Dossier

Lavoro. Mercato finanziario. La crisi e il suo impatto sulla coppia analitica

25/04/13

Maria Grazia Vassallo Torrigiani

Questa scheda, pur sommaria e parziale, vuole mostrare come la psicoanalisi contemporanea stia di nuovo volgendo lo sguardo ai “disagi della civiltà”, per cercare di ampliarne la comprensione anche dal proprio vertice. “Le nostre letture del male sociale avvengono in termini di patologie sociali, di sofferenze psichiche, di malessere, ecc. È nel linguaggio della salute mentale che si esprimono ormai i numerosi conflitti e le tensioni della vita in società, ed è dal suo vocabolario che noi attingiamo ragioni di agire e modi di agire su essi. È attraverso i suoi concetti che comprendiamo i nostri mali personali come mali comuni, che possiamo trovare, anche quando non arriviamo a ridurli praticamente, un significato più vasto rispetto a noi e alle nostre sventure individuali”.
Con queste parole il sociologo Alain Ehrenberg,  Direttore di ricerca del CNRS, conclude un suo libro pubblicato in Italia nel 2010 – La società del disagio. Il mentale ed il sociale – dove offre un’approfondita rassegna dei principali modelli interpretativi americani e francesi della sofferenza psichica individuale, nelle sue correlazioni con le trasformazioni socioeconomiche introdotte dal capitalismo globalizzato e le conseguenti trasformazioni  del lavoro. Lo spirito americano della personalità e l’ego psicodinamico della psicoanalisi americana da una parte, e lo spirito francese  dell’istituzione e la concezione del soggetto nella psicoanalisi francese dall’altro, delineano differenti rappresentazioni del disagio, concordando tuttavia nella necessità di analisi e presa in carico di questi nuovi tipi di sofferenza.
La Rivista di Psicoanalisi n. 4/2011 ha ospitato una interessante intervista di Alberto Luchetti a Christophe Dejours uno degli psicoanalisti francesi più impegnato in questo ambito di ricerche – titolare tra l’altro della cattedra di Psicopatologia del Lavoro al Cnam – la cui azione ha promosso in Francia un fruttuoso e stimolante incontro tra la medicina del lavoro e la psicodinamica del lavoro basata sulla psicoanalisi. Luchetti ricorda come Dejours si sia trovato alla ribalta “nel processo di riconoscimento della rilevanza della sofferenza sul lavoro rispetto alla catena di suicidi avvenuti, per la prima volta, sui luoghi stessi di lavoro (France Telecom, ecc.). A questo proposito, Dejours ha decisamente ribadito che non basta analizzare la sofferenza come un’esperienza affettiva individuale, ma è necessario indagarla anche come espressione della destrutturazione del vivere insieme”, e tutto questo chiede riformulazioni sia alla psicoanalisi che alla sociologia. Nell’articolo, particolarmente interessanti mi paiono le considerazioni espresse in merito a quanto la valutazione individualizzata delle performance abbia trasformato il mondo umano e sociale del lavoro, collocando il singolo lavoratore in una dimensione di solitudine e di competizione in cui viene meno la possibilità del ricorso alla solidarietà reciproca come punto di forza per reggere di fronte a difficoltà e ingiustizia, capace di rappresentare – nelle parole di Dejours – un “nucleo di prevenzione” contro la sofferenza psicologica indotta dalle dinamiche produttive. E tuttavia il lavoro non è solo faticare e produrre.
Il lavoro, sostiene l’autore, può generare malattia mentale e persino il suicidio, ma può essere anche un mezzo e una risorsa per accrescere la propria soggettività e migliorare il proprio benessere mentale. Può anche giocare un ruolo importante per la crescita della civilizzazione umana, in quanto nel lavorare e cooperare insieme con rispetto e riconoscimento reciproco si attiva quel “potere federativo del lavoro” che ha una funzione di argine e di mediazione contro la violenza. In questo senso, Dejours mette in discussione la concezione freudiana del legame sociale come libidico-pulsionale, intendendolo invece come “rapporto con l’altro  che è in gran parte desessualizzato”. La crisi finanziaria, cui è seguita quella economica, è stata indagata da una prospettiva socio-psicologica dallo psicoanalista inglese David Tuckett, docente all’University College di Londra, e studioso altresì di economia e sociologia. In vari articoli, e soprattutto nel libro “Minding the markets: an emotional finance view of financial instability”, egli ha proposto una teoria di “finanza emotiva” per comprendere alcuni aspetti di instabilità dei mercati. Tuckett sostiene che in economia muovere esclusivamente da modelli matematici e dall’assunto che la razionalità guidi l’homo economicus, non è d’aiuto per capire il comportamento spesso caotico e incoerente dei mercati e di coloro che vi operano. Procedere in quel modo significa trascurare alcune componenti essenziali della psicologia umana, ossia i bisogni e le fantasie inconsce che giocano un ruolo in scelte e decisioni in qualunque ambito di attività.
Tuckett è partito da un certo numero di interviste a gestori di cespiti (asset managers) che operavano sui mercati USA, UK e Singapore, per investigare come  e perché avevano preso certe decisioni: nelle “narrazioni” che essi facevano – argomenta Tuckett – vi è la non consapevolezza che esse sono tenute in piedi da sottostanti fantasie inconsce. Utilizzando concetti psicoanalitici di derivazione klieniana e bioniana – quali phantastic oject, divide mind, groupfeel – egli ipotizza che gli investimenti (assets) finanziari vadano ad assumere la qualità di oggetti fantasmatici, investiti dai loro possessori di poteri straordinari e vissuti in modo inevitabilmente emotivo. I gestori di investimenti tenderebbero dunque ad operare in un “divided state” mentale, in cui per esempio eventuali dubbi sul valore di un cespite, o emozioni negative rispetto al rischio, vengono ignorate e sostituite dalla convinzione onnipotente che questo “phantastic object” renderà tutti ricchi e prosperi; oppure, alternandosi gli elementi presenti o ignorati, precipitare nella convinzione contraria. Un “divided state” comporta l’alternarsi, senza coerenza né stabilità, di credenze e idee o tutte positive o tutte negative. Ciò influenza erroneamente la valutazione della realtà che risulterà  sempre parziale, perché in momenti diversi ci sarà sempre una parte significativa della percezione dell’oggetto che non risulterà integrata, anzi ignorata e attivamente evitata dalla coscienza.

