai, commendatori ed impiegati nella commedia all’italiana”, e non per nulla viene citato il mitico film di un regista straordinariamente acuto, Dino Risi, appunto I mostri.
La commedia si fa portatrice di un messaggio che però non si può comunicare direttamente: il lavoro non sta più al centro della vita sociale, se non in apparenza, poiché il suo posto è stato occupato dal profitto, dal potere incoercibile del denaro, dalla sua violenza corruttrice. Ma non lo si può dire: registi, sceneggiatori, attori tutti insieme – da Mastroianni a Sordi a Totò, da Monicelli a Scola a Petri, a Pasolini – sfidano le censure implicite ed esplicite di quel periodo per parlare di un malessere crescente, destinato a sfociare nei terribili “anni di piombo”.
Nello stesso tempo, inconsapevolmente, essi abituano tuttavia il pubblico al loro stesso “discorso indiretto”, a ridere delle proprie disgrazie e frustrazioni, divenute quelle del “borghese piccolo-piccolo” incarnato poi, nella cifra del grottesco, da un altro personaggio mitico, il rag. Fantozzi.
Potrebbe essere davvero un oggetto di analisi con strumenti psicoanalitici questa ‘danza inconsapevole sull’orlo del vulcano’ – come nel finale del pasoliniano Teorema – che sembra ripetersi non solo nel contesto italiano, ma anche in ambienti culturali e in circostanze storiche molto  diverse.
Troviamo di nuovo questa sorta di danza ‘in morte del lavoro’ durante un’altra stagione, dentro un altro mondo. Sono gli anni ’80 del secolo scorso, quando la politica reaganiana e tatcheriana attacca frontalmente la struttura produttiva dei rispettivi paesi per sostituirla, senza troppi complimenti, con un lavoro ‘altro’, invisibile e onnipresente, il lavoro del capitale finanziario.
E’ stato notato come paradossalmente quegli anni drammatici, e per alcuni tragici, abbiano rivitalizzato il cinema. Un nuovo tentativo di realismo, di ‘discorso diretto’, è nato da registi come O. Stone – il volonteroso Wall Street – o come Ken Loach, prolifico e inflessibile narratore della working class sconfitta eppure ancora non domata del tutto.
Tuttavia, il filone dei ‘lavori alternativi’ inaugurato dal pluripremiato Full Monty, di Peter Cattaneo – il titolo si potrebbe tradurre con “servizio in camera” – ondeggia tra il malinconico e il consolatorio senza risolvere mai la contraddizione, se non facendo balenare, per i lavoratori disoccupati, una serie infinita di ‘sbronze’ pagate coi sussidi di disoccupazione.
Oppure si trova un rifugio nel mondo del porno, come in Irina Palm, dove si realizza la conciliazione tra l’utile e il dilettevole, con la socievolezza del sesso a pagamento. Non sembra, certo, il caso di scandalizzarsi, ma ancora una volta di riflettere sull’immaginario sollecitato da questo tipo di operazioni.
E’ la fine della capacità critica del cinema, e la rappresentazione del lavoro è forse destinata a un definitivo ritorno allo status ‘spettrale’?
In realtà, si è assistito, in questi ultimi anni, a un rinnovato sguardo critico, molto definito e specifico, rivolto da parte del cinema verso il mondo del lavoro: uno sguardo che mette a fuoco la disarticolazione delle relazioni di lavoro, le metamorfosi spesso drammatiche delle precedenti certezze, l’inatteso presentarsi – sia pur raro – di nuove opportunità.
David Fincher, in The Social Network, racconta come fosse un romanzo la creazione di Facebook da parte di un ventenne, spregiudicato e infelice studente di Harvard, ora multimilionario. Ovviamente, il cinema americano oscilla tra l’angoscia e l’ammirazione di fronte alle vite di questi neo-eroi, come in definitiva ha sempre fatto, e i discorsi più critici sul lavoro come realizzazione di sé passano attraverso l’artificio della rievocazione del passato, come in Sam Mendes – Revolutionary Road – o come nei destini al femminile di The Hours, di S. Daldry.
Uno sguardo veramente incisivo si trova in area francofona, con i film di L. Cantet, che osa temi durissimi come lo scontro sociale e generazionale insieme – Risorse umane – la follia del  vuoto sociale – A tempo pieno – e inaugura un filone sempre più frequentato da allora – il lavoro dell’insegnante, con La classe. Accanto a Cantet, i fratelli Dardenne di Rosetta, de Il figlio, de Il matrimonio di Lorna, capaci di un rinnovato sguardo à la Bresson sulla straziante ricerca di un’identità nel ‘luogo del lavoro’.
Ma c’è anche lo humour nerissimo e anarchico di Louise-Michel, di Delépine e de Kervern, in cui un malvagio Boss che ha chiuso la sua fabbrica in Piccardia lasciando le operaie senza lavoro, viene perseguito da due improbabili killer in una grottesca girandola di situazioni-limite, fino al “paradiso fiscale” dove si gode i suoi profitti, e doverosamente eliminato. Il film successivo dei due registi non è stato distribuito.
E’ anche giunto il tempo di una nuova ‘metafisica del potere’ che si riflette nella figura del ‘tagliatore di teste’, l’addetto ai licenziamenti in una organizzazione. Qui può essere interessante paragonare tre film diversi sul tema, come Tra le nuvole, di J. Reitman – U.S.A. – Cacciatori di teste, in originale “Le couperet”, la lama della ghigliottina, di Costa-Gavras, francese, e Volevo solo dormirle addosso, titolo singolare di un bel film di E. Cappuccio.
