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Adolescenza

Adolescenza

A cura di Anna Maria Nicolò

L’adolescenza non è solo una fase temporale di transizione (come il titolo di un famoso libro di Peter Blos), ma è piuttosto un processo organizzativo, un enzima che attiva la mente verso la trasformazione propria dell’età adulta. Anche gli studi neuro psicoanalitici supportano questa idea mostrando il potente rimodellamento del cervello, della corteccia, delle connessioni sinaptiche che avviene nel corso dell’ adolescenza. Il vecchio aforisma di Evelyne Kestemberg (1980) era molto acuto a questo proposito quando affermava che tutto si prepara nell’infanzia, ma tutto si gioca in adolescenza. Questa posizione non è senza conseguenze e sullo sfondo di queste proposizione vi è il dibattito tra continuisti e discontinuisti e cioè coloro che vedono la crescita dell’individuo in una continua progressione ma soprattutto ritengono l’adolescenza una ricapitolazione dell’infanzia e altri che invece segnalano l’emergere in adolescenza di processi trasformativi nuovi che determinano nuovi percorsi. Specifici sono i compiti evolutivi che questa età della vita comporta ed essi sono l’integrazione della sessualità, l’individuazione/separazione dal passato infantile, dal corpo infantile e dagli oggetti parentali infantili con il lutto evolutivo conseguente, l’integrazione dell’aggressività e quella trasformazione dall’azione al pensare-sognare che è anche uno degli obiettivi dell’analisi. Nuove sensazioni mai sperimentate prima emergono in adolescenza e riguardano l’avvento delle trasformazioni puberali: la tempesta ormonale, il cambiamento corporeo, la nuova statura fisica, la maturazione sessuale e le nuove esperienze legate al menarca, al pubarca e all’iniziazione sessuale. Quest’ultima permette l’emergere, in particolar modo nella ragazza, di sensazioni nuove connesse con lo sperimentare gli organi interni (Laufer, 2002; Nicolò, 2011). In adolescenza, esistono sia una sensorialità che una sensualità nuove che emergono e si innestano sulle antiche esperienze. Gutton (2003), ad esempio, descrive come i vissuti arcaici siano l’effetto immediato della “sensorialità sensuale” e di come i nuovi vissuti (adolescenziali) “rivisitino” quelli antecedenti, in particolare i più originari. Nuove sensazioni sono anche offerte in questa età dalla masturbazione. La masturbazione e la fantasia masturbatoria centrale (Laufer, 1984) che la accompagna costituiscono un atto di prova che permette di sperimentare “pensieri, sensazioni o soddisfacimenti” indagando quali “sono accettati dal Super-io o quali non possono far parte dell’immagine che l’individuo ha di sé come sessualmente maturo” (Laufer, 1984).
In adolescenza la valutazione si presenta molto difficile (Anna Freud, 1957) dato che la presenza di meccanismi primitivi in superficie e in continua trasformazione rende difficile l’orientamento. Funzionamenti come l’agire per sperimentare e sperimentarsi al di fuori di questa età sarebbero disfunzionali. In adolescenza invece possono assumere anche una valenza protosimbolica. La fantasie e le fantasticherie spesso riempiono angosciosamente lo spazio mentale e talora si organizzano in romanzi familiari. La FMC (fantasia masturbatoria centrale) si rivela molto utile per l’analista perché ci dà indicazioni sulle fissazioni attuali del paziente e sulla sua evoluzione. Ci sono situazioni in cui la fantasia masturbatoria contiene desideri regressivi e vergognosi che l’adolescente odia e che gli impediranno di sperimentarsi e sperimentare il suo corpo e le sensazioni connesse (Laufer, 1984).

In adolescenza, come ci dice Florence Guignard (1996), il preconscio, area tampone che regola gli scambi tra il mondo interno e la realtà esterna diventa “più trasparente e più fragile” fin quando l’adolescente non sarà cresciuto ed è proprio questa trasparenza che ci consente di vedere, senza infingimenti, quanto avviene nel mondo interno in ristrutturazione dell’adolescente. Vediamo con maggior chiarezza le potenzialità psicotiche della personalità, altrimenti inaccessibili, ma sappiamo anche che talora l’adolescenza le simula. Questo è sostenuto e complicato da un fenomeno per altro normale in adolescenza: il riattivarsi di disposizioni polimorfo perverse, che sono anche in relazione al riattivarsi dell’Edipo e che sono caratterizzate anche da confusioni bisessuali. Quelle che Donald Meltzer (1973) chiama le confusioni zonali (combinazione bocca-vagina-ano e poi capezzolo-lingua-feci), che il bambino aveva già imparato a distinguere, erompono alla pubertà a volte accompagnate da una idealizzazione della confusione. Alla base di molti problemi e di molte incertezze nell’identità di questo periodo della vita possiamo ritrovare proprio questi fenomeni, espressione di una difficoltà del processo di soggettivazione (termine introdotto da analisti francesi tra cui Cahn, Richard, Wainrib, Kaës et al., con il quale si designa un processo di appropriazione del funzionamento psichico che l’Io opera in un rapporto intersoggettivo grazie alla sua progressiva capacità di rappresentazione).

Una certa ansia intorno alla definizione dell’identità di genere in questo periodo non sarà particolarmente rilevante. Più che essere espressione di una scelta oggettuale o di problematiche connesse con l’identità di genere, le ansie omosessuali nascono dalle vicissitudini delle identificazioni, dalla passività che l’adolescente teme e lo perseguita. Esse si iscrivono nell’“evoluzione dall’omoerotismo infantile alla pubertà” (Gutton, 2002) ma possono essere anche espressione di un’incipiente e più vasta regressione.

In adolescenza ancora una volta, come all’inizio della vita, l’adolescente dovrà reinvestire narcisisticamente il suo corpo e riappropriarsene simbolicamente (Ruggiero, 2011). Tale investimento reso obbligato dalla realtà puberale impone “la perdita dell’illusione di perfezione, illusione della bisessualità” (Ladame, Perret-Catipovic, 1998, p. 59). L’equilibrio tra queste nuove esperienze, la loro quota di eccitazione e la capacità di contenerla e/o di rappresentare tali esperienze, è importantissimo dato che un surplus di eccitazione può generare difese contro lo sperimentare questi nuovi aspetti. Un eccesso di eccitazione fa assumere a queste esperienze una valenza traumatica. La crisi dell’adolescente di cui molti parlano è correlata con le profonde trasformazioni del suo corpo, del suo funzionamento mentale e delle relazioni sociali di questa età della vita, oltre che con la crisi dei genitori e della famiglia intera dove l’adolescente vive.

Queste specifiche trasformazioni sono la vera sfida che impegna l’adolescente: integrare i cambiamenti del suo corpo indotti dalla pubertà, trasformare i suoi legami con i genitori e accettare il lutto della separazione dal mondo infantile e dalla onnipotenza ad esso correlata, rifondare la sicurezza di sé, processo che alcuni psicoanalisti connettono con la ripresa dei processi di ri-narcissizzazione in adolescenza.

La condizione dell’adolescenza proprio per le sue caratteristiche specifiche correlate con le vicissitudini dei processi di identificazione, è un indicatore straordinario delle trasformazioni socio culturali della nostra società oltre che del disagio della nostra civiltà. Se l’adolescente di oggi ha certamente guadagnato una maggiore libertà, ha purtroppo anche perso molti riferimenti che prima gli assicuravano sicurezza e stabilità. Assistiamo ad esempio all’emergenza di nuove patologie del corpo e sul corpo, ad una violenza prima inattesa, a disagi diversi, imprevedibili e inspiegabili o anche a nuove manifestazioni della sessualità più precoce e variamente articolata.

Di certo lo psicoanalista di adolescenti dovrà avere una competenza specifica rispetto a questa età della vita (Novelletto, 1986; Nicolò, 1998; de Vito, 1998) e al suo modo multiforme di presentarsi, dovrà essere capace di muoversi tra le manifestazioni abbastanza diversificate della prima, media e tarda adolescenza (Blos, 1979) e di essere mobile adattandosi al suo paziente, associando, disegnando, parlando, narrando o usando metafore o talora in silenzio, accettando perciò le variazioni e la flessibilità del setting (Pellizzari, 2010; Senise, 1990) e anche del contratto analitico, proprie del lavoro in adolescenza. Il particolare funzionamento mentale dell’adolescente imporrà poi di non sfidare troppo la paura dell’adolescente nei confronti della dipendenza, cosa che egli mal tollera a causa della lotta incessante in questo periodo tra attività e passività.

L’adolescenza sfida la psicoanalisi e dobbiamo riconoscere che il lavoro in questi setting come quello con gli adulti più gravi ha contribuito a determinare mutamenti profondi nella nostra tecnica e nella valutazione (Nicolò, 2012) e perfino nella visione degli obiettivi del nostro stesso lavoro clinico.

