Dossier

Figli dello strappo: la “maternità surrogata” accende barlumi di coscienza collettiva

21/03/16

Partendo dal collettivo smarrimento di fronte alla questione “maternità surrogata” come aspetto utopico eppur distopico del mondo contemporaneo, sto esplorando con Simonetta Putti e Silvana Graziella Ceresa ( Arpa ) il tema del desiderio di genitorialità tra onnipotenza e limiti.

Grazie alle moderne tecnologie abbiamo la possibilità di trasformare il desiderio in volere, il volere in “diritto al figlio”. Se l’infertilità è un limite imposto dalla “natura”, cosa avviene quando la Techne ci offre sopra un piatto d’argento la possibilità di negarlo o di lottare per poterlo assolutamente superare? A quale livello collochiamo il concetto di “responsabilità”?

L’argomento è in cima alle classifiche nei social network. Se ne parla e se ne scrive in Italia, in Francia, in Europa, nel mondo intero; a tratti, la faccenda appare come “una questione di vita o di morte”. Non c’è quotidiano o rivista che non svisceri la questione in tutti gli aspetti. Chiunque abbia la possibilità di esprimere un’opinione professionale versus personale sulla GPA (gestazione per altri), scrive, parla e opina. Come mai se ne discute adesso? Come mai dall’inconscio collettivo emerge con forza la figura dell’utero in affitto? Una madre da acquistare al supermarket dei desideri collettivi, una madre fatta a pezzi, scissa in ovulo, utero e cure; una madre ricomposta ad hoc, vagamente ammiccante all’androide Eva Futura raccontata da Villiers de L’Isle-Adam? Alla maternità frammentata si affianca il bambino come prodotto acquistato chattando con le candidate surrogate su internet; il bambolotto vivente, meta della favola narrata dal sistema della fecondazione assistita. Il bambino-robot è di volta in volta immaginato nel linguaggio dei media come assemblaggio di parti, idealizzato tesoro oppure temuto mostro; è il figlio-obiettivo, generato grazie alla scienza. La moderna Eva Futura non “partorirà con dolore”, perché ogni male viene subito sedato; lei ha imparato le tecniche di “distacco emotivo” nelle cliniche specializzate in GPA, ha dato il suo utero “in appoggio” a qualcun altro. Come protagonista assoluta di una “retorica del dono”, Eva Futura coglie la sfavillante possibilità decantata dalle scritte pubblicitarie americane: “Vieni con noi, diventa anche tu una madre surrogata. Aiuta le persone sterili a coronare il loro sogno. Vendi il tuo ovulo. Affitta il tuo utero: comincia il meraviglioso viaggio dell’orgogliosa surrogata” – tutte frasi ricorrenti sbirciando nei siti internet del caso.

Mi torna in mente un capitolo importante della storia della psicoanalisi, quello dell’isteria, “malattia femminile” così legata alla scoperta dell’inconscio. Già al tempo di Ippocrate – il termine deriva dal greco  ὑστέρα, che significa utero – si immaginava l’organo vagare senza meta nel corpo delle donne. Oggi la fantasia è concretizzata in un sistema che è diventato collettivamente isterico: lo sterile spirito del tempo che cerca “un utero in affitto”. Come non comprendere le paure che sorgono spontanee nelle donne – femministe o meno – e negli uomini che pongono dubbi o che addirittura contrastano la GPA?(Bianchi Mian-Ceresa – II° Congresso International Association For Analitycal Psychology – “Eva e il suo utero: il business della maternità surrogata e la perdita dell’anima”).

Le scrittrici e teoriche del femminismo negli anni novanta hanno lottato per riconquistare il legame con la madre, con le divinità femminili interiori. Rosy Braidotti ha scritto di madri, di mostri e di macchine invitando le donne a non farsi giocare dal gioco della tecnologia. Oggi sentiamo i “padri surrogati” dire con nonchalance che la madre è un concetto antropologico. Possiamo accettarlo? Forse no, non possiamo accettare di veder depredare il mondo simbolico della madre. La riflessione è stata ormai avviata, si è infuocata, è diventata incendio nel conscio collettivo. Siamo passati dal “non se ne parla” al “se ne parla ormai troppo”.

Con il mio gruppo di lavoro, mi sono sentita spinta ad approfondire soprattutto la questione del legame tra Psyche e Techne cercando di mettere in relazione l’una all’altra senza cedere alle seduzioni del nuovo e senza timori di apparire retrograde. Restiamo in attesa osservando e ascoltando, ma persino prendendo di volta in volta posizioni esplorative, per capire meglio ogni lato della lotta atavica tra movimenti opposti. Un’esplorazione mentale non da poco, riflessione congiunta che traccia molte domande e poche risposte. La drammatica condizione di coloro che non possono avere figli e che non possono pensarsi senza prole si connette alla cultura occidentale con note di disappunto (troppo spesso, ancora) verso le donne che non hanno figli, non ne vogliono, non ne faranno mai.

