Dossier

Il diritto di fronte alla violenza contro le donne

5/03/13

Marina Graziosi

Sul versante del diritto penale in tema di violenza contro le donne interviene con equilibrio e competenza Marina Graziosi.

Marina Graziosi ha  insegnato  Sociologia del diritto  presso la Facoltà di Sociologia dell’Università La Sapienza di Roma. Tra i tanti suoi scritti sulla costruzione giuridica del genere e sulla storia delle ideologie di legittimazione dell’inferiorità delle donne ricordiamo:“Infirmitas sexus. La donna nell’immaginario penalistico”, in  “Democrazia e diritto”,1993, 2, pp.99-143    e ” Alle origini della costruzione giuridica dell’inferiorità delle donne, in “Corpi e storia. Donne e relazioni di genere dal mondo antico all’età contemporanea”, a cura di N. M. Filippini e altri, Roma 2002.

 

1. La questione della violenza contro le donne rappresenta un importante esempio della ineffettività delle norme, del divario strutturale tra essere e dover essere, della oggettiva distanza tra la legge penale e la sua implementazione. Il diritto penale mostra infatti una sua intrinseca debolezza. Esso è uno strumento limitato di fronte a trasformazioni di fondo e di lungo periodo che dovrebbero coinvolgere la costruzione sociale delle differenze di genere e porre al centro della riflessione collettiva quella che Bourdieu ha chiamato la “virilità” connessa alla violenza.

Tra le maggiori difficoltà di implementazione del diritto penale vi sono quelle che riguardano l’intervento su contesti prevalentemente familiari, ambiti in cui la violenza si esercita nella maggior parte dei casi. Come si sa il maschio violento è quasi sempre una persona conosciuta, e/o amata: il partner, un familiare, un conoscente. Molto spesso, in questi casi, le violenze si consumano tra le mura domestiche, raramente ci sono prove o testimoni: è la parola di uno contro l’altro, circostanza che non agevola certo nella donna l’idea di affrontare un processo.

Un aspetto del problema spesso denunciato dalle associazioni e dalle avvocate che quotidianamente si occupano di violenza sulle donne è quello della difficoltà di accesso alla giustizia. Sembra infatti che esso sia di fatto assicurato solo ove siano presenti associazioni di donne che forniscano sostegno psicologico e giuridico, case-rifugio e centri anti-violenza per donne picchiate, avvocate disponibili a portare in giudizio casi difficili di violenza familiare. Le donne che devono fare la denuncia sono spesso scoraggiate, temono di uscire dal silenzio, spesso sono pesantemente minacciate. E la durata del processo che è difficile possa concludersi in tempi brevi, scoraggia ancora di più.

Quando poi il molestatore, il violento, è il padre dei figli o il convivente tutto è più difficile. Denunciare la violenza che è causata da una persona amata, comporta in ogni caso uno sforzo emotivo. Molte donne che hanno subito violenza non sporgono denuncia. Anche se negli ultimi anni molte cose sono cambiate, a giudicare i dati sulle violenze sommerse, ciò che è mutato non è abbastanza. E in molti casi i tagli recenti alla spesa pubblica hanno pesato in modo rilevante su molti comuni costretti a ridurre o a cancellare completamente i finanziamenti ai centri anti-violenza e alle case-rifugio per donne maltrattate il cui numero è in Italia completamente insufficiente. Secondo dati forniti da Telefono Rosa su 127 centri esistenti in Italia 99 sono gestiti da associazioni femminili e solo 61 hanno una casa-rifugio per complessivi 500 posti letto. Il Consiglio d’Europa raccomanda un centro anti-violenza ogni 10.000 abitanti e un centro di emergenza ogni 50.000 abitanti. In Italia cioè dovrebbero esserci 5400 posti letto.

 

2. L’ultima ricerca sulla violenza contro le donne realizzata in Italia dall’Istat risale al 2007. Alla fine di febbraio di quell’anno sono stati resi noti i risultati di un’indagine realizzata dall’Istituto e promossa dal Ministero delle pari opportunità, su 25.000 donne. I risultati dell’indagine sono clamorosi: duecento tentati stupri o stupri al giorno nel 2006.