Bibliografia

Aliprandi M.T., Pelanda E., Senise T. (1990). Psicoterapia breve di individuazione. La metodologia di Tommaso Senise nella consultazione con l’adolescente. Milano: Feltrinelli.
Blos P. (1979). L’adolescenza come fase di transizione. Aspetti e problemi del suo sviluppo. Roma: Armando Editore, 1988.
De Vito E. (1998). Alcune caratteristiche specifiche del setting con l’adolescente. Richard e Piggle, 6 (1): 89-92.
Freud A. (1957). Adolescenza. In: Anna Freud. Opere 1945-1964, vol. 2. Torino: Boringhieri, 1979.
Guignard F. (1996). Au vif de l’infantil. Lausanne: Delachaux et Niestlé. [trad. it. Nel vivo dell’infatile. Milano: Franco Angeli, 1999]
Gutton Ph. (2002). Psicoterapia e Adolescenza. Roma: Borla, 2002, p. 61.
Gutton Ph. (200). Esquisse d’une théorie de la génitalité, Adolescence, 21, 2, 217-248.
Kestemberg E. (1980). Notule sur la crise de l’adolescence. De la déception à la conquête, Revue Française de Psychanalyse, 44 : 523-530.
Ladame F., Perret-Catipovic M. (1998). Jeu, fantasmes et réalité. Le psychodrame psychanalytique à l’adolescence. Paris: Masson [trad. it. Gioco, fantasmi e realtà. Lo psicodramma psicoanalitico nell’adolescenza. Milano: Franco Angeli, 2000. Capitolo 3: L’adolescenza. La posta in gioco dello sviluppo e le difficoltà di valutazione].
Laufer E. (2002). Il corpo come oggetto interno. Relazione presentata al Centro di Psicoanalisi Romano nel novembre 2002. [Le corps comme objet interne. Adolescence, 2005, 23, 2, 363-379]
Laufer M., Laufer E. (1984). Adolescenza e breakdown evolutivo. Torino: Boringhieri, 1986.
Meltzer D. (1973). Stati sessuali della mente. Roma: Armando, 1975.
Nicolò A.M. (1998). Dibattito a cura di A. Nicolò “Esiste una specificità della formazione al lavoro psicoanalitico con gli adolescenti?”, Richard e Piggle, 6, 1, pp. 86-101.
Nicolò A.M (2011). Sexual initiation and romantic love during adolescence. Relazione presentata al panel Current Day Sexuality and Psychoanalysis. More than a Hundred Years on from the “Three Essays” del 47th IPA Congress, Città del Messico 2011) [trad it. Iniziazione sessuale e illusione amorosa in adolescenza, Richard e Piggle, 2012, 20, 4, pp. 354-366].
Nicolò A.M. (2012). L’adolescenza, una sfida per lo psicoanalista. Come il lavoro con gli adolescenti ci ha costretto a ripensare i nostri modelli. Relazione presentata al Convegno Nazionale di Psicoterapia Psicoanalitica dell’Adolescenza AGIPPsA “Adolescenza e psicoanalisi oggi”. (In corso di stampa)
Novelletto A. (1986). Psichiatria psicoanalitica dell’adolescenza. Roma: Borla.
Pellizzari G. (2010). La seconda nascita. Fenomenologia dell’adolescenza. Milano: FrancoAngeli.
Ruggiero I. (2011). Corpo strano, corpo estraneo, corpo nemico: itinerari adolescenziali tra corpo, psiche e relazione, Rivista di Psicoanalisi, anno LVII, n. 4, pp. 825-847.
Richard F., Wainrib S. (a cura di) (2006). La soggetivazione. Roma: Borla, 2008.

Luglio 2014

Approfondimenti:
A. Nicolò: Pelle da comunicare pelle da danneggiare, CpdR

Adolescenza (Terapia)
Adolescenza (Terapia)

Keith Haring

A cura di Giuseppe Pellizzari

L’adolescenza per lungo tempo è rimasta ai margini dell’attenzione degli psicoanalisti. Anna Freud la definiva “la Cenerentola della psicoanalisi”. Questo era dovuto al fatto che gli adolescenti sono per loro natura dei soggetti instabili, difficilmente inquadrabili nella patologia tradizionale delle nevrosi. Del resto anche i bambini erano entrati nel campo d’azione della psicoanalisi quasi clandestinamente. Occorrerà aspettare Melania Klein e Donald Winnicott perché alla psicoanalisi infantile venga riconosciuta la legittima cittadinanza analitica.

Nei tempi recenti l’adolescenza è assurta invece ad oggetto privilegiato, capace di convogliare interessi sempre più complessi e articolati. Da “Cenerentola” a “prima donna” dunque?
Il fatto è che l’adolescenza, proprio per la sua natura caratterizzata da incertezze, fragilità, smarrimenti, si presta bene a incarnare lo spirito dell’epoca attuale. Sappiamo che la stessa patologia nevrotica si è profondamente modificata: se un tempo il disagio psichico si concentrava sulla colpa e sulla trasgressione, oggi sembra incentrato quasi esclusivamente su problematiche narcisistiche, che, guarda caso, sono le problematiche tipiche dell’adolescenza.
Vediamo in breve in cosa consistono. Come è noto il processo di crescita dell’individuo trova nel periodo adolescenziale una fase particolarmente critica, poiché tale processo consiste nel passaggio piuttosto repentino dall’infanzia all’età adulta. Il soggetto adolescente incontra tre fondamentali trasformazioni: acquista una massa corporea che modifica i rapporti di forza con i genitori e il mondo adulto in generale (non è più un bambino che possa essere fisicamente costretto a ubbidire, con le buone o con le cattive), diviene sessuato come un adulto ed è in grado di generare a sua volta dei figli, sviluppa una capacità di pensiero ormai matura se non altro nelle potenzialità cognitive. Queste trasformazioni da un lato lo portano ad allontanarsi dalla dipendenza infantile e ad accedere ad un potere adulto, ma contemporaneamente lo destabilizzano rendendolo spesso confuso, instabile nell’umore, a volte incapace di concentrarsi. In una parola lo mettono in una fisiologica crisi d’identità, che può esitare in un conseguimento di un’identità matura, ma anche in fenomeni regressivi più o meno preoccupanti.
Mentre è normale una oscillazione tra momenti di sviluppo e momenti di stasi e di regressione, diventa seria la preoccupazione se vi è un blocco evolutivo o il prodursi di sintomi e di comportamenti che denotino un disagio grave e costante. Si possono considerare tra questi i disturbi alimentari continuativi, le varie forme di ritiro dalla vita sociale, i gravi disturbi psicosomatici, le molteplici forme di dipendenza da sostanze, le condotte autolesive e lo strutturarsi di sintomi ossessivi o psicotici.
I genitori sono chiamati dall’adolescenza dei figli ad un compito spesso assai impegnativo. Hanno ormai perduto l’autorità che possedevano durante l’infanzia dei figli; adesso questi, come spesso si sente dire, “fanno quello che vogliono senza ascoltare”, e sono confrontati su un piano personale con la loro contemporanea “crisi di mezza età”. Forse si può dire che siano costretti a passare attraverso una seconda adolescenza che a volte li spinge ad assumere atteggiamenti altrettanto rigidi e velleitari di quelli dei figli che sembrano sfidarli.
Tutto questo però è anche una grande occasione di trasformazioni positive e di maturazione, sia per i ragazzi che possono riaffrontare nodi irrisolti della loro trascorsa infanzia in un nuovo contesto evolutivo (quella che viene chiamata la “seconda chance”), sia per i genitori che possono, a loro volta, rivisitare il ricordo dell’adolescenza e, per così dire, “completarla”. Il conflitto tra generazioni può diventare una forma feconda, anche se spesso dolorosa, di complementarità. Una complementarità capace di consentire una separazione. L’adolescenza, infatti, è anche un processo di lutto della propria infanzia, che viene perduta senza che ci si possa fare niente, e di distacco dalla dipendenza dai genitori, fastidiosa fin che si vuole, ma anche rassicurante e comoda.

Il trattamento psicoanalitico degli adolescenti, come del resto era avvenuto per quello dei bambini, comporta delle variazioni della cosiddetta tecnica classica dell’analisi. Come è noto i ragazzi mal sopportano le rigidità delle regole e degli atteggiamenti. Pur avendo bisogno di un contenimento che dia loro un senso di solidità e di continuità, occorre una certa elasticità, un ascolto “su misura”, che venga sentito non come applicazione di una regola anonima, ma come la creazione di uno spazio condiviso, del quale l’adolescente si senta non solo partecipe ma corresponsabile. Non deve sentirsi come soggetto passivo di un’indagine mirante a mostrargli le sue debolezze e la sua patologia, ma come una persona in difficoltà che ha l’occasione di trasformare tale difficoltà nel vantaggio di un’esplorazione di sé molto impegnativa ma affascinante. E’ indispensabile che il terapeuta più che “curare” un giovane malato, intenda stimolarne la creatività, insita in ogni disagio affettivo come una potenzialità nascosta.
Certe caratteristiche tecniche del trattamento analitico (il Setting, il numero delle sedute, il tipo di interpretazioni, l’uso del lettino) devono quindi essere sottoposte ad un’elasticità particolare, frutto dell’inventiva e della capacità di improvvisazione che sono gli aspetti specifici di questo tipo di intervento terapeutico.
Un’ultima osservazione riguarda il particolare interesse che lo studio dell’adolescenza riveste nell’attualità. Comprendere la ricchezza e la complessità della “mente adolescente” vuol dire avvicinarsi ai processi che caratterizzano nel bene e nel male le grandi trasformazioni che rendono così inquieta la nostra epoca.

