Dossier

Articolo di Maria Vittoria Costantini e Paola Golinelli

28/02/13

Carne e oro: il “rimodellamento” patologico dell’oggetto in “Primo Amore” di Matteo Garrone

Maria Vittoria Costantini, Paola Golinelli

L’intenso e drammatico film di Matteo Garrone “Primo amore” sembra bene esprimere ed evidenziare lo stretto rapporto tra cinema e psicoanalisi, rimarcandone alcune delle caratteristiche fondamentali sottolineate da Paola Golinelli in un recente lavoro (2004): “La condivisione del linguaggio dell’inconscio e del processo primario, del desiderio e della ricerca di appagamento e la capacità di creare condizioni percettive, emotive e mnestiche che facilitino l’emergere di processi mentali inesplorati. …..In questa prospettiva di lettura il cinema è il sogno di cui lo spettatore, seduto nel buio della sala, è il sognatore”.

E certamente questo film fornisce molte immagini che favoriscono la produzione di pensieri e processi mentali; per parte nostra vorremmo sottolineare alcuni aspetti che hanno a che fare con il corpo ed in particolare con la rappresentazione della lotta estenuante e drammatica tra il bisogno di controllo degli affetti e la corporeità nelle sue espressioni libidiche nel dramma anoressico.

Sono la pelle, la carne, il corpo nel loro insieme che per primi esperiscono il mondo rimanendone segnati, come dice Baudrillard : “il corpo è un carniere di sensi” e di affetti aggiungiamo  noi.

La storia di ogni individuo si sviluppa a partire dalla sua relazione con il corpo materno, legame unico e irripetibile di cui entrambi serbano il ricordo nella carne. Madre e bambino si compenetrano unendosi in un abbraccio che segna entrambi in modo particolare. I segni di quella relazione primaria risultano per lo più inconsci, non rimossi ma facenti parte di quella memoria che viene chiamata implicita, procedurale, potremmo dire “somatica”, iscritta nella storia del corpo del soggetto, di cui costituisce l’individualità e l’alterità.

Il senso della relazione primaria a sua volta impregna le successive che risentono di quell’impronta corporea, dal momento che, all’inizio dello sviluppo, relazione oggettuale ed esperienza corporea coincidono.

Freud nel 1925 scriveva che la parola “nasce dalla carne”. Ciò che portiamo nel corpo è la “nostra carne – esperienza affettiva primordiale. “Azzarderei chiamare metaforicamente questo tipo di conoscenza, conoscenza carnale, base della prima costituzione della realtà psichica, realtà esperita in qualità di affetti sensazioni, cioè esperienze sensoriali dal marcato riscontro emotivo”. (Racalbuto,1994)

Il corpo dunque come porta d’entrata e d’uscita delle emozioni, fonte delle sensazioni.

Nella filmografia di Matteo Garrone o almeno nei suoi due ultimi film il tema del corpo, pericoloso portatore di affetti, sembra essere centrale: esso diventa il terreno di una battaglia estrema che, attraverso la cancellazione di tutto ciò che è legato alla sessualità e alla corporeità nel suo aspetto libidico-emotivo, mira in realtà ad azzerare la dimensione affettiva che il soggetto sente paradossalmente come il pericolo maggiore per l’integrità del suo sé.

Gli affetti rappresentano una minaccia mortale nel suo originale film precedente, “L’Imbalsamatore”. Il protagonista, un nano deforme e perverso, costruisce il suo piacere attraverso l’imbalsamazione di animali bizzarri e rari che nella loro perfezione (esteriore) suscitano l’ammirazione di tutti. Questi oggetti imbalsamati sembrano permettergli il controllo del suo mondo interno ed esterno. Essi sono l’espressione della necessaria ed incessante costituzione/costruzione del fantasma di un Io-pelle (Anzieu), di un ideale perfetto, devono però contenere un corpo ripulito della carne, espressione dell’ incontro con un oggetto primario distruttivo che il processo di separazione svuota di ogni possibilità affettiva.

