Dossier

Sulla vergogna

26/04/13

 

 Sergio Muscetta

Le attuali “fortune” della vergogna richiederebbero certamente una qualche spiegazione sul perché, dopo essere stata tanto a lungo trascurata,stia diventando sempre più oggetto di riflessioni. Non è facile dire se questo cambiamento di attenzione sia dovuto a differenze di teorie impiegate o piuttosto a cambiamenti delle patologie all’osservazione dei clinici:credoperò che, preliminarmente, non si possa fare a meno di notare che dagli anni ’70 si è rapidamente fatta strada e affermata una nuova concezione dello sviluppo dell’individuo che attribuisce agli affetti un ruolo di primo piano.

E’ stata varie volte ricostruita-e sempre da angolazioni diverse-(Green,1977 e Emde,1988)  l’evoluzione della posizione di Freud sugli affetti che, agli esordi della sua attività (Freud e Breur,1893), aveva assegnato ad essi un ruolo di grande importanza nello spiegare la formazione dei sintomi nevrotici. Egli però non aveva la possibilità di evitare una concezione,storicamente determinata,che  portava a considerarli essenzialmente dei fenomeni di scarica,come qualcosa di cui l’individuo doveva  sbarazzarsi. Tutta la psicologia accademica,del resto, avrebbe a lungo continuato a concepire gli affetti come passive risposte agli stimoli e come forze disorganizzanti il comportamento. Anche in questo Freud fu un precursore: in “Inibizione,sintomo e Angoscia”cambiò completamente il suo punto di vista sugli affetti visualizzandoli nell’ambito di un modello organizzativo e ponendosi, per l’angoscia, dei quesiti affatto nuovi per l’epoca ma oggi di piena attualità:”…..qual’ è la sua funzione e in quali occasioni si riproduce?….”.Egli aveva inoltre una piena consapevolezza che con l’indagine “….sull’origine dell’angoscia,e degli affetti in generale,noi abbandoniamo il terreno che appartiene incontestabilmente alla psicologia per entrare nel territorio limitrofo della fisiologia”. Queste proposizioni sull’angoscia come adattabilità innata e sul segnale d’angoscia come risultato dell’adattamento a situazioni di pericolo nella realtà,erano così importanti da spingere Rapaport e Gill(1959) ad aggiungere ai tre punti di vista classici della metapsicologia freudiana (già integrati da Hartmann e Kris (1945) col punto di vista genetico,il punto di vista adattivo.

In realtà il punto di vista adattivo mal si concilia con il concetto di pulsione e con quello di conflitto intrapsichico, cardini della concezione dello sviluppo per Freud. Sarebbe stato il paradigma sistemico a cambiare radicalmente i concetti base dello sviluppo,a prendere in considerazione e a rispondere in pieno alle domande che Freud si poneva sugli affetti oggi visti come processi bidirezionali che hanno la funzione di mantenere e/o di disgregare le relazioni che l’organismo umano ha con l’ambiente (esterno o interno). L’approccio funzionalista assunto da Freud nel 1925 è diventato quello che attualmente si sta rivelando estremamente fecondo per la  sottolineatura dell’importanza dell’altro sia nello sviluppo che nel processo terapeutico con una documentazione sempre più accurata che le relazioni tra individuo e ambiente sono regolate da un costante monitoraggio affettivo.