Ottobre 2013

Adolescenza / disturbi somatici funzionali

Disturbi somatici funzionali in adolescenza

A cura di Franco D’Alberton

Si tratta di una categoria di disturbi che si esprimono attraverso manifestazioni somatiche, che non hanno spiegazioni da un punto di vista medico e che, in età evolutiva, si presentano soprattutto nella prima adolescenza, sostanzialmente nell’età della scuola media, fra i 10 e i 14 anni (D’Alberton, 2004).
Sono quadri che prevalentemente afferiscono agli studi dei pediatri o ai reparti ospedalieri perché dolori muscolari e forme di astenia impediscono la locomozione e fanno temere forme complesse di patologie neurodegenerative; oppure perché dolori addominali, disturbi respiratori, episodi di tosse parossistica e persistente hanno effetti invalidanti di giorno mentre di notte misteriosamente scompaiono.
I pediatri hanno imparato a collegare questi sintomi a difficoltà emotive proprie di questo momento delicato dello sviluppo anche se a volte può essere sottovalutata la varietà sintomatologica con cui gli adolescenti, a fronte di una crescente pressione istintuale, usano il corpo come via d’ espressione della tensione (Blos 1962).
Ciò può accadere soprattutto in una prima fase del periodo adolescenziale durante il quale, in modo quasi impercettibile ad un osservatore esterno, si preparano le trasformazioni più marcate della pubertà, con un disequilibrio fra la qualità e l’intensità dei nuovi impulsi e le capacità di tenerli integrati in un sistema coerente di funzionamento mentale.
Non è facile infatti riconoscere l’impatto sulla mente in evoluzione del giovane adolescente dei cambiamenti dovuti allo sviluppo endocrino, somatico, cognitivo e psicosessuale. Tale complesse progressioni evolutive mettono sotto pressione gli equilibri delle istanze dell’Io, del Super Io e dell’ Ideale dell’ Io, influiscono sul processo di autonomia e di soggettivazione e sulla quantità di adattamenti che si richiedono alla mente (al fine di una loro integrazione nella rappresentazione di sé).
In questo periodo della vita l’evoluzione dell’Io e delle sue funzioni e lo sviluppo somatico psicosessuale sembrano prendere strade, ritmi e velocità differenti che, solo alla conclusione del percorso adolescenziale, potranno arrivare ad una nuova sintesi e ad una nuova sincronia nell’integrazione psichica del corpo sessuato.
Inoltre, la contrapposizione fra investimenti narcisistici e investimenti oggettuali (Jeammet, 1992), nodo cruciale dell’adolescenza, può portare alcuni soggetti ad avvertire l’investimento pulsionale come un rischio per la fragilità della base narcisistica e minare i processi di soggettivazione (Cahn, 1998).
Oltre ad episodi reattivi transitori, legati a condizioni specifiche dell’età, a particolari situazioni familiari e/o sociali di simulazione o di mitomania, le due principali categorie nosografiche che fanno da confine e sponda alle condizioni che stiamo affrontando sono la conversione nevrotica e i disturbi psicofunzionali della patologia psicosomatica.
In altre parole, torna attuale la differenza fra nevrosi attuali e psiconevrosi, trattata da Freud nei suoi primi lavori, che getta una luce chiarificatrice sul delicato passaggio dal corpo alla mente. Questa distinzione rappresenta un ideale punto di partenza per avvicinarci a tale sintomatologia dove la mente, con le sue nuove acquisizioni e alcuni suoi vecchi limiti, cerca di aprirsi faticosamente la strada nel mondo sconosciuto di un corpo attraversato da rapide modificazioni.
Secondo il modello di Freud del trauma in due tempi descritto nel “Progetto di una psicologia” lo sviluppo somatopsichico renderebbe traumatiche esperienze avvenute precedentemente nell’infanzia. Ogni adolescente ha tracce mnestiche che possono venir comprese solo con la comparsa delle proprie emozioni sessuali; ogni adolescente, di conseguenza, porterebbe con sé il germe dell’isteria” (Freud S., 1895, pag.256).
Vi sono pareri diversi sull’opportunità di utilizzare il termine di nevrosi e soprattutto di isteria in età evolutiva quantunque Semi e Campanile (2010) sottolineino l’incidenza delle le manifestazioni isteriche nella prima adolescenza e Campanile (2000) usi il nome di “isteria di transizione” per descrivere queste forme caratterizzate da un deficit delle capacità rappresentative.
Anche De Ajuraguerra (1974) sostiene la legittimità della diagnosi di nevrosi in età evolutiva circoscrivendola al quadro preciso dell’’isteria di conversione.
Lebovici, dopo un’ accurata disamina dell’evoluzione del concetto nosografico, individua una predisposizione alla nevrosi isterica come espressione di un anticipo libidico sulla maturazione dei meccanismi dell’Io. (Lebovici et al.,1985).
Cramer (1977) considera la conversione come espressione del tormentato percorso dell’investimento del corpo da parte dell’adolescente quando l’intensità della pressione istintuale avvertita a livello somatico fa percepire il corpo come estraneo.
Se la nevrosi fa riferimento alla possibilità di una rappresentazione psichica di conflitti o condizioni traumatiche e all’utilizzo di meccanismi psichici di difesa, l’espressione psicosomatica è dovuta a un sovraccarico o una carenza di eccitazione che, bypassando lo psichico, si manifesta nel corpo. Il problema si pone sulla qualità, sulla carenza o su una eccessiva quantità di stimoli, e sul modo in cui questa prenda direttamente la strada del corpo. La caratteristica dei disturbi psicosomatici colloca la loro origine ad uno stadio più precoce dello sviluppo all’interno di una relazione madre bambino nella quale è stata carente la gestione degli scambi sensoriali.
Kreisler sostiene che il sintomo di conversione, secondo una formulazione classica, si contrappone al disordine psicosomatico. Secondo una sua felice espressione In queste forme nevrotiche con un insufficiente livello di mentalizzazione “l’isterico parla attraverso il corpo, il paziente psicosomatico soffre nel corpo. Il corpo è, per l’isterico, uno strumento; per il paziente psicosomatico una vittima” (1981, pag. XII).

Bibliografia

Blos P. (1962) L’Adolescenza. Franco Angeli, Milano 1980.
Chan R. (1998) L’adolescente nella psicoanalisi. Borla, Roma 2000
Campanile P. (2000) Hystérie de transition – Le fait de l’analyse, 8
Campanile P., Semi A.A. (2010) Teoria dell’isteria e isteria della teoria. In Albarella C., Racalbuto A. Isteria, Borla, Roma.
Cramer F. (1977) Vicissitues de l’investissment du corps, symptômes de conversion en période pubertaire, Psichiatrie de l’enfant, 1977, XX, 1.
D’Alberton F. (2004) Disturbi emotivi ad espressione somatica in preadolescenza. Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza Vol. 71:127-142
De Ajuraguerra J (1974) Manuale di psichiatria del bambino. Masson, Milano 1979.
Freud S. (1894) Le neuropsicosi da difesa. In OSF 2, Bollati Boringhieri, Torino, 1968.
Freud S. (1895) Progetto di una psicologia. In OSF 2, Bollati Boringhieri, Torino, 1968.
Jeammet P. (1992) Psicopatologia dell’adolescenza. Borla, Roma
Kreisler L. (1981) Clinica psicosomatica del bambino. Raffaello Cortina Editore, 1993.
Lebovicì S. (1985), L’Isteria nel bambino e nell’adolescente In Lebovici S.,Diatkine R.,Soulè M. Trattato di psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, Edizioni Borla, Roma 1990.

Dicembre 2014

Adolescenza / lavoro coi genitori

A cura di Paola Catarci

Come si trasforma la relazione tra genitori e figli quando questi entrano in adolescenza?

Possiamo guardare all’adolescenza come una fase della vita che implica un certo specifico funzionamento mentale, che risponde alle esigenze separative e di individuazione degli individui. E’ dunque un processo che confronta i suoi protagonisti – gli adolescenti, ma anche i loro genitori- con i temi della crescita e del distacco. La funzione genitoriale che aveva funzionato fino a quel momento si basava su una basilare asimmetria e sul bisogno di supporto del bambino da parte dell’adulto. L’adolescente, invece, propone nuovi bisogni e nuove distanze. I genitori sono confrontati con un cambiamento di rotta totale: dove, fino ad allora, si trattava di condividere, ora si tratta di dividersi, mantenendo però ugualmente presenza e funzione genitoriale. E’ un compito quasi paradossale: si tratta, per gli adulti, di modificare l’identità di genitori di un bambino, ed assumerne invece una – mediamente – più scomoda. Un genitore di adolescente è confrontato, in genere, col tema del limite, del rischio, della questione dell’apprendere attraverso agiti più o meno violenti o lesivi, del dover rispondere a richieste talvolta incongrue, spesso poco negoziabili.