Penso a una mia ex paziente bulimica che si sognava spesso alle prese con un bambino: trovato per caso, da nutrire per forza. La paziente a volte perdeva questo pargolo nella folla, nella foresta; in altri sogni e incubi lo ritrovava. La ragazza stava facendo i conti con un corpo in ballo tra orgia e carestia e rifiutava una maternità tanto desiderata dalla sua stessa madre, la quale spesso e volentieri l’apostrofava con il mantra “Quand’è che farai un figlio?” La nascita del figlio di sua sorella calmò tutta la famiglia e placò l’animo pieno di contraddizioni della mia paziente, liberandola dal peso dell’adattarsi alle richieste familiari.

Se la questione maternità surrogata è saltata fuori dal vaso di Pandora e si è parata di fronte all’ignoranza collettiva, credo che tutto ciò sia da prendere come una risorsa per lavorare sull’archetipo del femminile in modo nuovo, per approfondirne gli sviluppi. E per lavorare, noi junghiani, sulla correlazione Anima – Animus.

Durante un incontro a Ordine dei Medici di Torino, io e Silvana G. Ceresa abbiamo trovato nuove domande da aggiungere alle nostre. Chi è la madre nella maternità surrogata? La madre-ovulo, la madre-utero o la madre-cura? Una sola o tutte insieme? Come è possibile e come sarà possibile per i figli della tecnica darsi una risposta soddisfacente? La ricerca delle origini non è un eufemismo. La psicologia transgenerazionale mette in luce l’importanza delle radici e dei legami genetici e narrativi,  a più livelli. Occorre continuare a lavorare per mantenere la riflessione in equilibrio dinamico tra le ricerche cliniche, che non sono esaustive (sugli esiti della GPA nei figli surrogati, soprattutto figli di omosessuali i dati sono veramente scarsi), gli studi sul legame intrauterino e sulla relazione madre-figli (Imbasciati, Peluffo e tanti altri) e la capacità umana di adattarsi a tutto, di sopravvivere comunque.

Io credo che, come ogni barlume di coscienza, un tema così numinoso e insieme oscuro abbia avuto bisogno di tempo per emergere, per uscire dall’ombra del non noto

Gli psicologi e gli psicoterapeuti, dopo anni di studi sulla relazione madre-figli possono avere voce in capitolo solo attraverso un confronto onesto. Occorre, e lo ripeto, una visione sistemica del problema, un approccio multi-disciplinare, che provi a far luce, attraverso la disamina della bibliografia esistente e delle attuali ricerche, nel buio della “surrogacy” con l’obiettivo di costruire nuovi quesiti, piuttosto che risposte, e nuovi strumenti di indagine.

La strada della presa di coscienza, dell’uscita dall’ombra di un contenuto inconscio, è fatta di sprazzi. Quando si parla di collettivo, il numinoso spesso ci coglie apparentemente impreparati; in realtà, ci siamo arrivati. Nell’introdurre il testo più divulgativo che Carl Gustav Jung ci abbia donato, “L’uomo e i suoi simboli”, l’autore scrive: “Abbiamo spogliato ogni cosa del suo mistero e del suo carattere soprannaturale; non c’è più nulla di sacro.” Nulla è più sacro, tranne, forse, la Techne, la quale ha ormai assunto il ruolo di divinità creatrice. L’esempio della maternità surrogata è emblematico in questi termini, mentre i contenuti inconsci rimossi – la potenza animale del legame con la madre, con la terra, con le nostre radici –  possono erompere e portare l’umanità a soccombere sotto le emozioni negative che esplodono nel collettivo. Tanto più si sviluppa la conoscenza scientifica, quanto più l’uomo si disumanizza, finisce per diventare creatura non più inserita nella natura, perde la sua identità inconscia ed emotiva con essa. Ed ecco che il rimosso emerge: è panico dall’ombra. “L’uomo è costretto a seguire inevitabilmente i suggerimenti della sua mente scientifica e inventiva e ad inebriarsi delle proprie splendide conquiste. Contemporaneamente però il suo genio rivela una terrificante tendenza a inventare cose che diventano sempre più pericolose, in quanto suscettibili di trasformarsi in micidiali strumenti di un suicidio universale.”

VALERIA BIANCHI MIAN – psicologa, psicoterapeuta, psicodrammatista. Conduce gruppi con le famiglie e di supervisione con operatori sanitari, conduco gruppi con caregiver di pazienti malati di Alzheimer o affetti da altri tipi di demenza, mi occupo di un progetto di scrittura dedicato alle donne (Medicamenta – lingua di donna e altre scrittura) e collaboro come redattrice con riviste di psicologia e letteratura: psychiatryonline.it, niederngasse.it. Con Golem Edizioni sto pubblicando “Favolesvelte”, raccolta di storie e poesie illustrate, scritti sulle contraddizioni dell’essere umano tra luci e ombre.