Questo funzionamento mentale è rilevabile non solo nel singolo individuo, ma diventa un funzionamento della mente gruppale, e può dar ragione di quella che a momenti è apparsa una sorta di follia collettiva dei mercati finanziari. A sua volta Flavia Morante, in “Omnipotence, retreat from reality and finance: psychoanalytic reflections on the 2008 financial crisis”, pubblicato sull’ Int.J of Applied Psychoan. Studies, v. 7, 1, March 2010, individua un potente fattore psicologico dietro la crisi del 2008: il bisogno collettivo di sfuggire la realtà di un mondo globalizzato sempre più complesso e fragile, trovando un illusorio rifugio nel possesso di denaro e proprietà immobiliari. Sull’onda di un ciclo economico favorevole, operatori finanziari, autorità di controllo e l’opinione pubblica hanno colluso nella illusoria convinzione – qualcosa di simile ad un rifugio psichico – che i mercati avrebbero continuato a garantire senza problemi ricchezza e agevolazioni ad un numero sempre crescente di persone.  Morante prende in esame quanto onnipotenza, illusione, assenza di figura paterna nel senso di rappresentante di realtà, abbia alimentato un’onda maniacale di rampante ottimismo, avidità e irresponsabilità. La crisi esplose quando alla fine la realtà mandò in frantumi l’illusione, e l’abisso che si rivelò mostrò il mondo in tutta la sua vulnerabilità.

La SPI ha avvertito l’esigenza di cominciare ad interrogarsi su tematiche di più ampio respiro sociale, organizzando a Roma, nel 2011, un Congresso Nazionale dal titolo: “Realtà psichica e regole sociali. Denaro, potere e lavoro fra etica e narcisismo”, di cui un report si può consultare sulla Rivista di Psicoanalisi n.4/2012. Anche la Federazione Europea di Psicoanalisi (FEP), nel suo recente congresso di Basilea nel Marzo 2013, ha ospitato un Panel dal titolo: “La crisi economica in Europa- Aspetti di deformazione e trasformazione”. Nell’introduzione Stefano Bolognini, Presidente dell’International Psychoanalytic Assiciation, (IPA),  ha richiamato alla necessità di indagare non solo le dinamiche inconsce di onnipotenza e perversione presenti nell’individuo, ma anche le perversioni etiche e valoriali presenti nella matrice sociale  della psiche individuale. Sono stati presentati tre lavori: più focalizzato sull’impatto e sulle implicazioni della crisi economica nella relazione analista/paziente quelli di Francesco Castellet y Ballarà e Anna Christopouolos, maggiormente orientato a cogliere la dimensione mentale gruppale di un’Europa in preda a minacce disgregative il contributo di Rupert Martin (le relazioni saranno pubblicate nei prossimi mesi sul sito della FEP).