I genitori che si rivolgono agli psicoanalisti sono offesi, doppiamente traumatizzati: dalla incomprensibilità dei comportamenti, dei vissuti dei figli, che li espongono socialmente al biasimo ed alle critiche, ma anche offesi dalla rottura del legame coi figli stessi. Rotture esterne, per quelli che prendono le distanze restituendo al figlio l’intera responsabilità del conflitto, e rotture interne, per quelli che sentono di non poter sostenere la collusione, e sentono slegato, rotto, il patto etico che aveva sostenuto la relazione col ragazzo fino a quel momento. In che modo questo insieme, intreccio di sentimenti, può essere utilizzato perché si crei una motivazione personale del genitore a ricercare il senso degli agiti, dei sintomi del figlio, e, a seguire, il senso più ampio della relazione coll’adolescente? Credo si possa ritrovare spesso, negli agiti e nei sintomi degli adolescenti che i genitori portano alla nostra attenzione, il precipitato di fantasie inconsce connesse al mito di fondazione della coppia, ovvero al concepimento del figlio stesso – assunte dal figlio nella propria organizzazione psichica, ma che erano rimaste incastonate, sorta di traumi, che attengono alle relazioni primarie, che non avevano potuto essere simbolizzati e significati, e che l’adolescenza prepotentemente rimette in circolo, chiedendo, esigendo una qualche forma di riconoscimento e soddisfacimento, sia pure in termini di agiti, sintomi, conflittualità a tutto tondo.

Che tipo di lavoro psicoanalitico è quello coi genitori?

Ho descritto poco fa l’adolescenza come un processo attivatore della crescita. Credo che il compito-complesso ma non impossibile – che spetta a noi, psicoanalisti che lavorano coi genitori degli adolescenti, sia quello di poter trasformare richieste di aiuto, di sostegno, di guida, in una scoperta di risorse personali per la propria crescita. Nel momento in cui la terapia coi genitori si configura nei suoi aspetti transferali, ovvero come spazio di trasferimento delle fantasie inconsce, ciò che si avvia è un processo di elaborazione interno alla coppia così come un processo che può generare nuovi spazi di libertà per l’adolescente. Con la crisi adolescenziale del loro figlio, i genitori si trovano confrontati a qualcosa che attiene alla loro stessa crescita. Si tratta di elaborare il loro proprio lutto per quella fase della vita – l’adolescenza – della quale è ora il figlio il protagonista. Ciò che conta allora, ciò a cui l’intervento dovrebbe mirare, è l’attivarsi, grazie al lavoro psicoanalitico coi genitori, di una catena di eventi la cui natura è intersoggettiva ed allo stesso tempo intrapsichica.

La ritrovata soggettività della coppia genitoriale, o del singolo, alimenterà un processo di differenziazione, di utilizzo di energie disponibili per lo sviluppo.

Quando è consigliata una terapia coi genitori di adolescenti?

Si potrebbe rispondere, un po’ provocatoriamente: sempre.

Sappiamo invece quanto sia difficile, allestire un intervento che li riguardi.

Parliamo di interventi, perché ci sono davvero molti modi di accogliere ed elaborare le richieste di aiuto che ci arrivano dai genitori di adolescenti. La psicoterapia con la coppia genitoriale, o con un singolo genitore, è solo una delle possibili risposte.

Sappiamo però che, tutte le volte che riusciremo a far emergere un bisogno di riflessione su se stessi, sul come si è genitori in quel momento, di quel ragazzo, con le sue specifiche difficoltà, questo innescherà un circuito virtuoso, un allargamento della pensabilità, di cui sarà l’adolescente stesso a valersi.

Ottobre 2013

Adolescenza e gruppo
Adolescenza e gruppo

Dal film L'attimo fuggente di Peter Weir

A cura di Simonetta Bonfiglio

Il gruppo, in adolescenza, assume forma e valenze nuove e centrali per il percorso di crescita e la costruzione dell’identità .
Quando pensiamo ad un adolescente, in effetti, lo immaginiamo insieme ad altri adolescenti, immerso in un gruppo, come in un habitat naturale. Le trasformazioni somatiche che avviano, con la pubertà, il turbolento e creativo percorso adolescenziale, si accompagnano ad un progressivo orientamento dei preadolescenti nella ricerca di investimenti esterni alla famiglia. I ragazzi appaiono impegnati nella ricerca di nuovi oggetti ed affetti, con movimenti di allontanamento dalle figure che sono state fino ad allora punto di riferimento e rifornimento affettivo e di sicurezza narcisistica.
Ha così inizio la profonda trasformazione che coinvolge l’adolescente nelle sue relazioni con il mondo esterno, a partire da quella con i genitori, con se stesso, con il proprio corpo. Dopo la pubertà nulla sarà più come prima: il passaggio attraverso questa fase porta destabilizzazione, improvvisa perdita di certezze. La forza della crescita si accompagna quindi ad uno stato di fisiologica fragilità, per il lavoro di separazione, trasformazione e individuazione che l’adolescente compie, nella tensione creativa di costruzione della propria identità, in oscillazione tra bisogni di ritiro nel sé e bisogni di appartenenza.
In questo quadro, per la specificità del funzionamento mentale dell’adolescente, caratterizzato da estrema fluidità, bisogni fusionali, tendenza all’esteriorizzazione, uno degli indicatori forti della spinta evolutiva è la “scelta” degli amici : fino alla pubertà gli spazi di socializzazione sono quelli “offerti” dai genitori, che sorvegliano e selezionano, indirizzano e controllano la qualità degli incontri e delle esperienze. A partire dalla pubertà, spesso, l’apprensione da parte dei genitori per la perdita del controllo e per l’influenza negativa dei compagni, vanno di pari passo con la potente rivendicazione da parte dei figli della loro libertà di scelta, talvolta venata da sfumature di ribellione come espressione forte di bisogni di differenziazione.
Il vero gruppo “creato” dall’adolescente è il gruppo spontaneo, che si organizza sulla base della cooptazione reciproca, secondo scelte che delineano un campo, nello stesso tempo definito e mobile , dove chiusure e aperture al nuovo e ai nuovi componenti si alternano; è un gruppo diverso dai gruppi strutturati(come la classe o gruppi sportivi) anche se può nascere da incontri che avvengono in quegli ambiti.
Il gruppo quindi assume un significato di rottura o superamento dalle dipendenze infantili, diventa luogo di sicurezza affettiva, di intense esperienze emotive, di elaborazione dell’identità, attraverso il dispiegarsi di movimenti proiettivi e introiettivi. Far parte del gruppo significa riconoscersi in altri e con altri, condividere motivazioni e paure, trovare sicurezza nell’accettazione degli altri e nella identificazione con gli altri. Alla domanda “chi sono”, il preadolescente risponde con il “noi siamo”; il sentimento di “Io sono”, l’identificazione profonda di sé come soggetto, è vicariata dal gruppo : conosco chi sono perché mi riconosco negli altri e attraverso gli altri. Al gruppo è affidato il senso di continuità e di coerenza, insieme all’elaborazione di un nuovo ideale dell’Io, aspetto centrale del lavoro dell’adolescente, dopo la perdita dell’idealizzazione delle figure genitoriali.
Il gruppo dei pari assume necessariamente caratteristiche diverse nelle diverse fasi dell’adolescenza : nella preadolescenza è tendenzialmente composto da ragazzi dello stesso sesso, spesso in opposizione ai gruppi di sesso opposto. Questa dinamica è sostenuta da aspetti difensivi legati in particolare al bisogno di rassicurazione intorno all’identità sessuale. L’evoluzione naturale di questo gruppo “chiuso” è, con la crescita psicologica e con il costituirsi di più mature capacità relazionali, l’aprirsi alla formazione di coppie e quindi al gruppo misto della piena adolescenza. La fluidità dei passaggi e la mobilità del gruppo sono garanzia di un sano funzionamento che permette e sostiene il processo di crescita, attraverso l’appartenenza.
. La costruzione dell’identità si nutre anche delle offerte culturali e identitarie che la società presenta . L’adolescenza porta fortemente le impronte dell’ambiente culturale e del tempo in cui si svolge; dovrà, a sua volta, lasciare la propria impronta generazionale ed è proprio attraverso il gruppo dei pari che gli adolescenti contribuiscono alla formazione di una identità generazionale, con la costruzione di valori comuni e l’uso di “oggetti generazionali” condivisi. Da questo punto di vista, le nuove tecnologie e i nuovi mezzi di comunicazione offrono oggi specifiche e condivise modalità agli scambi tra gli adolescenti.I luoghi virtuali degli incontri, o la modalità di essere continuamente in contatto, caratterizzano le nuove generazioni e quindi le qualità dei gruppi, che in linea con le caratteristiche della società postmoderna, hanno oggi un carattere più fluido e confini meno definiti. Si può velocemente e facilmente transitare da un gruppo all’altro nel reale e nel network. Tutto questo pone specifici interrogativi e sfida alla comprensione di nuove dimensioni relazionali, al loro significato in termini evolutivi, in particolare intorno ai bisogni di dipendenza e la loro patologia.
Sul piano clinico, la modalità e la qualità di partecipazione al gruppo evidenziano, per il singolo adolescente, difficoltà specifiche nella crescita. Oltre agli aspetti costruttivi, vanno quindi ricordati gli usi difensivi e le derive patologiche : il gruppo può diventare banda e branco, agendo, in una dimensione onnipotente, meccanismi proiettivi primitivi e modalità violente intra e intergruppali, come difesa dal limite e dalla quota di dolore che la crescita impone.
Insieme all’uso patologico del gruppo, uno degli indicatori di disagio in adolescenza è l’isolamento o la difficoltà ad accedere al gruppo: : quando il sè è a rischio rottura e la fragilità narcisistica è tale che l’incontro con gli altri alimenta, insieme a un sentimento di estraneità, l’angoscia di frammentazione , potenti meccanismi di difesa possono interferire fino a rendere inagibile l’uso del gruppo per la costruzione dell’identità .
La psicoanalisi, a partire da Freud, si è sempre interessata delle dinamiche tra l’individuo e il gruppo e dei cambiamenti che si producono nel soggetto dentro il gruppo. Bion ha approfondito i significati e le dinamiche profonde, gli aspetti regressivi e quelli trasformativi che caratterizzano la mentalità di gruppo, dove si esprime “la funzione spontanea ed inconscia delle qualità sociali della personalità dell’uomo” . Da questi presupposti nasce l’uso del gruppo terapeutico, che trova anche in adolescenza specifiche indicazioni e la cui finalità, per l’adolescente sofferente, è offrire uno spazio relazionale di contenimento, per superare confusione e ritrovare coerenza, uscendo da stati di grave frammentazione del sé.