Ma per tornare a questo punto alla vergogna inizierò col notare che da quando era stata definita la “Cenerentola delle emozioni spiacevoli” (Rycroft,1970) per la scarsa attenzione ricevuta in passato dagli psicoanalisti, questo sentimento, che tra i molti che punteggiano il  discorso dell’analizzando non è certo tra i più infrequenti, è passata ad essere considerata l’affetto  chiave per la psicologia del Sé, e paragonata all’angoscia per la psicologia dell’Io (Broucek,1982). Nel rimandare ai sempre più numerosi studi sull’argomento per la rassegna della letteratura (Kinston,1983) vorrei comunque notare che,inizialmente considerata da Freud un sintomo causato da un trauma (1896) e successivamente una difesa contro gli istinti sessuali (1905), praticamente ignorata dalla Klein, e spesso considerata indistinguibile dalla colpa (Hartmann e Loewenstein,1962), la vergogna sembra conquistare un ruolo specifico a partire dagli anni ’50 con Erikson. Nel rappresentare lo sviluppo dell’individuo e le sue crisi come una serie di alternative fondamentali, quest’autore mette la vergogna tra ‘quei sensi di’, “contemporaneamente modi di esperire accessibili alla introspezione, modi di comportarsi osservabili da altri e condizioni inconsce individuabili per mezzo dell’analisi, che caratterizzano il secondo stadio (quello muscolare – anale) dello sviluppo dell’uomo. Se la si colloca  nell’ambito dei processi di strutturazione del Sé e dei problemi di identità, che non si interrompono se non alla morte della persona, è da attendersi che varieranno i contenuti con i quali viene messa in riferimento  nelle varie età della vita e, in ogni caso, che possa essere più facilmente individuata all’epoca delle “crisi” evolutive. Se quindi ci si pone il problema dell’origine della vergogna, non ci stupiremo quando citeremo studi che tentano di rintracciarne le basi in epoche ben precedenti a quelle indicate da Erikson, né che lo stesso autore, successivamente (1974) abbia sottolineato che il sentimento che permea l’elaborazione adolescenziale del senso di identità  è appunto la vergogna. L’adolescente, così lo descrive in ‘Gioventù e crisi d’identità’, è altrettanto pieno di pretesti e di preoccupazioni d’esser visto che arrogantemente autonomo nelle ganghe di coetanei.

Nel porsi in maniera così dettagliata il problema di descrivere il completo ciclo della vita, Erikson riprende un’antica tradizione: basti pensare a come Dante, nel Convivio, descriva le quattro età dell’uomo che egli stesso del resto riproponeva dalla cultura classica. Appunto nel Convivio, la vergogna viene messa tra le “passioni” che l’adolescente deve provare per bene entrare, come egli dice, nella porta della gioventù. L’anima, dice Dante nella canzone che introduce al IV libro, “ubidiente, soave e vergognosa è nella prima etate”, e commentando questi versi compie, da poeta, un salto rispetto alla descrizione allora in auge della vergogna e che egli riprendeva da Aristotele  e da S. Tommaso. Tre passioni necessarie al fondamento della nostra vita buona compongono, secondo Dante, la vergogna: stupore, pudore, verecundia.Tra di esse,si potrebbe notare, non c’è omogeneità alcuna: basti pensare che mentre nella verecundia e nel pudore è implicito un atteggiamento di allontanamento dall’oggetto e un ritrarsi in se stessi, nello stupore dantesco c’è invece indicata la possibilità e la disponibilità all’oggetto. Ma è proprio in questa omogeneità discutibile che Dante coglie, parlando dell’adolescenza, la complessità di questo sentimento  che, dalla Bibbia in poi, è anche collegato alla conoscenza ed evidenzia forse fugacemente il rovescio della medaglia dell’atteggiamento del ritrarsi e nascondersi:la funzione e comunque la necessità, al contrario, di esporsi per poter conoscere. Dante, impegnato com’è a sostenere che la vergogna, nel suo insieme è da considerarsi un sentimento positivo, cambia totalmente l’accezione allora corrente di stupore. S. Tommaso aveva infatti distinto admiratio e stupor: chi ammira, egli dice, per non evidenziare i difetti si astiene momentaneamente dal giudicare, ma, passato il momento dell’ammirazione, conserva però la sua capacità di valutazione (potremmo dire che conserva la capacità di verificare se si tratta di oggetti idealizzati o di oggetti buoni). Non altrettanto può dirsi di chi è in preda allo stupore.

L’admiratio è dunque premessa al “filosofare”, lo stupor vi si pone come ostacolo insormontabile. Di quest’ultimo S. Tommaso coglie insomma gli aspetti distruttivi sulle capacità intellettuali (certamente attivi nel momento in cui si prova vergogna: quando c’è vergogna c’è indubbiamente poco contenuto cognitivo) laddove invece Dante ne sottolinea gli aspetti libidici: ma egli è interessato, in questa sede, a delineare i tratti salienti dell’adolescente e non poteva certo omettere di accennare alla sua  sete di conoscenza. Il contesto in cui S. Tommaso si occupava della vergogna era di tutt’altra natura.