Si è scavato anche – attraverso interviste telefoniche – nella memoria delle donne. Le interviste hanno riguardato fasce d’età tra i 16 e i 70 anni, e un arco di tempo molto lungo per mettere in luce anche la violenza fisica sessuale o psicologica subita nel corso della vita.   I responsabili della maggior parte delle violenze più gravi sono mariti, partner, conviventi o ex: il 67% degli stupri e il 37% dei tentati stupri. Seguono i conoscenti, rispettivamente col 17,4 e 27,4 % dei casi, e gli estranei: il 6,2% degli stupri e il 16,4% dei tentativi.

Solo il 5% delle vittime denuncia i propri aggressori. Secondo l’Istat alle statistiche giudiziarie sfugge una gamma di reati che vede ogni anno milioni di donne (presumibilmente almeno sette), come vittime; si tratta della cosiddetta “cifra oscura” il numero cioè dei reati non denunciati o non scoperti e quindi non puniti. Il dato forse più preoccupante è quello che riguarda le violenze fra le mura domestiche. Secondo l’indagine svolta tali violenze non solo non vengono denunciate ma spesso neppure percepite come tali. Solamente il 18,2% delle intervistate è consapevole che quello che ha subito è un reato, mentre il 44% lo giudica semplicemente “qualcosa di sbagliato” e ben il 36% solo “qualcosa che è accaduto”.

L’indagine ha anche affrontato un ulteriore aspetto della violenza di genere, il comportamento persecutorio durante e dopo la separazione il cosiddetto stalking, che sembra riguardare almeno il 70% delle donne separate.

 

3.   In Italia fin dalle prime proposte di legge sulla violenza di genere (la prima, che raccolse 300.000 firme nel 1979) ha preso avvio un ampio dibattito sull’efficacia del diritto penale in questi ambiti (la legge attuale risale al 1996). La riflessione è stata sviluppata soprattutto da studiose femministe e da donne impegnate nel movimento nella difesa e nel sostegno anche concreto delle vittime della violenza. Da allora molte trasformazioni sul piano del “costume istituzionale” sono avvenute. E significativi cambiamenti di mentalità possono riscontrarsi oggi tra medici, poliziotti, giudici e avvocati. Il massiccio aumento negli ultimi anni della presenza delle donne in magistratura, e l’ingresso delle donne prima nella polizia, e più recentemente anche nei Carabinieri, ha portato sicuramente ad una diversa sensibilità istituzionale sul tema. E significativo è stato l’emergere di gruppi maschili di riflessione e presa di coscienza sulla questione della violenza. Nell’ottobre del 2006 è stato redatto e reso pubblico un documento La violenza contro le donne ci riguarda: prendiamo la parola come uomini Il documento è stato presentato a Roma e in varie altre città dando luogo ad un dibattito approfondito.

Tuttavia la cronaca di ogni giorno ci informa di omicidi che avvengono in ambito familiare o nella cerchia dei conoscenti: di aggressioni e violenze di ogni tipo. Secondo una macabra contabilità fonti giornalistiche ci informano che in Italia nel 2012 sono state uccise 120 donne. Come si sa il più delle volte il pericolo non viene da lontano: l’assassino nella maggior parte dei casi non è un mostro alieno ma un nemico ben conosciuto.

E’ così che si è cominciato ad usare da qualche tempo il termine “femminicidio”. E’ questo un termine “politico” e insieme criminologico con cui si è voluto identificare non soltanto le uccisioni delle donne, ma più in generale tutti gli atti di estrema violenza compiuti da uomini contro donne “in quanto donne”: cioè comportamenti che rivestono caratteri di profonda misoginia, che incidono profondamente sulla libertà femminile, che ne violano i diritti umani nel pubblico e nel privato e che rimangono il più delle volte impuniti. Introdotto negli anni ’90 in ambito criminologico dall’americana Diana E.H. Russell, il concetto è stato utilizzato dall’antropologa messicana Marcela Lagarde e dal gruppo di madri Nuestras Hijas de regreso a casa che si battono perché emergano le responsabilità, anche delle istituzioni, nelle stragi di ragazze scomparse e uccise negli ultimi anni a Ciudad Juarez.

