Dossier

L’identità prende corpo: il contributo fotografico di Molly Landreth

21/03/16

Il presente scritto prende spunto dal libro “Oltre l’immagine. Inconscio e fotografia”, (Postcart, 2015) scritto insieme a quattro colleghe (F. Belgiojoso, S. Calò, A. D’Ercole e C. Gusmani) e curato da Sara Guerrini e Gabriella Gilli.
Il libro approfondisce il lavoro di quindici fotografi che si sono occupati di temi di interesse per la psicologia come l’identità e il corpo, l’autoritratto, le relazioni, la morte e i luoghi.
Lo sguardo non è quello della critica fotografica né tantomeno della patografia. Il presupposto invece è l’incontro con i fotografi, nel tentativo di raccontare e leggere le loro opere a partire dalle loro stesse parole, dalle loro narrazioni.
La psicoanalisi, fin dai suoi primi passi, si è confrontata e ha dialogato con l’arte. Dall’incontro con essa ha potuto trarre spunti significativi; soffermandosi sulla creatività e sulla produzione artistica, la lente psicoanalitica ha messo a fuoco aspetti del mondo intrapsichico, del processo creativo e del funzionamento della mente di artista e di fruitore.
Sono diverse le forme d’arte su cui la psicoanalisi ha posto il suo sguardo: pittura, poesia, letteratura, scultura, cinema…
Il legame con la fotografia è più inconsueto, sebbene le immagini fotografiche siano molto affini ai temi dell’indagine psicoanalitica, evocando le immagini interne, i sogni e le fantasie.
L’atto del fotografare inoltre ha a che fare con la dinamica di introiezione e proiezione del fotografo e di colui che osserva la fotografia. Mette in gioco temi come la morte, come il desiderio irrealizzabile di fermare il tempo (“immortalare un istante” significa congelarlo, fissarlo, nell’illusione onnipotente di dare vita eterna a un attimo che, per sua stessa natura, è invece destinato a non tornare mai più, a morire).
Lasciando sullo sfondo l’ottica dell’analista o dello studioso che si avvicina all’arte per trarne significati e proporne interpretazioni, vorrei soffermarmi sull’altro vertice d’osservazione, ossia su quello del fotografo.

 