L’incontro con un giovane uomo alto e bellissimo ma vivo, in carne ed ossa, di cui si innamora, mette drammaticamente in crisi la sua costruzione intrapsichica.

Uno scenario simile, pur nell’evidente diversità, si ritrova in “Primo amore”, storia liberamente tratta da un fatto di cronaca e narrata nel libro “ Il cacciatore di anoressiche”.

Il film sembra idealmente continuare e riprendere il tema che ruota intorno al conflitto tra una fantasia di perfezione corpo-mente, che si può raggiungere solo a patto di eliminare la materia viva, impregnata di affettività e desiderio, e la realizzazione impossibile di un simile scopo: esso coinciderebbe infatti con l’eliminazione di Eros, cioè della pulsione di vita e quindi della vita stessa.

“Primo amore” narra la storia della relazione tra un uomo e una donna che ha inizio con un incontro cieco, dietro al quale ci sono nell’uomo fantasie che nascono da un progetto perverso/delirante, mentre nella ragazza prevale un bisogno di uscire dalla solitudine e dal vuoto affettivo. In lei sono evidenti aspetti di insicurezza che costituiscono la breccia che permette a lui di insinuarsi, invaderla e tentare di svuotarla.

Il film inizia con le dichiarazioni programmatiche dei due protagonisti: “Credevo fossi più magra” dice Vittorio, il cacciatore di anoressiche, “Allora me ne vado” risponde Sonia. E’ però evidente che ella non tollera la separazione/perdita dell’oggetto e che, di fatto, è istantaneamente catturata proprio dalla disapprovazione di lui. La sua reazione suggella il contratto perverso e dà inizio alla “folie à deux”.

Il regista ha una particolare capacità di identificarsi nelle storie altrui, calandosi nell’ambiente della provincia vicentina, in cui fa muovere e recitare gli attori con crudo realismo. Tutti scelti tutti sul luogo, si esprimono e si muovono con estrema verosimiglianza riproducendo l’inflessione dialettale e le modalità di relazione tipiche per esempio del rapporto padrone/operaio. Michela Cescon, Sonia, la protagonista femminile, durante le riprese del film è davvero progressivamente dimagrita di 15 chili, come voleva il regista, mentre, Vitaliano Trevisan, Vittorio era stato ingaggiato all’inizio come co-sceneggiatore. Scrittore originario di Vicenza, luogo in cui si svolge la storia, solo successivamente viene scelto dal regista come attore protagonista quasi a rendere la vicenda ancora più realistica. Anche l’uso della macchina da presa a spalla sottolinea il desiderio del regista di entrare nelle storie narrate fino all’intrusione nel concreto della fisicità degli attori.

Traslatamente in quanto analisti possiamo riconoscerci in questa modalità identificatoria, che è alla base del nostro lavoro. In effetti fin da subito siamo catturati ed entriamo nella mente dei personaggi, vivendone il dramma e l’angoscia.

Il protagonista maschile, Vittorio, erede di un piccolo laboratorio orafo, nella città di Vicenza, famosa nel mondo per la lavorazione dell’oro, ci appare subito portatore di una patologia grave che contempla la necessità di controllo dell’oggetto nella sua qualità materica: il corpo della donna che diventa per lui l’equivalente dell’oro che forgia. L’anaffettività, che balza agli occhi e che sembra essere sostituita dal desiderio di perfezione, lo porta a perseguire lo svuotamento del corpo femminile, mentre scarnifica sempre più le statuette d’oro stilizzate prodotte nel suo laboratorio. Vittorio non sembra capace di un vero e proprio processo di mentalizzazione e quindi il tentativo di controllare quella materia incandescente (l’oro) che è la carnalità, viene fatto per sottrazione concreta e progressiva dalla donna, e dalle statuine, che si assottigliano sempre più, diventando feticci scarnificati.

La magistrale invenzione del regista e della sceneggiatura è quella di intrecciare il racconto sui due piani, l’uno metaforico e l’altro reale, così la lavorazione, la fusione dell’oro e la lavorazione della donna e la fusione con lei, finiscono per svolgersi contemporaneamente e quasi indistintamente sulla scena e nella mente del protagonista.