A cimentarsi con la problematicità della vergogna  e di come non sia semplice ascriverla unicamente al bene, aveva già pensato un grande tragico, Euripide, che nell’Ippolito rappresenta col personaggio di Fedra le più essenziali implicazioni di questo sentimento, l’aidos.

Ricorderò brevemente la storia dell’Ippolito, figlio di Teseo e di una Amazzone che,al momento in cui si svolgono i fatti, è morta già da molti anni. Teseo si è risposato con Fedra e Ippolito è sul finire dell’adolescenza: la sua passione è di andare  a caccia con gli altri uomini e tanto ne onora la protettrice Artemide quanto disprezza Afrodite, le donne e l’amore. Afrodite, per vendicarsi, fa innamorare Fedra di Ippolito che, naturalmente, la rifiuta. Sconvolta da questa sua inconfessabile passione Fedra decide di uccidersi per la vergogna ma, prima di farlo, per vendicarsi di Ippolito, scrive un messaggio in cui lo accusa di averle usato violenza e così Teseo lo maledice e lo bandisce dal regno. Poseidone, padre di Teseo, ascolta la sua maledizione e mentre Ippolito è sulla via dell’esilio,fa comparire un toro che fa imbizzarrire i cavalli del suo carro; Ippolito cade e, morente, è riportato alla reggia; Artemide svela a Teseo le trame di Afrodite; Teseo chiede ed ottiene il perdono di Ippolito che subito dopo muore.

Euripide pone dunque gli spettatori davanti a un singolare dilemma: fino a che punto si sia nel giusto ad essere ossequienti all’aidos. Non siamo più in quella “civiltà della vergogna” (come è stata definita la civiltà omerica) in cui questo sentimento era la più potente forza morale nota all’uomo (Dodds,1978), quando sotto la pressione del conformismo sociale era sentito insopportabile tutto ciò che espone alla pubblica vergogna, la cui sanzione era la nemesis, la pubblica disapprovazione. Già Esiodo distingueva, come peraltro Omero, una vergogna buona (e  profetizzava infatti che “alla fine della nostra epoca malvagia ne sarebbe seguita un’altra peggiore e aidos e nemesis, avvolte in bianche vesti,avrebbero abbandonato gli uomini”) e una cattiva (“la vergogna spinge alla disgrazia, l’audacia alla felicità”).  E’ Euripide però a mostrare le contraddizioni in cui ci si può trovare ad essere ossequienti all’aidos che, come valore puramente esterno, non pone al riparo dalle funeste conseguenze che si cerca di evitare facendosi scudo di questo sentimento.

Freud aveva certamente colto l’importanza delle funzioni sociali di alcuni affetti: “tra le potenze che limitano la direzione della pulsione  sessuale – scriveva nel 1905 – abbiamo sottolineato il pudore,il disgusto,la compassione e le impalcature sociali della morale e dell’autorità”. Nella misura in cui sensibilizza l’individuo alle opinioni e ai sentimenti degli altri, la vergogna è importante anche per il fatto che agisce contribuendo ad assicurare al gruppo sociale particolari modalità di coesione e di condivisione di valori indispensabili per la sua sopravvivenza. Nello stesso saggio c’è più di un accenno alle funzioni adattive delle formazioni reattive e della sublimazione: “I moti sessuali di questi anni d’infanzia sarebbero, da un lato, inutilizzabili in quanto le funzioni procreative sono rimandate,e questo è il carattere principale della  latenza, d’altro lato sarebbero in sé perversi, cioè deriverebbero da zone erogene e sarebbero sorretti da pulsioni che, vista la direzione dello sviluppo individuale,potrebbero soltanto provocare sensazioni di dispiacere. Perciò essi risvegliano forze psichiche contrarie (moti di reazione), che costruiscono per un’attiva repressione di tale dispiacere i detti argini psichici:il disgusto,il pudore e la morale.” (pag.489).