Ovviamente il femminicidio non è affatto un fenomeno solo di oggi. Ciò che è nuovo è la sua percezione come intollerabile. La storia criminale del nostro paese è costellata di omicidi di donne. I dati storici sono tuttavia non facilmente quantificabili attraverso le statistiche giudiziarie: come molti altri importanti ambiti della vita femminile la rilevazione della violenza in famiglia e i delitti ad essa connessi è stata a lungo trascurata. E’ vero che l’omicidio, l’uxoricidio, i maltrattamenti in famiglia e la violazione degli obblighi di assistenza familiare sono stati puniti nel tempo con pene elevate. Ma alcune norme, anche se oggi abrogate, giustificano l’uso della parola “femminicidio” nella complessa accezione odierna: esse testimoniano infatti della mentalità e dei valori pesantemente maschilisti di chi quelle norme ha costruite nel tempo.

Basti pensare al cosiddetto “delitto d’onore”, previsto da una norma abrogata solo nel 1981, o all’adulterio, che fino al 1968 era punito penalmente ma in modo differente per gli uomini e le donne e per queste ultime era considerato più grave. Il delitto d’onore, punito dall’articolo 587 del codice penale, identificava chiaramente il potenziale assassino dipingendo perfino la scena del delitto: “Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia…” veniva punito con una pena irrisoria rispetto a quella prevista per l’omicidio. E d’altra parte anche la libertà femminile è stata a lungo limitata dall’autorità patriarcale del maschio capo-famiglia, per esempio attraverso l’esercizio della patria potestà, fino almeno al 1975 quando si è introdotto un nuovo diritto di famiglia.

 

4.   E’ bene tuttavia segnalare alcuni limiti insiti in progetti di legge presentati recentemente in Parlamento, che hanno messo insieme questioni molto diverse: dalla tutela della vittima nel procedimento penale alla generica promozione della soggettività femminile nelle case e centri delle donne, fino ai codici di autoregolamentazione per i media e il contrasto al femminicidio.

Si tratta di leggi-manifesto, la cui principale funzione è quella di nominare come intollerabili le violazioni di diritti delle donne e di mobilitare contro di esse l’opinione pubblica. Sono una sorta di dichiarazione pubblica, un “mai più” di fronte a fatti terribili.

Il valore di questo tipo di norme nei contesti in cui sono prodotte non è tanto quello della efficacia nella risoluzione del problema quanto quello di una espressione collettiva di rifiuto rispetto a fatti che ripugnano all’umana coscienza come il genocidio: con il termine “femminicidio” si è voluta una parola nuova che desse il senso di uno sterminio, qualificabile appunto, come ha scritto Amartya Sen, come un genocidio nascosto. Il problema però è piuttosto un altro: il riflesso tutto negativo generato dall’illusione di poter estirpare il male soltanto attraverso il diritto penale. Quando ci si rende conto che il fenomeno persiste nonostante le buone leggi, l’effetto che si genera è davvero devastante, una sorta di balzo all’indietro, di arretramento che provoca la sensazione che ogni lotta sia inutile. Giacché le norme-manifesto in generale, e soprattutto quelle penali, quando stentano ad essere applicate, hanno nel sociale la pesante caratteristica di generare sconforto e senso di fallimento. L’illusione di cambiare il mondo attraverso il penale è naturalmente ingenua. Sappiamo che le forme attraverso cui può attuarsi un profondo mutamento sociale sono molto più complesse: il penale opera come fattore di contenimento, indica e pone all’azione umana dei confini non “legalmente” superabili.

Un ulteriore rischio è quello evidente del “populismo punitivo” portatore di fenomeni assai gravi come quello della eccessiva espansione della sfera penale, dell’aumento delle pene in assenza di garanzie, della artificiale creazione del capro espiatorio per andare incontro a generiche esigenze di giustizia. Da questo punto di vista occorrerebbe infine una maggior cautela nel qualificare la violenza familiare come “sempre in aumento”. Le fonti storiche ci parlano di un’Italia molto più violenta, con un numero di omicidi elevatissimo ancora alla fine dell’Ottocento. Il fatto che la civilizzazione dei rapporti costringa oggi a vedere ciò nel passato era considerato “normale” ed era colpevolmente ignorato o sottovalutato non può che farci sperare per il futuro.