Martin, che è anche analista di gruppo, in “The financial crisis in Europe and the impending loss of the Working Group Mentality”, volge lo sguardo alla situazione europea e alla crisi del progetto di unificazione. Il contesto è che i prodotti finanziari sono ormai scollegati dall’economia reale, e si basano sulla speculazione; l’avidità, camuffata da self-interest, ha guadagnato sempre più consensi fino a diventare accettabile in sé, mentre empatia e solidarietà verso coloro che vengono percepiti come più deboli è progressivamente diminuita, insieme alla capacità di sentirsi in colpa, ossia in termini psicoanalitici di assumere una posizione depressiva. L’attuale evoluzione “perversa” dei mercati finanziari, secondo Martin, si contrappone ad un consolidamento dell’integrazione europea, facendo sì che i paesi dell’eurozona si trovino adesso a combattere non solo per salvare l’euro e il benessere precedentemente creato, ma stiano combattendo per la stessa sopravvivenza dell’Europa come progetto culturale, minacciato da spinte nazionalistiche disgregative. I governi europei paiono blindarsi in modi di pensare che favoriscono il perseguimento del massimo beneficio per il proprio paese a spese degli altri, anche a rischio di un collasso del progetto Europeo, e le relazioni tra le popolazioni europee sembrano dominate da identificazioni proiettive che evocano immagini di “Greci oziosi”, o del Cancelliere tedesco che cerca di conquistare con le armi dell’economia quella supremazia che Hitler non riuscì a conquistare militarmente.

Per descrivere con strumenti concettuali analitici lo stato attuale del progetto europeo, Martin fa una analisi in termini di assunti di base bioniani di dipendenza/attacco e fuga, a cui aggiunge l’assunto “incoesione: aggregazione/massificazione” formulato da Eral Hopper. Castellet y Ballarà, in “The brutality of money in psychoanalysis: money as formless proteic symbol of basic emotional transactions in the analytic relation”, ha affrontato una questione poco frequentata in letteratura o negli scambi tra psicoanalisti: la “brutalità del denaro” nell’incontro analitico, la transazione economica che sta dietro la relazione d’aiuto, e i significati e i fantasmi che vi accompagnano dal versante sia del paziente che dell’analista. Il denaro non solo costituisce uno dei parametri fondamentali del setting, ma è anche – nella particolare congiuntura socioeconomica che stiamo attraversando – di particolare  rilevanza rispetto alla diminuzione dei pazienti e alle richieste di riduzione di sedute e di tariffe. In termini un po’ più brutali, ma realistici, è un fatto che i pazienti hanno bisogno del nostro aiuto – dice Castellet y Ballarà – e noi abbiamo bisogno dei nostri pazienti per sopravvivere con il nostro lavoro. Egli sottolinea l’inconscia sovrapposizione tra il denaro e il fondamento emotivo della vita psichica, dove attaccamento e dipendenza dagli oggetti primari vanno a rappresentare il nucleo fondante della stessa esistenza e sopravvivenza biologica. Il denaro è l’equivalente dello scambio emotivo e della relazione che instauriamo, del valore che a questa viene dato, e assume valenze che si correlano alla dimensione autonomia/dipendenza, e a quella narcisistica. Va sempre tenuto presente che esso è al contempo un oggetto concreto e simbolico, in cui piano di realtà e significati inconsci coesistono, e dunque occorre prestare molta attenzione a rischi collusivi.

Christopoulos, in “The impact of current economic crisis on the analyic dyad”I, invita a riflettere alle implicazioni della crisi sul funzionamento psichico di paziente e analista. L’impatto della crisi – ricorda – è multidimensionale e mette in gioco molteplici significati. Sia per l’analista che per il paziente c’è una realtà esterna che viene ad influenzare pesantemente la realtà interna. Il ruolo critico del fattore economico chiama in causa varie dimensioni del denaro, come per esempio autoconservazione e potere, così come gli aspetti correlati di sviluppo psicosessuale e relazione d’oggetto. La crisi, inoltre, comporta la perdita simbolica di ideali quali onestà, giustizia e responsabilità, fondanti i legami sociali e di collaborazione. In questo senso, analisti e pazienti vengono investiti dalla crisi in modi per certi versi simili; le diversità, naturalmente, . risiedono nella asimmetria della loro posizione specifica, e nello specifico funzionamento intrapsichico individuale. Va ulteriormente considerato – aggiunge Christopoulos –  che alcune caratteristiche della crisi creano spesso una crisi “nell’analisi”, e pongono una sfida all’identità analitica e alla salvaguardia del setting. Per evitare “deformazioni” nella relazione analitica, occorre che si presti attenzione non solo alle molteplici dimensioni di significato della crisi sul piano soggettivo, ma altresì all’impatto della crisi nella relazione analitica che inevitabilmente comporta – per entrambi i membri della coppia – interrogarsi sul significato dell’onorario e dei suoi aggiustamenti. Tutto questo attiva complesse dinamiche di transfert / controtransfert che richiedono di essere indagate ed elaborate, in modo che la crisi non impedisca o deformi il lavoro analitico, ma costituisca una possibilità di fruttuosa trasformazione della relazione analista / paziente.