Per quanto riguarda le funzioni adattive per l’individuo converrà naturalmente riferirsi agli studi degli etologi che hanno individuato nell’alternarsi tra la tendenza alla fuga e quella all’avvicinamento l’essenza degli schemi motori che compaiono in forma costante nei conflitti della timidezza, dell’imbarazzo e del flirt, schemi che sono risultati sovrapponibili in una grande varietà di culture (Eibl-Eibesfeldt,1977).Gli atti motori che esprimono gli affetti  hanno un ruolo specifico nel processo di comunicazione fra umani, poiché contengono commenti sul processo della relazione interpersonale indispensabili a mantenerla. Su queste funzioni meta-comunicative dei sentimenti è incentrato una gran parte del dialogo madre-bambino fin dai primi giorni di vita.

Per ciò che riguarda specificatamente la vergogna, lo schema motorio pare derivato dal nascondersi, come del resto è implicito nell’etimo della parola in molte lingue: verecundia da vereor, e in inglese shame, dal teutonico scham: nascondersi. L’obiettivo di rintracciarne le componenti originariamente adattive è parzialmente presente in Broucek (1982) che, nel tentativo di ricollegare la vergogna allo sviluppo narcisistico primitivo, comincia col citare una riflessione di Izard (1977) su una situazione in cui si può provare vergogna e che ritiene difficilmente interpretabile al di fuori di ipotesi che non pongano in primo piano degli schemi interattivi: il caso di chi, avendo visto qualcuno nella folla, decida di avvicinarlo per salutarlo credendo di conoscerlo, cerchi di attirare la sua attenzione, per poi scoprire improvvisamente di non conoscerlo affatto. La vergogna provata in questi casi è più o meno forte a seconda delle circostanze ma l’episodio è così caratteristico che si presta a fare delle analogie con l’angoscia cheil bambino prova quando sia diventato capace di distinguere la madre dall’estraneo. Ma Broucek propone che il prototipo della reazione di vergogna si stabilisca ancora prima, con la madre stessa che si comporti come un estraneo, in condizioni, cioè, in cui vi sia assenza di risposta o risposta paradossale da parte della madre (la cosiddetta ‘violazione di reciprocità’) (Tronick et al.,1978). Il pattern di risposta di un bambino di due mesi alla madre che gli presta attenzione è costituito,come è noto, da una sequenza di fasi successive, di orientamento e di riconoscimento, una fase espressiva e una di chiusura, (che può preludere tanto ad un ritiro  dall’interazione quanto ad un ritorno alle fasi iniziali), basate sulle aspettative da parte del bambino di un comportamento interattivo della  madre. Le aspettative del bambino sono a loro volta legate alle molteplici occasioni in cui sono state esercitate da una parte le sue predisposizioni innate ad interagire, e dall’altra le capacità della madre di adeguarsi alle richieste e ai ritmi del bambino. Quando invece la madre non fornisce risposte contingenti alle azioni del bambino (e ciò è stato documentato sia in situazioni naturali, ad esempio la madre momentaneamente distratta dalla presenza di un terzo al quale dirige la sua attenzione, sia in situazioni sperimentali, nelle quali veniva chiesto alla madre di immobilizzare  volontariamente il proprio viso in un’interazione faccia  a faccia) il  bambino, di fronte alla risposta non contingente diventa triste, sembra  perplesso, distoglie lo sguardo dalla madre, guarda fisso le sue mani chiuse a pugno e lancia rapide occhiate verso la madre in tentativi reiterati di ripristinare l’interazione.

Le registrazioni filmate delle interazioni madre-bambino da cui sono desunte le descrizioni che ho sopra riportato e quelle di altri studi sull’argomento, documentano che i partners sembrano incontrarsi come agenti in gran parte simili, reciprocamente e intenzionalmente reattivi, entrambi interessati alla comunicazione come ad uno scopo attraente in se stesso (Trevarthen,1984). Oggi infatti non si studia più il bambino ma il sistema madre-bambino concepito come sistema autoregolantesi; lo sviluppo mentale è posto in relazione alle interazioni grazie alle quali il bambino acquisisce schemi di comportamento che gli consentono di entrare in un rapporto cooperativo con gli altri membri della specie.