In questo contributo vorrei portare all’attenzione del lettore il lavoro di una giovane fotografa americana, Molly Landreth, che attraverso il suo progetto “Embodiment: a portrait of queer life in America” ha indagato i temi dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale, dando voce e rappresentazione alla comunità queer ( aggettivo inglese che significa strano, bizzarro, diverso, eccentrico. Inizialmente utilizzato in maniera offensiva per definire le persone gay, negli ultimi anni è diventato un termine-ombrello che indica la comunità LGBT: Lesbica, Gay, Bisessuale, Transessuale) dell’America di oggi.
Non ho potuto incontrare di persona la Landreth ma solo attraverso uno scambio di mail e registrazioni audio in cui mi ha raccontato, con grande generosità, del suo progetto e di come la fotografia l’abbia aiutata crescere.
Molly Landreth, nata in una piccola cittadina di campagna a un’ora da Seattle, trascorre un’adolescenza un po’ ritirata, si trasferisce poi in California per studiare e inizia così a conoscere la comunità queer, entra a farne parte e sperimenta un senso di appartenenza fino a quel momento sconosciuto.
La fotografia assume in questa fase un ruolo fondamentale: è proprio grazie all’aiuto della macchina fotografica che la Landreth riesce a compiere il difficile processo di individuazione, a definire la sua omosessualità, a sentire un senso di appartenenza rispetto alla comunità LGBT, e a sentirsi riconosciuta. I primi scatti fotografici sono autoritratti: l’autrice si studia, la foto diventa una sorta di specchio in cui ricercarsi. Una volta riconosciutasi, appropriatasi della sua immagine, sente l’esigenza di volgere lo sguardo all’esterno e inizia a fotografare gli altri, gli amici della comunità queer, fino a entrare in contatto attraverso i social network con persone anche lontane, accomunate dal desiderio di raccontare la loro vicenda. Nella storia di questa fotografa, vediamo come la dimensione artistica e quella personale siano indissolubilmente legate. Sono gli anni in cui deve decidere su quali temi rivolgere la sua attenzione, quali progetti fotografici intraprendere. Il suo interesse è tutto rivolto alla comunità queer; teme tuttavia di produrre lavori che non abbiano nulla di nuovo rispetto a lavori già esistenti sull’omosessualità. Si accorge però che il suo tema non può che essere quello e, infine, si “arrende”, dando ascolto a questo bisogno.
Embodiment nasce nel 2004: una raccolta di circa sessanta fotografie, scattate in diversi stati d’America, che ritraggono le situazioni più disparate. Vediamo preti evangelici del Texas, drag kings del Missouri, famiglie omoparentali, persone che hanno cambiato sesso.
Le motivazioni che spingono Molly Landreth a portare avanti questo progetto sono diverse, alcune più consapevoli, altre più indefinite. L’obiettivo che tuttavia le sottende è uno: arrivare a dare una rappresentazione autentica e rispettosa della comunità LGBT americana contemporanea, colmando il vuoto culturale e affettivo previsto dalla dicotomia “queer-diverso/eterosessuale-normale”.
Il titolo del progetto deriva dal verbo inglese ‘to embody’ che significa incarnare, personificare. In questo caso è l’idea di queer a prendere forma, ad essere incarnata.
Un aspetto fondamentale riguarda l’autenticità, proprio nella consapevolezza che l’immagine che viene data delle persone omosessuali, bisessuali e transessuali, è solitamente parziale, filtrata da pregiudizi, nella quale si sottolineano gli aspetti più eccentrici, legati per esempio alla trasgressività e alla perversione. Le fotografie di cui stiamo parlando invece vogliono cogliere la complessità delle persone ritratte, le loro storie, tenendo in considerazione fattori come la razza, il genere, la religione, i luoghi in cui vivono. Per poter fare ciò viene chiesto ai partecipanti di decidere in quale luogo farsi ritrarre, se da soli o con altre persone, di portare oggetti importanti e di decidere come vestirsi. La fotografia diventa così il risultato di una collaborazione tra l’artista e le persone incontrate, a cui chiede di essere autentiche e spontanee davanti all’obbiettivo.
Vi è una scelta significativa anche nel tipo di strumento utilizzato per scattare le fotografie. Il banco ottico usato dalla Landreth è uno strumento antico, richiede un tempo di preparazione lungo, funziona con negativi singoli e le immagini che si ottengono sono molto nitide. Le fotografie evocano così i vecchi ritratti di famiglia. Viene data grande importanza alla preparazione della posa, si scattano solo poche foto, forse un paio, si crea un vero e proprio spazio di dialogo e condivisione con i soggetti fotografati, vi è un ritorno alla lentezza e all’attesa. Tutto ciò può essere letto come risposta al bisogno dell’artista di creare una nuova connessione tra la comunità queer e la storia del ritratto fotografico: “All’inizio del mio progetto ho fatto una scelta molto consapevole utilizzando una vecchia macchina di legno e il grande formato. Volevo collegare i miei ritratti alla ‘storia del ritratto’, dalla quale spesso gli individui queer sono stati esclusi (o invisibili al suo interno)”.
Le immagini prodotte sono diverse. Ogni fotografia racconta una storia.
Alcuni decidono di farsi ritrarre da soli, altri in coppia, altri ancora in gruppo.

 

I luoghi cambiano: troviamo fotografie scattate nelle case, in luoghi pubblici, in spazi aperti; le persone scelgono se mostrarsi nude, con gli abiti di tutti i giorni o in costume. Sono immagini che illustrano diverse sfumature, da quelle più intime e riflessive, a quelle più provocatorie, spudorate, in cui compaiono aspetti di esibizionismo.
Nel corso degli anni il progetto Embodiment è diventato anche un portale su cui trovare fotografie, filmati e articoli che riguardano la comunità LGBT. Le persone che hanno partecipato al progetto possono commentare, a distanza di tempo, le foto in cui sono ritratte. Il tutto crea un effetto molto dinamico e vivo in cui il dialogo e il confronto la fanno da protagonisti.
Credo vi sia una caratteristica che balza all’occhio nelle fotografie di Molly Landreth e anche nel suo modo di raccontare il progetto. Parlo della fierezza, frutto della fatica che si deve compiere per conoscere se stessi, riconoscersi e conquistare il proprio posto nel mondo. Un sentimento che spesso arriva alla fine di un articolato viaggio fatto di delusioni, ferite e vergogna.
Il valore artistico delle fotografie di Molly Landreth acquisisce così un valore maggiore, divenendo per la fotografa ma anche per lo spettatore, uno strumento molto semplice per cogliere una parte della realtà, per parlare di identità di genere, di orientamento sessuale e di storie di vita. Con la speranza che la curiosità e l’interesse possano spingerci alla ricerca di significati, alimentando quella meravigliosa e rara attitudine del porsi domande.

MARIA ALIPRANDI è psicoterapeuta a orientamento psicoanalitico, si occupa di adulti e adolescenti. Lavora per lo Studio ArteCrescita di Milano e per l’Associazione “iSemprevivi” Onlus. Interessata al legame tra psicologia e fotografia, utilizza la fotografia nella pratica clinica e in ambito formativo.