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Luglio 2014

Adolescenza/comportamenti trasgressivi e antisociali

A cura di Cristina Saottini 

I comportamenti trasgressivi e antisociali degli adolescenti sono una grande fonte di preoccupazione per gli adulti (genitori, insegnanti, educatori). La risposta del mondo adulto a questi comportamenti è spesso allarmata, condizionata da pregiudizi e tentata da reazioni repressive che non solo sono inefficaci, ma spesso controproducenti. Sulla base delle conoscenze derivanti dagli ultimi decenni di ricerca sulla trasgressività adolescenziale è invece possibile impostare un intervento efficace, in grado di sconfiggere il pessimismo degli scorsi anni.

Gli adolescenti sono naturalmente trasgressivi e l’equazione tra adolescenza e trasgressività è stata da sempre riconosciuta. Può pertanto essere particolarmente difficile distinguere le situazioni in cui la trasgressività e l’aggressività sono al servizio della crescita e dell’acquisizione di un’identità sociale e quelle in cui all’opposto sono l’espressione di una tendenza antisociale o l’inizio di una vera e propria carriera delinquenziale.

L’opacità delle motivazioni, la percezione di una mancanza di alternative decisionali, l’agire d’impulso, l’effetto di contagio deresponsabilizzante del gruppo, la scarsa empatia, la minimizzazione del significato trasgressivo o aggressivo del comportamento, sono tutti tratti che spesso si ritrovano nei ragazzi che commettono reati e nella valutazione iniziale può essere difficile dire quanto siano l’espressione di tratti di personalità stabili, a specifiche condizioni del momento o siano piuttosto da attribuire ad una dinamica evolutiva.

Le trasgressioni tipicamente adolescenziali riguardano le fughe da casa, il consumo di sostanze, l’appropriazione di oggetti, i furti, le risse o gli atti vandalici; azioni spesso compiute in un clima concitato ed eccitato, in coppia o in un piccolo gruppo, in un contesto ludico e di evasione.

Nella prima parte dell’adolescenza, intorno ai 12-14 anni, sono più frequenti gli atti di vandalismo e le aggressioni, mentre dai 15-16 anni aumentano il furto e le rapine e le trasgressioni che hanno a che fare con il consumo o lo spaccio di droga.

Anche il contesto sociale è determinante nell’emergere della trasgressività, in quanto contribuisce, attraverso la definizione di valori sociali condivisi, a stabilire ciò che è permesso o proibito, ponendo di fatto i limiti il cui superamento costituisce appunto una trasgressione, il cui valore può variare molto in base alla cultura o alla subcultura di riferimento.

Intervenire in modo efficace con gli adolescenti trasgressivi ha una valenza anche dalla prospettiva delle politiche sociale e del welfare.

La commissione di un reato è un gesto a forte rilevanza simbolica a cui va riservata una corretta lettura per poter comprendere le ragioni del disagio dell’adolescente ed evitare così che si trasformi in un punto di non ritorno verso la delinquenza minorile.

Una prospettiva psicologica e più specificamente, psicoanalitica è fondamentale per interpretare per riconoscere l’appello che il comportamento antisociale rivolge agli adulti. L’individuazione del senso comunicativo del comportamento trasgressivo è, infatti, la premessa indispensabile per una risposta efficace da parte del mondo adulto. Una risposta che deve superare la dicotomia tra la “cura” di un disturbo e la “punizione” di un gesto deviante e che deve porsi piuttosto al servizio di un percorso di crescita che altrimenti rischia di vedere nel gesto trasgressivo un muro invalicabile.

Novelletto (1986) racconta come abbia sempre cercato di sottrarsi ad una spiegazione sociologica dell’antisocialità in adolescenza, concependo il reato come espressione di una fantasia di recupero maturativo, equivalente ad una sorta di “delirio maturativo”, una concezione evidentemente molto lontana da una visione sociologica. In questa prospettiva vicina alla concezione di Winnicott della tendenza antisociale, un reato è un’azione simbolica, che ha lo scopo di superare un blocco maturativi, la manifestazione di un aspetto del Sé che non riesce ad esprimersi in altro modo.

Questa concezione è sintonica con quella di Senise (1990). In entrambi i casi l’accento è posto sul concetto di Sé come un particolare oggetto interno, che si costruisce progressivamente e che in adolescenza si rende progressivamente consapevole. Il concetto di individuazione, avvicinabile a quello di soggettivazione (Cahn, 1998) descrive il processo che consente la costituzione soggettiva dell’identità. E’ difficile capire bene le distinzioni tra i diversi concetti che descrivono questo processo. Da una parte, infatti, si può ritenere che sia l’Io a costruire rappresentazioni di Sé come oggetto, in modo quindi sostanzialmente riflessivo e consapevole. Dall’altra tuttavia è possibile pensare che vi sia anche un modo preriflessivo di costruzione del Sé in adolescenza, come mostrano tra l’altro le trasformazioni dei riti iniziatici. Vi sarebbe quindi una coscienza primaria, o coscienza affettiva, prima di una coscienza riflessiva.

In queste concezioni, l’accento non è posto quindi su un problema di controllo pulsionale e nemmeno su un problema relazionale, ma sulla mancanza di un senso di Sé in quanto adolescente, che si costituisca come contenitore di senso per il comportamento (Giaconia, 2005). L’antisocialità in questa prospettiva è un blocco nell’acquisizione di un’identità sociale, che da un punto di vista psicologico può essere intesa come acquisizione di un senso di Sé dotato di valore. Molti romanzi per adolescenti descrivono questo passaggio, per esempio attraverso la scoperta di un tesoro, che dà un nuovo valore al soggetto, che molte volte è legato ad un ritrovamento di un’eredità familiare, un processo che Blos ha descritto attraverso un’analisi della dinamica identificatoria dell’adolescente con il genitore dello stesso sesso.

Il problema è come sia possibile aiutare l’adolescente a superare questo blocco evolutivo. In un modo che può apparire paradossale, nella prospettiva di Senise e Novelletto, il processo di soggettivazione che supera il blocco evolutivo sarebbe attivato non tanto attraverso lo sviluppo di una funzione riflessiva volta ad aumentare l’autoconsapevolezza, ma attraverso un intervento che assegna un ruolo centrale al rapporto con l’ambiente. Questa prospettiva implica che la costruzione del Sé in adolescenza è in primo luogo una funzione della relazione dell’adolescente con l’ambiente di sviluppo, come se il Sé si costruisse nella relazione di rispecchiamento con il contesto e non solo attraverso una riflessione o rispecchiamento nel mondo interno dell’adolescente, un processo che Jeammet (1992) descrive attraverso il concetto di uso soggettivo dell’ambiente.

Il cambiamento avviene attraverso nuovi investimenti di senso nelle relazioni tra il soggetto e i suoi oggetti, Le indicazioni di intervento possono essere molteplici proprio perché all’adolescente la realtà esterna offre opportunità di nuovi investimenti: trattamenti psicoterapeutici, pedagogici, psicopedagogici, farmacologici, scelta o cambiamento di scuola, attività extrascolastiche, attività sportive, ridefinizione degli spazi familiari, allontanamento dal nucleo familiare.

L’importanza dell’ambiente terapeutico è sottolineata anche da Novelletto, Biondo e Monniello (2000), per i quali nel comportamento antisociale l’adolescente si rende conto di non avere qualcosa che gli serve per lo sviluppo e cerca un ambiente di soccorso alternativo a quello naturale, anche attraverso un comportamento di sfida. In una prospettiva psicoanalitica questa funzione ambientale non si riduce ad un intervento educativo comportamentale perché l’ambiente non svolge solo con funzioni, ma fornisce rappresentazioni, è un luogo che l’adolescente può riempire di significati (Maggiolini, 2006; Novelletto, Biondo e Monniello, 2000).

Il sistema penale minorile in Italia è molto centrato sulla valutazione della personalità degli adolescenti che commettono reati e sulla valutazione delle risorse delle famiglie nel sostenere il loro cambiamento. Attraverso la misura della Messa alla Prova viene proposto un sistema di prescrizioni atte a favorire la ripresa del loro percorso evolutivo e la valorizzazione della capacità di assumere responsabilità rispetto al proprio comportamento. L’impegno e la capacità nel portare bene a termine un percorso che comprende interventi di riparazione attraverso attività socialmente utili, la ripresa dell’attività scolastica o lavorativa, il monitoraggio sull’uso delle sostanze stupefacenti e percorsi psicoterapeutici ed educativi, consente non solo l’estinzione del reato ma soprattutto la ripresa di uno sviluppo adolescenziale maturo.

