Dossier

Relazioni pericolose: brevi note introduttive al tema della violenza di genere

5/03/13

A cura di Benedetta Guerrini Degl’Innocenti

Se la grande sfida morale dell’Ottocento è stata lo schiavismo e quella del Novecento il totalitarismo, per questo nuovo secolo una delle sfide più impegnative sarà certamente quella della violenza sulle donne. La violenza contro le donne, la violazione dei diritti umani ad oggi più diffusa, distrugge vite, frattura comunità e rallenta lo sviluppo. Può assumere forme diverse e realizzarsi in diversi ambiti: violenza tra le mura domestiche, abuso sessuale nelle scuole, molestia sessuale sul lavoro o negli ambienti di cura, stupro da mariti o estranei, violenza nei campi profughi o come tattica di guerra. Accanto a queste ci sono altre forme, più subdole, di discriminazione che minano alla radice la straordinaria opportunità che le donne rappresentano dal punto di vista economico, sociale, familiare.

Il problema della violenza oggi non riguarda soltanto i paesi poveri o culturalmente arretrati, né la violenza intra-familiare riguarda soltanto ambiti sociali disagiati o culturalmente svantaggiati; al contrario la violenza, soprattutto contro donne e bambini, è tutto intorno a noi e nessuno può sentirsi completamente al riparo dai suoi effetti (de Zulueta, 1993). Nel 2002 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha presentato il primo rapporto mondiale su violenza e salute, che ha dato l’avvio alla campagna globale per la prevenzione della violenza. Con questo documento, per la prima volta, viene sancito il principio che la violenza è, in tutto il mondo, un problema primario di salute pubblica che deve essere prevenuto e curato (Malacrea, 2006). L’ultimo capitolo di questo documento, che ha per titolo “Violenza da parte di partner intimi”, tratta, oltre che dell’abuso fisico e sessuale, anche del maltrattamento psicologico.

L’aspetto che più di ogni altro appare “perturbante” nel contatto con le situazioni di violenza, soprattutto (ma non soltanto) per quelle che si manifestano in contesti intra-familiari o comunque “di coppia”, deriva dalle caratteristiche assolutamente speciali, caotiche e indifferenziate (e spesso anche impregnate di affettività) del rapporto che lega la vittima al perpetratore. I modelli psicologici come quelli fondati sul “ciclo dell’abuso” contengono elementi esplicativi certamente convincenti per quei casi in cui l’aver subito forme di violenza intra-familiare o avervi anche solo assistito, predisponga a un’assunzione di ruolo vittima/persecutore. Nei casi più gravi di abuso si ha spesso a che fare con donne che sono già state vittimizzate nel corso della loro esistenza – soprattutto nella loro infanzia – e che tendono a rimettersi in situazioni di rischio.

Ci sono poi anche situazioni relazionali caratterizzate da una violenza più subdola. In queste situazioni il maltrattamento non si realizza in una violazione del corpo della donna, ma piuttosto in una “effrazione” della sua mente realizzata attraverso un lento e inesorabile processo di colonizzazione, inizialmente inavvertibile e inavvertito (Filippini, 2006). In questi casi la donna è avvolta nelle spire di una morsa sempre più stringente, un’attenzione controllante che seduce e manipola al tempo stesso; dapprima seducentemente premurosa, per diventare poi manipolativamente punitiva attraverso una costante e perversa distorsione della realtà (Guerrini Degl’Innocenti, 2011). La domanda che inevitabilmente tutti coloro che entrano in contatto con la violenza domestica prima o poi si fanno è “perché le donne subiscono?”. Per rispondere a questa domanda si può ricorrere a costrutti teorici quali il concetto di masochismo, o di dipendenza relazionale. Questi costrutti però, se possono descrivere la possibile dinamica psichica che avvince la vittima al perpetratore, in certi casi rischiano di “biasimare la vittima”, come giustamente sottolinea Nancy Mc Williams (1994), “come se essa stessa provocasse coscientemente la violenza per cercare qualche forma perversa di godimento”. Quello che è spesso evidente è che il legame che unisce la vittima al persecutore è forte e che la vittima mostra una singolare acquiescenza, talvolta addirittura un atteggiamento protettivo nei confronti dell’uomo che la maltratta. Ma allora perché la donna si lega al suo persecutore così profondamente da evocare talvolta, negli stessi operatori deputati a soccorrerla, sentimenti di rabbia, frustrazione, impotenza e anche biasimo?