Il progetto del protagonista viene presentato attraverso i due colloqui con lo psichiatra dei servizi: nel primo Vittorio dichiara che starebbe benissimo se trovasse la donna che gli permettesse di “mettere insieme testa e corpo”, intendendo un corpo anoressico.

Egli cerca una testa (ma quale testa?) lamentandosi che “dove c’è la testa non c’è il corpo e dove c’è il corpo non c’è la testa”. Nel secondo incontro comunica allo psichiatra di avere trovato “una testa”, ma di dover rimodellare il corpo.

Il goffo tentativo dello psichiatra di ricondurlo alla ragione, di fargli comprendere che un essere umano non può essere onnipotentemente modellato come fosse oro, non solo non sortisce alcun effetto positivo, ma anzi consolida l’aspetto scisso. Il dialogo tra psichiatra e paziente finisce per essere un dialogo tra sordi dal momento che il primo continua ad ingaggiare Vittorio su un piano di realtà concreta mentre l’altro sta parlando del suo fantasma interno. Lo scambio di battute tra i due si conclude in modo significativo: “Sonia sa in cosa si sta trasformando?” chiede lo psichiatra, il protagonista gli risponde “ so in cosa non voglio trasformarmi io”.

Come persone che lavorano in questo campo e che hanno o hanno avuto esperienza di servizi pubblici sappiamo che difficilmente un paziente di questo tipo arriva a rivolgersi ad un servizio psichiatrico, non manifestando egli  alcuna apparente sofferenza né preoccupazione per l’altro. Ci appare d’altronde poco credibile che uno psichiatra possa rispondere ad un paziente simile in maniera così normativa, giudicante e poco partecipativa, come se non avesse mai ricevuto alcuna eco della  psichiatria o della psicoanalisi degli ultimi 100 anni.

Queste scene potrebbero invece ben rappresentare la esteriorizzazione di un dialogo interiore del personaggio che mette a tacere la parte dell’Io che cerca di riportarlo all’esame di realtà, mettendolo di fronte alla differenza e alla separatezza.

La scissione del protagonista si palesa proprio nel momento in cui negando una parte della realtà cerca di spostare in avanti le “frontiere del possibile” per travalicare gli stretti limiti della condizione umana. (Chasseguet Smirgel, 1985)

Da qui ha inizio la storia dei due protagonisti.  Secondo l’autrice appena citata esiste un “nucleo perverso latente in ognuno di noi che può essere attivato in determinate circostanze” ed è nel momento dell’incontro con Sonia che Vittorio sembra perdere i limiti del sé e dell’altro, e iniziare a costruirsi una neorealtà personale.

La fantasia di modellare il corpo femminile appare come il negativo della creatività, che porta il protagonista a ridurre gli oggetti (d’oro e di carne) a feticci scarnificati. La potenzialità creativa rivela l’aspetto fallimentare nella costituzione del suo Sé e l’impossibilità del riconoscimento della distinzione di genere. La produzione feticistica gli garantisce l’immagine di un corpo che nega le differenze di genere, maschile e femminile. Lo scheletro a cui vorrebbe ridurre il corpo di Sonia, e le sue sottili sculture d’oro, sono purezza assoluta, raggiunta attraverso l’eliminazione di tutte le scorie e di tutte le forme.

Nel suo folle progetto Sonia deve ridursi ad un ‘Io scheletro’, senza più scorie/carne, né desideri o forme, quindi perfetta come un’idea astratta, per soddisfare la sua fantasia mortifera.

Quale testa dunque immagina Vittorio debba avere la sua compagna? Sembra che ne immagini una capace di funzionare solo dopo essere stata purificata di qualsiasi scoria libidico-emotiva. E’ facile comprendere che per lui l’affettività coincide con la carne e quindi quella testa deve stare su un corpo scarnificato.

Mettere insieme mente e corpo è per Vittorio un compito impossibile, tanto che, per convincere Sonia, arriva ad affermare: “era il tuo corpo che voleva mangiare, non la tua testa”.