Tra i tre, il più dolente e sfumato è il film italiano, l’unico che abbozza il percorso psicologico di un uomo preso nell’ingranaggio di “uccidere o essere ucciso” che presiede al suo lavoro di ‘uomo dell’organizzazione’, un tempo motivo di orgoglio, sia pure tra i molti conflitti aperti da quel tipo di ruolo, ora pura e squallida figura di killer.
Riemerge come un fantasma mortifero “The Job”, la guerra: molto significativo il film di Katherine Bigelow sulla caccia e uccisione di Bin Laden, Zero Dark Thirty, in cui la protagonista è una donna, agente CIA, che letteralmente si annulla psichicamente e moralmente, tuffandosi nel compito che si è data, e alla fine contempla – e noi con lei – il tremendo vuoto di senso prodotto da una guerra interamente professionale, dove prede e cacciatori si scambiano continuamente i ruoli, privi di emozioni e, in definitiva, anche di qualsiasi idea diversa dal concreto risultato finale.
Un simile film proprio per questo rientra appieno nel campo dei film sul lavoro, rivelando tutta l’ampiezza della continua trasformazione degli esseri umani in Robot, come oggi viene sempre più richiesta: in questi neo Tempi moderni, la figura di Charlot è scomparsa, o forse lo sembra soltanto.
Dal punto di vista psicoanalitico, questo percorso nella filmografia sul lavoro fornisce diverse occasioni di riflessione – una sorta di nuova lettura del freudiano “Disagio della civiltà”, che sarebbe  meglio tradurre “Il mal-essere nel processo di civilizzazione” –  sulle nuove condizioni di vita, il nuovo orizzonte storico degli anni 2000.
Il ‘filo rosso’ non è difficile da individuare, sta nella continua ‘domanda di senso’ che il soggetto umano pone alla sua plurimillenaria condizione di ‘assoggettato’ al vincolo del lavoro come condizione di sopravvivenza.
E tuttavia, i contorni di questa domanda si fanno meno certi. L’elaborazione – “Labor” è il lavoro di chi ara il campo – è sempre la stessa cui pensava Freud nel suo “Ricordare, ripetere, rielaborare”, o sta impercettibilmente cambiando nella mente di analisti e pazienti?
Possiamo aggiungere a questa piccola ‘rivisitazione’ su “Cinema e Lavoro” un ultimo sguardo, a metà divertito, sul ‘lavoro’ dello psicoanalista visto al cinema.
Dai Misteri di un’anima in poi, il film di Pabst che non piacque a Freud, per molto tempo lo psicoanalista al lavoro non era comparso sugli schermi se non a piccole dosi, benché non fossero mancate le apparizioni degli analisti nella vita sociale, spesso associati a ruoli di investigatore.
Nei tardi anni ’90 del secolo passato, il tabù apparente viene a poco a poco infranto, e la macchina da presa coglie volutamente lo psicoanalista mentre fa il suo lavoro. Merito, o colpa, anche di Woody Allen che, in Harry a pezzi, mostrava la propria moglie analista furiosa per le sue tresche amorose con le pazienti di lei.
E’ solo l’inizio: a poco a poco il lettino analitico appare sempre più spesso, anche se usato in modi spesso bizzarri. Inoltre, viene definita “analisi” ogni sorta di psicoterapia. Ai giorni nostri, la serie televisiva In treatment si presenta ‘quasi’ come psicoanalitica, ed è evidente il tentativo di stimolare la curiosità, se non proprio il voyeurismo del pubblico per qualcosa di misterioso, forse proibito.
Non è il caso di tentare qui un approfondimento, che richiederebbe un’osservazione ben più circostanziata. Ma possiamo chiederci: lo spettatore che guarda e ascolta l’analista al lavoro, che cosa vede e sente in realtà? E’, il lavoro della psicoanalisi, rappresentabile? Che cosa sfugge alla presa dei sensi e del pensiero di chi “assiste”?
Una prima provvisoria notazione è: ciò che inesorabilmente sfugge è la relazione tra i soggetti, il loro vero lavoro. Analogamente, nello stesso modo sono figurabili ma non rappresentabili tutte le situazioni umane sostenute da una rete relazionale, la cui parte inconscia assume in realtà il ruolo maggiore.
L’educazione, la politica, la psicoanalisi sono i già noti ‘compiti impossibili’, eppure assolutamente necessari agli esseri umani, di cui parla Freud. Potremmo aggiungere la sessualità, quell’eros che registi – e artisti di ogni genere – si affannano da sempre a rappresentare, salvo scoprire che si manifesta in modo inatteso e sconvolgente là dove non lo si cercava. Ma questa è un’altra storia.
Qualcosa di simile, a conti fatti, sembra succedere anche per il nostro tema. Il lavoro, abbiamo visto, al cinema è di rado pienamente appartenente al registro della realtà. Questo fatto ci rivela il versante inconscio che proprio lui, il lavoro, quella parte ritenuta la più concreta della vita umana, comunque nasconde. Fargli festa, come in tutto il mondo il 1° di Maggio, significa riconoscergli un carattere di oggetto fondatore, quindi ‘sacro’, quindi degno di un rispetto – laicamente – religioso.
Forse, nella sua forma di arte altamente ‘popolare’, il cinema contribuisce a ricordarci proprio questo.

Aprile 2013