Gli adolescenti e i giovani delinquenti cronici, quelli cioè che tendono a commettere ripetutamente reati, vanno dal 3 al 6% di coloro che commettono reati, una percentuale particolarmente bassa. La maggior parte dei denunciati, infatti, ha pochi arresti, ma i pochi che sono recidivi sono responsabili di un’alta percentuale di reati.

Fino agli inizi degli anni Settanta era diffuso il pessimismo sulla possibilità che la delinquenza potesse essere trattata in modo efficace (Martison, 1974). Questa convinzione si è modificata negli ultimi decenni, poiché le ricerche meta-analitiche hanno stimato un’efficacia complessiva nell’ordine del 10-30%, con un risparmio di circa sette volte tanto per ogni euro investito nel trattamento di un adolescente autore di reato, se paragonato al costo per la comunità di una carriera delinquenziale (Losel, 2010; Koehler et al. 2011).

Nel contesto italiano, le ricerche sull’applicazione della messa alla prova confermano la possibilità di modificare il precedente pessimismo rispetto all’efficacia dell’intervento penale: i dati disponibili sulla messa alla prova indicano che l’81.9% dei progetti trattamentali si concludono con un esito positivo (Mordeglia, Piras2011), dato che risulta abbastanza stabile nell’ultimo decennio con un lieve aumento nella tendenza storica per quanto riguarda le pronunce favorevoli (+1.2%; Bartolini, 2011) e che mostra l’efficacia di questo tipo di misura, nonostante la discutibilità giuridica della sua formulazione, che in qualche modo rischia di ridurre le garanzie del minore, che per certi aspetti rinuncia al diritto di difesa (Cesari, 2011). Vi è inoltre una riduzione del numero di condanne a esito di messa alla prova non favorevolmente concluse, che passano dall’8.9% del 2008 al 6%. Sebbene non siano presenti ancora studi longitudinali di follow-up che consentirebbero di stimare in modo preciso quanti ragazzi a seguito di una messa alla prova favorevole commettono altri reati, un dato incoraggiante da questo punto di vista è relativo al fatto che gli studi sulla recidiva (sugli adulti così come sui minori) sono concordi nel ritenere infondata la tesi secondo la quale l’incremento di progetti alternativi alla detenzione porterebbe ad un aumento di soggetti in libertà in grado di delinquere; al contrario, le misure alternative conducono ad un tasso di recidiva statisticamente e significativamente più basso di quello riscontrabile a seguito di condanne o di pene detentive (20% vs 68%).

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Marzo 2015

Vedi anche:

Dibattito su: “L’Adolescente e il suo Corpo” a cura di F. Carnaroli e A. Nicolò

Senza paura, senza pietà. Valutazione e trattamento degli adolescenti antisociali. Recensione di Cristina Saottini

Adolescenza/diagnosi
Adolescenza/diagnosi

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La diagnosi in adolescenza

A cura di Giovanna Montinari

L’adolescente nella diagnosi
L’adolescenza segna l’inizio di un’attività autodiagnostica del soggetto, a differenza del fatto che durante l’infanzia la diagnosi del bambino è fatta da altri: genitori, educatori, operatori delle istituzioni ecc.. L’ottica di osservazione si dovrà perciò muovere in un continuum fra l’ascolto del soggetto adolescente e la valutazione diretta o indiretta del contesto relazionale e affettivo in cui l’adolescente è inserito. La diagnosi in adolescenza, non va intesa soltanto come riconoscimento obiettivo di uno stato, né come individuazione della causa dei sintomi, ma come un tentativo di scoperta del Sé segreto dell’adolescente (Novelletto 1986), nei suoi vari aspetti, sia funzionanti che disturbati.

Nel periodo dello sviluppo psichico normale che si definisce adolescenza, il soggetto va incontro ad un insieme di trasformazioni intrapsichiche intimamente correlate, che lo porteranno ad integrare nel proprio Sé il corpo sessuato, capace di generare, l’appartenenza all’uno o all’altro dei due sessi, che sono complementari.
Questi processi sono intimamente correlati con lo sviluppo dell’esame di realtà, nei suoi aspetti cognitivi e di pensiero.
Il bagaglio di identificazioni che il bambino porta con sé e che si era formato sulla base di idealizzazioni degli oggetto primari (i genitori) va incontro ad un’adeguamento alla realtà, che mette in gioco il problema della perdita, che porta con sé il lavoro del lutto. Ciò richiede che l’attenzione dell’osservatore si rivolga agli aspetti economici del funzionamento mentale dell’adolescente; cioè al disinvestimento della cariche istintive che egli fa rispetto agli oggetti del passato e all’investimento su altrettanti oggetti nuovi.
Durante tutto il suddetto processo di rimaneggiamento e di perdita, il sistema Io-Sé diviene particolarmente bisognoso di sostegno. Quest’ultimo avviene dapprima sul modello della dinamica di doppio, cioè privilegiando oggetti affini (per sesso, età, somiglianza ecc.). Però se da un lato l’amore per “lo stesso” rinforza il narcisismo, dall’altro esso va a detrimento dell’amore per “l’altro”, il diverso da sé per le stesse caratteristiche (sesso, età e altre differenze). Le amicizie particolari della prima adolescenza svolgono questo ruolo, e così pure il dialogo con lo specchio. Si definiscono oggetti-Sé quelli che vengono scelti per salvaguardare la coesione del Sé, cioè che consentono l’uso narcisistico di oggetti esterni.
Un aspetto importante di questa evoluzione dell’esame di realtà è la possibilità di distinguere tra realtà esterna e realtà interna. L’oggetto reale esterno deve poter essere percepito come tale e non come ricettacolo dei desideri e delle aspettative che il soggetto proietta su di lui come pura espressione del desiderio.
L’azione come mezzo per influire costruttivamente sulle condizioni reali esterne (ad esempio per mettersi in contatto con l’oggetto dei desideri) deve potersi liberare dal primato del principio del piacere ed essere modulata in base ai dati dell’esame di realtà.
L’energia istintuale aggressiva, indispensabile alla conquista e alla creazione del legame con l’oggetto, deve poter perdere le connotazioni di onnipotenza, distruttività ed urgenza che possedeva nelle fasi di sviluppo precedenti.

Lo sviluppo dell’attività, introspettiva dovuta ai rimaneggiamenti sopra detti, induce l’adolescente a formulare una sua diagnosi autonoma . Spesso le definizioni che costruisce di sé sono affrettate, esagerate, autolesionistiche, alcune ben note: la dismorfofobia, l’anoressia, il destino fallimentare, le distorsioni dell’identità, l’isolamento ecc. Negli adolescenti meno disturbati questa attività è invece circondata dal riserbo, tutt’al più possono condividerla con i pari scelti elettivamente (Novelletto1986). Il lavoro terapeutico consiste spesso sostanzialmente nell’aiuto a rendere compatibili e confrontabili queste due diagnosi. Tale lavoro si pone come il primo tentativo del terapeuta di mostrare al paziente aspetti nuovi della propria diagnosi.
Il processo diagnostico con l’adolescente si pone fin dalle prime battute come lo spazio per un possibile passaggio che fa evolvere l’immagine di Sé da diagnosi segreta a diagnosi condivisa, passo essenziale verso l’assunzione di un’identità pubblica, complementare a quella di altri e pre-condizione per la creazione di nuove reazioni.