Non dobbiamo dimenticare che ogni persona è un insieme di tratti di carattere, di atteggiamenti, di schemi di comportamento e anche il maltrattatore, perfino il maltrattatore che diventerà omicida, al pari di qualunque altro tipo umano, è in realtà un amalgama di “multipli Sé” (Mitchell, 1988). Ci sono insomma, soprattutto nelle personalità meno gravemente disturbate, linee di funzionamento più vicine alla normalità, anche se proprio in queste personalità gli aspetti più adattati e normali non riescono a coesistere con quelli più patologici, ma tendono piuttosto a succedersi nel tempo. Così può accadere che all’improvviso, in una relazione che sembrava “normale”, irrompa nel quotidiano un alone di minaccia, di anormalità, di perturbante, qualcosa cioè che da familiare diventa estraneo, incomprensibile, minaccioso. Quando ciò avviene la donna reagisce con disorientamento e confusione. E’ quello che Giuliana Ponzio, in “Crimini Segreti” (2004), chiama “la perdita del punto di vista”: “Riuscire a conservare il proprio punto di vista ha che fare con la consapevolezza e la capacità di scelta, vuol dire avere un’identità; perderlo, non riuscire più ad essere certe, essere indotte a pensare che solo l’altro sia il detentore della verità significa diventare deboli e incerte, muoversi in un territorio insicuro, perdere consistenza e indebolire la propria identità. Eppure questa perdita nel maltrattamento è condizione per sopravvivere, è un accadimento interno di cui le donne non sono consapevoli perché avviene lentamente, a piccole dosi, mascherato e coperto dalla relazione affettiva”. Se la natura dell’uomo sia intrinsecamente “buona” o “cattiva”, o se sia l’ambiente a determinare il comportamento è questione lungamente dibattuta dalle principali dottrine filosofiche così come dalle principali teorie psicologiche sullo sviluppo dell’individuo. Fino a qualche decennio fa la maggior parte dei lavori sul tema dell’aggressività umana e della crudeltà erano basati sulla premessa che siamo individui guidati principalmente dai nostri istinti ereditari. L’”Altro” servirebbe solo come strumento o scarica di questi impulsi. Queste conclusioni vengono oggi messe in discussione proprio dalla biologia e dalla psicologia evolutiva che mettono in evidenza chiaramente quanto gli esseri umani siano indispensabili gli uni agli altri.

Oggi la maggior parte della letteratura nel campo della psicologia evolutiva sottolinea che l’essere umano è per natura un animale socialmente cooperativo, che nasce con una innata predisposizione alla relazione con un altro essere umano e che cresce e si sviluppa psicologicamente e fisicamente solo all’interno di una matrice relazionale capace di recepire, riconoscere e soddisfare i suoi bisogni emotivi. E’ quello che afferma John Bowlby quando scrive che:

“I piccoli dell’uomo […] sono pre-programmati per svilupparsi in modo socialmente cooperativo, che poi lo facciano o meno dipende in grande misura da come vengono trattati” (Bowlby, 1988, pag. 8).

Queste conclusioni, e la ricerca da cui scaturiscono, sono cruciali per coloro che si occupano della violenza domestica come fenomeno che può e deve essere compreso per poter essere prevenuto. Esse indicano che la distruttività umana, così come il trauma psicologico, non possono essere capiti senza passare attraverso il riconoscimento dell’importanza intrinseca delle relazioni umane nel nostro sviluppo e nel nostro senso del benessere, a partire dalle prime relazioni di attaccamento.

E’ proprio a partire dal ruolo che l’Altro (partner, figlio/a, genitore, etc) svolge nel mondo interno di colui che perpetra la violenza che alcuni modelli psicoanalitici mettono in luce le diverse dinamiche relazionali inconsce che possono fare da sfondo ad un agito aggressivo. Accanto ad esempio a forme di violenza più tradizionalmente inserite nella dinamica sado-masochistica, ne esistono altre in cui potremmo dire che l’agito violento svolga una funzione “auto-protettiva” (Glasser, 1998). In questi casi l’agito sarebbe una risposta primitiva scatenata da minacce all’integrità fisica o psicologica di natura sia esterna (attacchi all’autostima, frustrazioni, umiliazioni) che interna ( come situazioni di attacco da parte di istanze interne persecutorie o situazioni di minaccia di una perdita dell’integrità del Sé). La differenza fra queste due forme di violenza si può capire meglio proprio a partire dalla relazione che si struttura con l’altro, cioè con “l’oggetto” (per usare una terminologia psicoanalitica) su cui viene agita la violenza. Nella violenza “auto-protettiva” l’altro è percepito nel momento della violenza come un pericolo immediato che deve essere eliminato, senza nessun’altra implicazione personale e senza interesse per la sua reazione. Nel caso della violenza “sado-masochistica”, al contrario, la risposta dell’altro è cruciale: l’”oggetto” deve essere visto soffrire e per fare questo va preservato, piuttosto che eliminato. Un semplice esempio della differenza può essere quello del soldato che uccide il nemico in battaglia credendo che questa azione lo preserverà dall’essere ucciso, in contrasto con il soldato che cattura il nemico per torturarlo e vederlo soffrire (Yakeley, 2013).