Il funzionamento mentale del protagonista è tipico del pensiero perverso/anoressico, quando diventa prevalente il convincimento che la mente funzioni in modo onnipotente, senza limiti se privata del corpo portatore di bisogni e affetti, desideri, sofferenza, separazione.

Le fantasie presenti nella perversione cancellano l’angoscia della passività e dell’impotenza negando l’esistenza di un controllo materno esercitato sul soggetto. Queste fantasie negano che la madre abbia ferito o possa ferire il bambino. Da una certa prospettiva si potrebbe dire che l’individuo si crea una perversione al posto di una relazione. (Bak, 1991).

Il perverso confonde passato e presente, nega i confini della separazione, ha bisogno della finzione, dell’inganno, dell’illusione creata dal feticcio, del dominio e della manipolazione.

La costruzione feticistica è la difesa estrema e disperata di Vittorio dalle angosce di frammentazione del Sé in un universo interno, in cui le difese contro la persecutorietà sono sempre più rozze e primitive.

Nel saggio “Le figure della perversione” Masud Khan parla della tecnica dell’intimità per indicare il carattere e il clima emotivo delle relazioni oggettuali proprie della perversione. Mediante tale tecnica il soggetto cerca di “spingere dentro” ad un’altra persona qualcosa che appartiene alla sua natura profonda. L’autore sostiene che uno dei pochi talenti del perverso è proprio la capacità di creare un’atmosfera che sia in grado di sollecitare la volontaria partecipazione di un‘altra persona ad arrendersi alla logica perversa. Ciò comporta la sospensione del giudizio e della resistenza ai diversi livelli della colpa, della vergogna e della separazione.

Dice ancora Kahn “si offre così una situazione fittizia in cui due individui temporaneamente rinunciano alla loro identità, alle loro frontiere e tentano di creare una intimità corporea, finalizzata al massimo grado dell’orgasmo”.

Questa tecnica dell’intimità/prigione è incredibilmente ben rappresentata dal regista sia nell’ambientazione e negli interni, claustro-fobici e soffocanti, sia nell’invenzione di far agire alla donna il nucleo perverso dell’uomo.

La casa laboratorio del protagonista è completamente blindata, circondata da inferriate che servono a proteggere l’oro, come nel caveau di una banca, ma sottolineano anche la condizione di prigione interna in cui si dibatte il suo Io, fino al momento in cui, l’incontro con la donna, Sonia, gli permette di materializzare il suo nucleo perverso/delirante. L’acquisto della nuova casa è solo uno spostamento e rientra in questo contesto; essa non è un luogo di libertà e di costruzione di una relazione amorosa, come sia pure con qualche esitazione Sonia vuole credere, bensì un fortino isolato sulle colline vicentine, di cui il regista sottolinea la bellezza con una fotografia raffinata. Là Vittorio la rinchiude, quasi in un nuovo laboratorio in cui portare a termine ‘la lavorazione finale’ del suo corpo, “spingendo dentro” di lei la sua parte perversa, come dice Kahn.

Nel procedere del film la follia del progetto di Vittorio si svela progressivamente in un crescendo angosciante.

La vita psichica, afferma la Mc Dougall (1989) comincia con un’esperienza di fusione, da cui si genera la fantasia che esista un solo corpo e una sola psiche per due. Il fantasma del corpo unico è profondamente sepolto dentro di noi e continua ad esistere come nostalgia di ritorno allo stato di “fusione” illusoria. Il desiderio di divenire ancora una volta parte della madre universo della prima infanzia, senza patire frustrazione, assumere responsabilità o rivelare desiderio può realizzarsi solo rendendo inoffensivo l’oggetto primario, corpo materno onnipotente, stupendo e spaventoso insieme. Tale è il compito de “il cacciatore di anoressiche”.

Vittorio desidera la fusione con una Sonia in possesso di un “corpo scheletro” che lo metterebbe al riparo dall’angoscia e dalle esperienze affettive che la “carne” comporta: quelle della separazione dal corpo materno, della differenza dei sessi e delle generazioni.