Fin dal primo colloquio con l’adolescente queste dinamiche sono parte integrante del processo diagnostico. Il bisogno difensivo di differenza e di ambiguità rende impossibile all’adolescente accedere sollecitamente ad una negoziazione. La valutazione che il terapeuta fa dentro di sé deve spesso essere immediata, perché può essere urgente trovare l’equidistanza tra l’interesse dell’adolescente per una maggiore conoscenza di sé, che però lo allarma, e la banalità dell’incontro, che lo delude (Donnet1983). Da parte sua il terapeuta deve trovare l’ascolto interno del proprio controtransfert, che è la matrice dell’interpretazione diagnostica.
Dunque l’incontro tra terapeuta e adolescente possiede da entrambi i lati una dimensione creativa importante, che però richiede il superamento di tutte le operazioni difensive con cui l’adolescente cerca di occultare il proprio mondo interno e, da parte dell’osservatore, il superamento della preoccupazione di trovare la distanza giusta tra l’intrusione o l’eccessivo riserbo.
Diversi autori hanno nel tempo proposto modelli di valutazione nel tentativo di inquadrare sia il processo che l’organizzazione, della personalità in divenire dell’adolescente. Fra questi Kernberg (1984) con l’uso dell’intervista per la diagnosi dell’adolescente, centrata sulla valutazione dell’interazione esistente fra l’intervistatore e l’adolescente in un procedimento circolare che correla la storia dei sintomi con la relazione terapeutica. Molto utili sono le categorie di valutazione di massima, come quelle proposte da Laufer (1984) che distingue tre categorie: 1) il funzionamento difensivo; 2) la situazione di stallo; 3) la conclusione prematura dello sviluppo. Altri autori proposto un atteggiamento diagnostico più integrato (Novelletto 1986, Monniello 2005,2014, Nicolò 1992, 2014) con il pensiero psicoanalitico, come Jammet (1980) nella importante chiarificazione sulla specificità del funzionamento mentale dell’adolescente che si muove in un continuum fra il mondo interno e il mondo esterno, tale per cui l’uso che egli fa delle relazioni e dell’altro è funzionale non solo alla sua economia narcisistica ma al trattamento delle sue istanze interiori. Il contributo radicale e prezioso proposto da R. Cahn (1998) con il concetto di soggettivazione, considera l’adolescenza un tempo organizzatore l’identità del soggetto, un tempo deputato allo sviluppo della soggettivazione e al conseguimento dei compiti evolutivi propri di quella fase. Processo di soggettivazione che perdura nel corso di tutta la vita a seconda di come si è concluso e risolti nella fase dell’adolescenza.
Novelletto (1986) in questa direzione ha sviluppato il concetto di “diagnosi prolungata”, una sorta di trattamento di prova in cui l’operatore può rendersi conto dello stato dell’arte dello sviluppo dell’adolescente, dei suoi rimaneggiamenti difensivi, può valutare il rapporto fra investimenti narcisistici e investimenti oggettuali e in sostanza saggiare la propensione alla terapia dell’adolescente. Anche T. Senise proponeva un processo di valutazione differenziato fra genitori e adolescenti definendo il proseguo della valutazioni una “psicoterapia breve di individuazione”.
Si evince che la letteratura psicoanalitica declina in diversi modi sia il punto dello sviluppo sia il tema relativo al quadro psicopatologico emergente in adolescenza. Le caratteristiche provvisorie e mobili delle patologie adolescenziali indicono ad una prudenza nelle generalizzazioni i invitano alla valutazione caso per caso, seguendo una linea generale dell’intreccio fra asse narcisistico e asse oggettuale.
L’osservazione diagnostica basata sulla tecnica dell’osservazione dinamica, valorizza in modo particolare il racconto della propria storia da parte dell’adolescente, ritenuta da quest’ultimo un patrimonio narcisistico ( Novelletto 2006). L’osservatore si trova spesso di fronte a tre storie: quella raccontata dai genitori, quella che il figliotenta di costruirsi dentro di sé (condividendo brani di quella dei genitori, rifiutandone altri e
aggiungendone altri ancora) e infine quella che egli è in grado di comunicare, seguendo i propri bisogni di causalità e le necessità della propria economia narcisistica
Molto importanti sono anche i sentimenti che accompagnano invariabilmente il racconto della propria storia , essi sono ispirati dall’assetto narcisistico del passato.
E’ insomma evidente, oltre al valore diagnostico, anche quello prognostico della storia come indicatore delle possibili scelte terapeutiche utili a quel soggetto adolescente.
Si può dire che l’osservatore funge da animatore della storia del paziente, ma lo fa indirettamente, attraverso l’effetto provocatorio che il transfert produce nel paziente. L’imprevedibilità dell’incontro con un oggetto nuovo, che è propria delle consultazioni iniziali, può spesso offrire spunti di transfert rivelatori delle capacità dell’adolescente di fare nuovi legami, e del come la relazione con altro viene percepita e usata.
In ogni caso il transfert organizza nuove aggregazioni, spesso inattese e sorprendenti per lo stesso paziente, degli eventi e dei ricordi del passato che egli credeva talvolta di avere già archiviati in una propria storia.
Data l’importanza del transfert nel corso della raccolta della storia, è opportuno ricordare,
oltre al transfert oggettuale, anche i vari tipi di transfert narcisistico che l’adolescente può presentare, ( Kohut1971).Trattandosi di una relazione a due, è ovvio che si prendano in considerazione anche le risposte emotive del terapeuta di fronte al transfert dell’adolescente. Non di meno è necessario conoscere le risposte ai transfert narcisisti che l’adolescente può fare su di noi, e cioè il controtransfert speculare e quello idealizzante.

Nella maggiore parte dei manuali di psicopatologia dell’adolescenza ( Marcelli e Braconier, Ammaniti) si trovano di solito schemi di osservazione che hanno lo scopo di elencare ordinatamente i dati da raccogliere nel corso dei colloqui e di altre eventuali indagini sull’adolescente, eventualmente anche sui suoi famigliari.
Ciò contribuisce ad aiutare l’operatore ad orientarsi verso una valutazione diagnostica del caso.
Naturalmente questa diagnosi potrà essere intesa in modo diverso a seconda dell’orientamento teorico-tecnico di ciascun osservatore o del servizio istituzionale del quale egli fa parte (Monniello 2005,) , qualunque sia il destinatario della valutazione diagnostica, e qualunque sia il metodo di raccolta e di descrizione dei dati forniti dal paziente, l’osservatore dovrà tenere nel massimo conto tutto quello che si origina nella propria mente, perché è proprio da quella zona, definita “preconscio” (proprio perché è intermedia fra inconscio e coscienza e strettamente legata al Sé) che provengono spontaneamente le intuizioni da cui potrà formarsi un giudizio relativamente partecipe sull’osservato. Questo processo, che fa parte del cosiddetto “controtransfert” prende inizio sotto forma di elementi psichici rozzi, prevalentemente emotivo-affettivi che, se non prematuramente repressi dall’osservatore come interferenze indebite, nel loro transito verso una coscienza più piena, si integreranno con percezioni, apporti di pensiero, ricordi, operazioni intellettive, fino a raggiungere lo stato di veri e propri giudizi. E’ grazie a questo lavoro spontaneo, non intenzionale, che il resoconto diagnostico dell’osservatore, anziché limitarsi ad una operazione esclusivamente razionale di collegamento fra dati psichici singoli, funzioni sane o deviate e presunte cause, potrà assumere le caratteristiche di un incontro umano vissuto e perciò suscettibile di fungere da modello per ogni altra relazione possibile (Montinari-Natali 2005).
La tecnica dell’osservazione psicodinamica permette di arrivare alla formulazione dei quesiti diagnostici in merito a quali delle tappe di sviluppo sono state raggiunte oppure no e quale rapporto causale può esservi tra gli eventuali arresti e ritardi di sviluppo, da un lato, e i disturbi dall’adolescente osservato dall’altro.
Lo scopo di questa valutazione dello sviluppo psichico del soggetto sta nel definire il grado della sua vulnerabilità psichica, innanzi tutto ai fini del rischio più grave che l’adolescente può correre, cioè quello del breakdown (rottura psicotica o come lo definiscono i Laufer) sempre che il breakdown non si sia già verificato e che sia proprio quello il motivo della consultazione.
Le decisioni in merito a qualsiasi forma d’intervento devono tener conto del danno che si è verificato, che continua a sussistere o che può verificarsi nel processo evolutivo dell’adolescente.
Il traguardo diagnostico ideale è quello di raggiungere un giusto equilibrio tra valutazione dei dati obiettivi (tra cui i sintomi) e quelli soggettivi (in particolare le nostre risonanze controtransferali di osservatori partecipi) di fronte all’interazione che l’adolescente che abbiamo davanti stabilisce con noi, alle sfumature transferali che possiamo cogliere fin dal primo incontro. Non di meno saranno rilevanti le valutazioni riguardo alle dinamiche familiari e della coppia genitoriale (Carbone 2005)
Tra i fattori che possono aiutare di più l’analista a definire la possibilità per l’adolescente di accedere ad una psicoterapia, vi è la capacità della coppia analitica di costituire un’alleanza terapeutica, la capacità di sfruttare l’analisi del transfert, la possibilità di collocare il lavoro analitico (raccolta del materiale, interpretazione, elaborazione) in un’area non troppo conflittuale dell’Io.
Tornando alla fase di valutazione iniziale, è importante che nel corso di essa l’osservatore non assuma prematuramente un atteggiamento analitico rigoroso (silenzio, neutralità dell’atteggiamento, assenza di domande, ecc…). Quello che conta è che la risposta al paziente sia totale, cioè comprenda i dati oggettivi e quelli soggettivi, il presente e il passato, i sintomi e l’organizzazione di base, la risonanza controtransferale immediata e la riflessione meditata.