In senso generale, entrare in contatto con il trauma psichico che la violenza infligge alle vittime vuol dire trovarsi faccia a faccia con la vulnerabilità dell’essere umano e, al tempo stesso, con la sua straordinaria capacità di compiere azioni malvagie. Certe violazioni delle convenzioni che regolano la convivenza civile possono essere troppo orribili per essere profferite ad alta voce: la risposta più comune alle atrocità può allora consistere nel bandirle dalla coscienza. Questo è il senso del termine “indicibile”. Nel conflitto fra il desiderio di negare eventi orribili e il desiderio di denunciarli a gran voce sta la dialettica centrale del trauma psicologico. Coloro che sono sopravvissuti ad atrocità spesso raccontano le loro storie in un modo così frammentato, contraddittorio e fortemente impregnato di emotività da minare la propria credibilità e sottostare così al doppio imperativo di rivelare la verità e nascondere il segreto al tempo stesso. Solo quando la verità è finalmente riconosciuta il processo di guarigione può cominciare.

Il trauma è stato definito come una “improvvisa interruzione dell’interazione umana” (Lindemann, 1944) perché la violenza traumatica incide nella carne e nello spirito della vittima soprattutto il senso di inermità e di distacco dagli altri. Il processo di guarigione per realizzarsi ha quindi bisogno di un nuovo contesto relazionale: un nuovo contesto all’interno del quale la vittima della violenza possa ricreare quelle funzioni psichiche che sono state danneggiate o deformate dall’esperienza traumatica. Queste funzioni includono capacità di base come la fiducia, l’autonomia, la capacità d’iniziativa, il senso di competenza, d’identità e d’intimità. Proprio perché queste capacità sono originariamente formate all’interno delle relazioni con gli altri, possono riformarsi solo all’interno di tali relazioni.

La psicoanalisi, che del rapporto inconscio con se stessi e con l’altro ha fatto il proprio oggetto di ricerca, di comprensione e di cura, ha cominciato negli ultimi anni ad allargare il suo campo di riflessione anche a quelle situazioni che, con un ossimoro concettuale, vengono abitualmente definite “violenza domestica”. Una violenza che, come vedrete nei contributi che seguono, può declinarsi diversamente rispetto alle caratteristiche del legame interno alle coppie coinvolte, ma che si caratterizza, sempre e comunque, per la perdita, drammatica ed estraniante del senso di familiarità, di appartenenza e di integrità del Sé.

 

Bibliografia

 

Bowlby, J. (1988) Una base sicura. Raffaello Cortina Editore, Milano, 1989.

De Zulueta F. (1993) Dal dolore alla violenza. Raffaello Cortina Editore.

Filippini S. (2006) Le relazioni perverse. Franco Angeli Editore.

Glasser, M. (1998) On violence: a preliminary comunication. International Journal of Psychoanalysis, 79, 887-892.

Guerrini Degl’Innocenti B. (2011) Attaccamenti perversi. 1 /2011

Yakeley, J. (2013) Working with violence. Palgrave Macmillan.

Lindemann, E. (1944) Symptomatology and management of acute grief. American Journal of Psychiatry, 101; 141-149.

Malacrea M. (2006) “Caratteristiche, dinamiche ed effetti della violenza sui bambini e le bambine”. In: Vite in bilico: Indagine retrospettiva su maltrattamenti e abusi in età infantile. Quaderni del Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza. Firenze, Istituto degli Innocenti,.

McWilliams N. (1994) La diagnosi psicoanalitica. Struttura della personalità e processo clinico. Astrolabio, 1999.

Mitchell S.A. (1988) Gli orientamenti relazionali in psicoanalisi. Per un modello integrato. Torino, Bollati Boringhieri, 1993.

Ponzio G. (2004) Crimini segreti. Maltrattamenti e violenza alle donne nelle relazioni di coppia. Baldini Castoldi, Milano.