Lui è dunque il vero anoressico, che non può vivere in sé il desiderio di fusione con l’oggetto primario, corpo materno mortifero. Deve allora espellerlo, scindendolo e spingendolo dentro un oggetto-Io-scheletro privato della carne: il tentativo di soluzione e riparazione attraverso la creatività é fallito, facendolo cadere nel progetto di modellare un doppio feticcio, il corpo di Sonia e il lingotto di oro purissimo.

Ci si pone inevitabilmente la domanda del perché Sonia si offra come oggetto della follia di Vittorio e non riesca a liberarsi di lui, neppure quando progressivamente si rende conto di venire imprigionata e usata come un oggetto di oreficeria, secondo l’equazione simbolica che lo perseguita.

Fin dalla prima scena Sonia appare fragile, insicura, dipendente, masochista, volta a creare dipendenza. La delusione di Vittorio nel vederla mobilita il masochismo difensivo di Sonia che non tollera la separazione/perdita dell’oggetto e che, di fatto, è catturata proprio dal suo disprezzo sadico. Anche in Sonia sembra essere forte la nostalgia di un ritorno alla “fusione” illusoria con l’oggetto primario; ciò la metterebbe al riparo dall’angoscia e dagli affetti che la “carne” a sua volta comporta, quelli cioè legati alla separazione.

Il masochista rivela nel film chiaramente la sua natura di depresso che spera ancora di non perdere l’oggetto (Mc Williams), quindi si assume la colpa della delusione dell’altro, esegue ogni compito che gli viene imposto, nell’idea che tanto più sarà amato quanto più aderirà alle richieste dell’altro, sacrificando se stesso.

Sonia accoglie immediatamente dentro di sé i fantasmi sadici di lui, permettendone così la realizzazione nel tentativo masochistico di mantenere l’illusione dell’unione fusionale. Proprio questa reazione della ragazza innesca la miccia della rottura psicotica in Vittorio, contro la quale la difesa perversa era il baluardo estremo. L’idea di realizzare ciò che colmerebbe il gap tra simbolico e reale, avere testa e un (non)-corpo insieme, per usare le parole del protagonista, sembra concretizzare la fantasia di unione con un corpo privo della pericolosità della carne.

Da questo momento in poi la posta in gioco si alza sempre di più e i due, ormai avvinti in una relazione perversa fortemente connotata in senso sado-masochistico, si allontanano progressivamente dalla realtà in cui ancora vivevano. Lui perde gli operai, i contatti di lavoro, i clienti, l’amico rappresentante. Venderà il laboratorio e i macchinari per comprare e costruire il folle “laboratorio”, nel quale Sonia è l’oggetto da modellare e purificare per poter portare a termine la “fusione” perfetta, il lingotto purissimo rappresentato per lui da un corpo senza carne e da una mente senza affetti.

Lei, man mano che dimagrisce e perde con la carne affettività, mobilità e vitalità, abbandona il suo lavoro di modella in una scuola d’arte, non riesce a chiedere più nulla al fratello, che pur intuendo qualcosa, non riesce ad aiutarla. Come nelle vere anoressiche, progressivamente, il tono dell’umore si modifica; Sonia piange facilmente, sembra rinchiudersi in se stessa e insieme diventa aggressiva, litiga con le colleghe nel negozio equo-solidale fino a farsi licenziare. Mentre le sue costole diventano sporgenti, l’attrice, che, come abbiamo detto, è effettivamente dimagrita di 15 chili, per contratto, ci appare sempre più posseduta dall’ossessione anoressica, come fosse totalmente identificata con il personaggio di Sonia.

L’angoscia invade progressivamente noi spettatori, come di fronte alle vere anoressiche. Sonia, ormai ridotta alla passività, consegna a Vittorio i pochi resti della sua autonomia, come l’anoressica fa con il suo despota interno, ossessionata dal cibo, dalla bilancia, dalle calorie, ma soprattutto dall’“illusione fittizia ” di soddisfarlo per trattenere un oggetto che è già perduto.