Abbiamo visto come reagisce il bambino di fronte a una reazione non contingente della madre: si ritira in se stesso e si nasconde:se l’essenza di questo schema motorio è quello che verrà successivamente rintracciato in momenti in cui si provano e si esprimono sentimenti di vergogna, appare  evidente che la funzione di questo sentimento è di proteggere l’integrità del Sé ed è dunque comprensibile che esso sia particolarmente utilizzato in periodi in cui i confini del Sé si trovano in una fase di ristrutturazione:nella prima infanzia alla comparsa dell’attività locomotoria,nello sviluppo puberale e adolescenziale,nella vecchiaia o durante malattie terminali. Sono fasi troppo diverse perché ,ovviamente,non siano evidenziabili elementi di diversità anche nell’espressione della vergogna che,come dicevo,è relativamente semplice da descrivere :chi si vergogna distoglie lo sguardo,volta la faccia girando la testa da un lato e verso il basso,ha tendenza a far apparire più piccolo tutto il corpo,a rannicchiarsi;e poi c’è il fenomeno del rossore che – notava Darwin –  fa della vergogna la più umana delle espressioni emotive. Il rossore non è sempre presente e in ogni caso la soglia dell’arrossire cambia con l’età: quando è presente,inoltre, è causa esso stesso di ulteriore vergogna. Non è solo la soglia del  rossore a cambiare con l’età: gli adulti tendono a modificare lo schema motorio della vergogna perché in molte culture non è desiderabile mostrare apertamente questo sentimento. Ma, al di là delle influenze culturali generali esercitate del gruppo di appartenenza, sono le specifiche modalità di accudimento ricevute ad essere estremamente importanti per ciò che riguarda le capacità dell’individuo a gestire i propri affetti: è infatti determinante il modo in cui i genitori e gli altri adulti che si occupano del  bambino moduleranno quella data esperienza affettiva: se ad esempio un’espressione di vergogna (facciamo il caso di  un bambino che abbia appena imparato a camminare e che, alla comparsa di un estraneo, si nasconda dietro la madre) sarà minimizzata, attenuata, riconosciuta in modo affettuoso e diminuita con un aiuto adeguato ad affrontarne le cause: ogni specifica modalità di gestione degli affetti da parte dei care-takers verrà successivamente utilizzata per elaborare le personali capacità affettive,ma anche per apprendere, attraverso la referenza sociale,le “cose da non fare” tanto che la vergogna è indicata come un ‘”emozione morale precoce” (Emde,1990).

In ogni caso in alcuni periodi del ciclo vitale i rapporti con le persone significative del nostro ambiente cambiano in maniera più intensa che in altri: il rapporto madre/bambino, ad esempio, si modifica profondamente quando compare l’attività locomotoria perché questa nuova competenza  unitamente a quelle cognitive,in corso di rapida modificazione,influisce  sulla regolazione della vicinanza e del contatto con le figure di attaccamento: diventa infatti un periodo di aumento di scambi e di esperienze con altri adulti, nell’ambito dell’instaurarsi di  un’importante fase di esplorazione dell’ambiente.

Sovrapponibile per alcuni aspetti è la fase adolescenziale: le modificazioni corporee in corso, con la parziale perdita di controllo sul proprio corpo (per  le esperienze di polluzione o per il menarca e le prime mestruazioni,per gli stravolgimenti dei feed-back motori provenienti dalle masse muscolari e ossee in accrescimento ecc.)determinano un iniziale reinvestimento evolutivo delle posizioni istintuali pregenitali che va di pari passo al costituirsi di un Super Io critico nei confronti del Sé. L’instaurarsi di un temporaneo predominio di sentimenti – l’imbarazzo,la timidezza e la vergogna – durante l’adolescenza è d’altronde favorito dal contemporaneo sviluppo cognitivo che permette, ad esempio, di entrare in rapporto con una “platea immaginaria”: l’adolescente acquisisce infatti una capacità – assente nel periodo della latenza – di pensare che  altri stanno pensando a lui,al suo aspetto,al suo comportamento e ai suoi pensieri. C’è dunque un grande aumento di esposizione del Sé all’ambiente, sia nella realtà che nella fantasia, modulata dalla vergogna in un periodo in cui i confini del Sé sono in fase di riassetto e di fragilità.