Cos’ha perso Sonia per essersi costruita un simile scenario intrapsichico di perdita e separazione impossibili? Ci viene fornito un solo elemento, la morte della madre, che potrebbe averla ingaggiata in un lutto inelaborabile. Possiamo ipotizzare che Sonia abbia nel suo psichismo uno spazio vuoto che Vittorio viene ad occupare affettivamente, per svuotarlo fisicamente. Una volta che ha iniziato a vivere da anoressica, Sonia apparentemente ne assume il ruolo con tutte le modalità, i rituali e i cedimenti delle vere anoressiche, che culmineranno nella scena drammatica ed efficacissima del ristorante.

Tuttavia la differenza sostanziale tra lo psichismo di Sonia e il nucleo centrale di quello anoressico è la legge morale cui l’anoressica vera si sottomette e che ricorda l’imperativo kantiano (Gammaro 2004). E’ un’istanza trascendente assoluta e necessaria a cui si deve obbedienza cieca, un Super-io primitivo che in realtà è più un ideale dell’Io talmente intriso di un Io ideale corporeo, perversamente e tenacemente legato all’onnipotenza primaria, da impedire qualsiasi crescita, che costringerebbe a confrontarsi con la madre arcaica primitiva e quindi con la morte.

Sonia non sembra provare questa colpa primitiva, terribile e devastante. E’ lui a provarla, agendo la colpa, controllando, punendo, blandendo Sonia e in questo modo evacuando in lei la sua colpa psicotica, omicida. In analisi, quando la paziente anoressica comincia a vivere la relazione affettiva con l’analista e a sentirne la dipendenza, l’angoscia aumenta e può spingere la paziente all’interruzione del trattamento.

Al contrario, di fronte all’eccesso di sadismo da parte di lui, Sonia avverte il pericolo mortale della relazione e comincia a reagire come un animale braccato, vedi ad esempio la scena nella cucina del ristorante. Il vomito successivo all’abbuffata è provocato in lei non dalla colpa, ma dal controllo sadico che lui le impone.

Mentre l’anoressica paradossalmente muore per poter vivere (perché morendo uccide l’oggetto primario persecutorio), si riduce all’osso per avere un corpo, tanto grande è l’angoscia di essere uccisa dagli affetti portati dal corpo carnale, Sonia si ribella proprio nel momento in cui realizza di essere lo strumento esecutivo delle fantasie di annientamento e di morte di lui.

Il corpo materno è il referente originario, che stimola l’impressione di un déjà-vu e alimenta la nostalgia di un ritorno, ma, nel tornare indietro alla carne che “era”, è incluso il timore di “non essere più”, la perturbante sensazione di perdere sé stessi, di annullare quella fisionomia psichica (oltre che fisica) che ci fa diversi da chiunque altro. E’ quello che la Chasseguet-Smirgel chiama  il corpo per due.

Quando Sonia realizza che sta veramente, fisicamente e mentalmente perdendosi, avendo perduto qualunque altra via di fuga, tenta di uccidere Vittorio per non morire. A Sonia non resta che l’eliminazione fisica dell’altro. Per poter vivere la protagonista deve eliminare fisicamente il partner e quella parte che lui le ha messo dentro e che ha necessariamente colluso con  il suo Sé più primitivo, fusionale e persecutoria.

Così ogni cosa sembra chiara.

In realtà il finale del film rimane incerto; noi non sappiamo cosa accadrà veramente. Vittorio, colpito alla testa, cade a terra, e sentiamo la sua voce rantolante che continua a delirare.

Qui il regista gioca con magistrale abilità filmica con la confusione tra i due protagonisti: lo spettatore non è più in grado di rendersi chiaramente conto se chi parla è l’uomo ancora vivo e delirante o la donna che ha fatto suo il delirio dell’altro, a terra morto. Nemmeno questa volta Sonia riesce ad andarsene: forse il persecutore è entrato veramente in lei.

BIBLIOGRAFIA

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