Anche nel corso di un trattamento psicoanalitico è possibile rintracciare dei periodi in cui è più frequente l’insorgere nel paziente di sentimenti di vergogna: lo sdraiarsi sul lettino, con la perdita dei normali feed-back visivi, l’oggettiva condizione di dipendenza e di affidamento che evoca uno stato di parziale regressione,la posizione di inermità rispetto a un estraneo,la novità della situazione: tutto concorre, all’inizio del trattamento, a  determinare transitori stati di fragilità del Sé con la comparsa di ansie persecutorie che hanno intensità varia a seconda della personalità dell’analizzando,a seconda della capacità e della disponibilità dell’analista a rilevarne l’esistenza, a utilizzarne la presenza e a modularne l’intensità. Va tenuto presente però che può non esser facile evidenziare questo affetto perché contro di esso e contro le penose sensazioni soggettive che l’accompagnano si possono erigere barriere difensive di vario genere.

Ho utilizzato le ipotesi delle difese maniacali come ce le propone la Klein nel suo lavoro sul ” Lutto e la psicogenesi degli stati maniaco-depressivi”(1978)  perché è un punto di vista molto diverso da quello di Freud: il processo non è infatti descritto in termini di ritiro della libido sull’Io, ma nel diverso orientamento dell’Io che, nell’impossibilità di investire un oggetto buono esterno mantiene, diciamo così, l’interazione con un oggetto buono interno. Questa oscillazione tra oggetto esterno e quello interno svolge, entro certi limiti, una funzione protettiva anche dell’oggetto esterno perché gli da l’opportunità di tornare ad essere buono: quello che  si potrebbe ipotizzare che avvenga durante gli episodi di “violazione della reciprocità”,quando, comunque,e vorrei sottolinearlo, il bambino non cessa di avere un comportamento speculare a quello della madre, giacché, come la madre, cessa di interagire. Quello di fare, almeno per un po’, quello che fa l’altro,è molto importante in analisi perché da’ la possibilità -se si riesce successivamente a rifletterci su in maniera adeguata-di poter capire quello che sta accadendo. Mi fu chiaro ad un certo punto che la perplessità che avevo nel formulare le interpretazioni era collegata a quello strano modo di agitarsi sul lettino che la paziente aveva durante i “cinque minuti della vergogna”, (nella consapevolezza che potevano essere ignorate o inglobate nel suo mondo maniacale): ma essa era oggettivamente un comportamento speculare alla sua ritrosia; inoltre spesso , nel tentativo di evitare questa situazione, mi ritrovavo  a non rispettare “la presa di turno” nel parlare, a sovrappormi con la mia voce sulle cose che stava dicendo lei, a entrare – si potrebbe dire – con forza nel mondo della paziente (alimentando però proprio quel rapporto sado-masochista che proponeva nel sogno): insomma è probabilmente da tener presente l’osservazione che per poter connettere in un rapporto intellegibile il proprio con l’altrui comportamento bisogna realizzare dei comportamenti.(Bordi 1983). E’ noto d’altronde che uno dei modi attraverso il quale la madre tenta di capire il bambino è imitandolo.Winnicott (1972) aveva individuato nella funzione specchio della madre un elemento di fondamentale importanza per la costruzione del Sé del neonato: “Che cosa vede il bambino quando guarda il viso della madre?” Vede se stesso.In altre parole la madre guarda il bambino e ciò a cui assomiglia è collegato a ciò che vede. Ma, è da aggiungere, il bambino non reintroietta la propria immagine bensì essa e la funzione che sta svolgendo la madre, che inoltre, non si comporta come uno specchio passivo ma come uno specchio che seleziona, tra i tanti, quei gesti, e in particolare le vocalizzazioni, a cui può riuscire a conferire un significato comunicativo.

Valorizzare dunque un punto di vista interattivo nel rapporto analista – paziente, includere nella concettualizzazione del transfert gli aspetti reali dell’analista, l’uso sistematico del controtransfert e l’ampliamento della concettualizzazione dell’identificazione proiettiva come mezzo di comunicazione, non hanno solo permesso l’ampliamento delle indicazioni al trattamento di patologie anche molto gravi e tradizionalmente escluse dall’osservazione degli psicoanalisti; hanno anche reso possibile evidenziare – come mi auguro di essere riuscito a mostrare – che la funzione degli affetti nel regolare gli scambi tra umani, essenziale nelle situazioni naturali, è ovviamente altrettanto fondamentale nel rapporto analista – paziente e si rivela prezioso per comprendere la natura e la funzione di quelli  fino ad oggi trascurati, come appunto la vergogna.

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