Bibliografia
Ammaniti M., a cura di, Manuale di Psicopatologia dell’adolescenza, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2002
Cahn R. (1998) L’adolescente nella psicoanalisi. L’avventura della soggettivazione, Roma, Borla 2000
Carbone P., Genitori e figli, in a cura di Carbone P., Adolescenze, Roma Magi edizioni, 2005
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Jammet P., Psicopatologia dell’adolescenza, Roma Borla, 1992
Kernberg O. ( 1984) Disturbi gravi della personalità, Torino, Bollati-Boringhieri, 1987
Kohut H. (1971), Narcisismo e analisi del Sé, Torino, Boringhieri, 1976, pp.80-143
F. Ladame,M Perret-Catipovicc (1998), Gioco ,fantasmi e realtà, cap.3.” L’adolescenza.La posta in gioco dello sviluppo e le difficoltà di valutazione pag., Milano, Franco Angeli,2000
Laplance J., Pontalis J.B., (1967), Enciclopedia della psicoanalisi, Bari, Laterza, 1968
Laufer M.,Laufer M.E. (1985) , Adolescenza e breakdown evolutivo, Torino, Boringhieri, 1986, pp.195-214
Marcelli D., Braconier A., (1983), Adolescenza e psicopatologia, V°edizione italiana a cura di Ammaniti M.,Novelletto A., Milano, Masson 1999
Monniello G., a cura di, Luoghi istituzionali e Adolescenza, Quaderni di Psicoterapia Infantile n.51, Roma, Borla, 2005
Monniello G., Un giorno questa adolescenza ti sarà utile, in Adolescenza e psicoanalisi oggi nel pensiero italiano, a cura di G.Montinari, Milano Franco Angeli editore, 2014
G. Monniello,L.Quadrana, Neuroscienze e mente adolescente, cap.X pag.85, Roma Edizioni Magi 2010
Montinari G.,Natali M.F., Una lettura psicoanalitica dell’aiuto psicologico agli adolescenti. L’esperienza della Cooperativa Rifornimento in volo, in Luoghi istituzionali e adolescenza, a cura di Monniello G., Quaderni di Psicoterapia Infantile,n.51, Roma Borla , , 2005
Nicolò A.M.,Zavattini G.C., l’adolescente e il suo mondo relazionale, Roma , NIS 1992
Nicolò A.M., L’adolescenza, una sfida per lo psicoanalista. Come il lavoro con gli adolescenti ci ha costretto a ripensare i nostri modelli, in “Adolescenza e psicoanalisi oggi nel pensiero italiano”, a cura di, G. Montinari, Roma,Franco Angeli 2014
Novelletto A. (1985), nascita e sviluppo della diagnosi, dalla mente del terapeuta a quella dell’adolescente, in Psichiatria psicoanalitica dell’adolescenza, Roma, Borla, 1991, pp.97-101
Novelletto A., Psichiatria Psicoanalitica dell’adolescenza, Roma, Borla, 1986
Novelletto A., (2005), La valutazione diagnostica, in Carbone P. (a cura di). Adolescenze. Roma. Magi 2005
Novelletto A., L’adolescente. Una prospettiva psicoanalitica, Roma Astrolabio 2009

Febbraio 2015

Vedi anche:
Anna Maria Nicolò – Organizzazione difensive nei breakdown

Affido familiare

A cura di Benedetta Guerrini Degl’Innocenti

Cos’è l’Affido Familiare?

L’affido familiare è un provvedimento disciplinato da una legge dello Stato che si fonda sul riconoscimento del diritto del minore ad avere una famiglia. Quello che la legge n. 184 del 1983, poi modificata dalla Legge n. 149 del 2001, stabilisce è un intervento temporaneo di  aiuto e di sostegno ad un minore proveniente da una famiglia che al momento non è in grado di occuparsi delle sue necessità.
Attraverso l’affidamento, il bambino incontra una famiglia che, accogliendolo nella propria casa e nella propria vita, si impegna ad assicurare un’adeguata risposta ai suoi bisogni affettivi, educativi, di mantenimento ed istruzione nel rispetto della sua storia individuale e familiare. Alla base quindi di questa legge ci sta il fondamentale riconoscimento dell’importanza vitale che rappresenta, per l’avvenire della salute mentale, la qualità delle cure prodigate al bambino dalle figure genitoriali nei primi anni dell’infanzia.

Accudimento e funzione genitoriale

La funzione genitoriale è un compito che ha a che fare con l’allevamento dei bambini, un compito che prevede la messa in atto di un ambiente favorevole allo sviluppo cognitivo e sociale, un compito che riguarda la capacità genitoriale di rispondere alle situazioni di disagio del bambino, ai suoi approcci sociali, alle sue necessità così come ai suoi comportamenti negativi; un compito che ha a che fare con la risoluzione dei conflitti e delle difficoltà interpersonali.

Per queste ragioni la realizzazione di un’adeguata funzione genitoriale richiede delle “capacità” di vario genere che si possono sintetizzare nello sviluppo di una sensibilità ai segnali che vengono dal bambino e nella capacità di rispondere adeguatamente ai differenti bisogni che caratterizzano le diverse fasi del suo sviluppo; nella capacità di gestire le interazioni sociali, le situazioni difficili e gli eventi vitali perturbanti; nel sapere come giocare e parlare con il bambino e in un uso della disciplina tale da ottenere la messa in atto del comportamento desiderato da parte del bambino in un modo che risulti armonico ed adeguato a favorire l’incremento del suo auto-controllo (Rutter, 1989).

Dati emersi da ricerche effettuate in popolazioni di diverse culture sembrano suggerire che madri socialmente isolate che portano da sole l’intero carico della responsabilità diventano più frequentemente rifiutanti verso i propri figli. Questo suggerisce la necessità di una prospettiva che potremmo definire “ecologica”, che riconosca che la famiglia è un sistema funzionale la cui operatività può essere alterata dalla sua composizione interna così come da situazioni esterne (Bronfenbrenner, 1979). Una tale prospettiva implica che si debba rivolgere un’attenzione speciale alla genitorialità intesa in termini di risorse emozionali disponibili per il genitore.

Anche le risorse pratiche, intese come fonti di supporto quotidiano nella gestione dei figli, hanno una loro importanza e un peso, anche se, naturalmente, la mancanza di supporto materiale non può essere considerata come una variabile completamente indipendente rispetto a quelle che spesso sono le difficoltà interpersonali della famiglia. In altre parole si può pensare che la povertà di risorse esterne di certe famiglie rifletta abbastanza fedelmente quelle che sono le insoddisfacenti relazioni sociali primarie della famiglia stessa, un profondo bisogno di supporto pratico ed emotivo e probabilmente anche la conseguenza di frequenti cambiamenti di casa e di  ambiente sociale che rende assai difficile sviluppare buone relazioni di aiuto e di vicinato.

Il supporto sociale non è qualcosa che è di   per sé disponibile o meno nell’ambiente circostante, ma riflette abbastanza chiaramente la forza o la debolezza sviluppata da ciascuno nell’elicitare o attrarre il sostegno da parte degli altri.

Poiché i figli tendono a identificarsi inconsapevolmente con i genitori sotto vari aspetti, e pertanto ad adottare, quando siano diventati a loro volta genitori, verso i propri figli gli stessi modelli comportamentali che hanno essi stessi sperimentato durante la propria infanzia, modelli di interazione sia adattivi che disadattivi si trasmettono più o meno fedelmente da una generazione all’altra. Pertanto l’eredità della salute mentale e della malattia mentale tramite la microcultura familiare è certamente non meno importante di quanto sia l’eredità tramite i geni e forse anche più importante.

Le cause del disfunzionamento genitoriale sono indubbiamente complesse, ma sia la violenza fisica che sessuale, che la trascuratezza, riconoscono al fondo dei sentimenti negativi verso i bambini.

Se una società vuole davvero aiutare i bambini in difficoltà – scriveva John Bowlby – deve trovare un modo per aiutare i loro genitori e l’importanza della teoria dell’attaccamento sta nel fatto che ha dato consistenza scientifica allo studio del legame che i bambini e i loro genitori (o le persone più importanti che si prendono cura di loro) stabiliscono fin dagli stadi precoci dello sviluppo (Bowlby, 1958; 1969).

Attaccarsi, separarsi e affidarsi

In un noto libro Myriam David (1989) suggerisce che le situazioni che conducono all’affidamento scaturiscono prevalentemente da una sorta di “intolleranza madre- bambino” che sarebbe da ricondurre ad un precoce disturbo del processo di costruzione delle strategie di   attaccamento. Tale intolleranza potrebbe essere sufficientemente consapevole da motivare la richiesta di  affidamento da parte degli stessi genitori, caso a dire il vero non molto frequente, o, più facilmente, essere più o meno occulta, inconscia, e manifestarsi o attraverso la comparsa di sintomi di disagio o di sofferenza psichica nel bambino, o attraverso un improvviso e spesso violento passaggio all’atto da parte del genitore.

Anche altri autori hanno sottolineato come l’elemento strutturale comune di molte famiglie multiproblematiche sia riconducibile ad una distribuzione patologica di stili relazionali assimilabili a categorie di attaccamento quali l’“invischiamento” e il “disimpegno”, e come mostrino al loro interno oscillazioni continue fra un totale coinvolgimento e invischiamento fra i membri da un lato, ed il disinteresse, il disimpegno reciproco, in particolare dei genitori per i figli dall’altro. All’oscillazione tra coinvolgimento e disimpegno corrisponderebbe poi quella tra attitudini fusionali e brusche separazioni che, nella loro forma più  estrema, si possono manifestare come veri e propri abbandoni, sia fisici che psicologici (Stierlin, 1978).

Da questi contributi sembra emergere una sostanziale convergenza riguardo alla centralità dei processi di separazione-individuazione e dei loro aspetti problematici raffigurantesi nei comportamenti ambivalenti e ambitendenti dei genitori problematici e di come questi possano innescare quei meccanismi di espulsione che inducono l’affidamento familiare. Del resto è ormai ampiamente documentata in letteratura la frequenza di “cicli dell’abuso”, intendendo il termine di abuso nel suo significato più estensivo che include accanto alle forme estreme e conclamate di grave maltrattamento fisico e di abuso sessuale, tutte quelle situazioni ben più subdole di abuso emotivo e di trascuratezza fisica e psicologica. Il bambino emotivamente deprivato di   oggi diventa il genitore trascurato di domani: le esperienze avverse vengono internalizzate dal bambino che cresce in modo tale da condurre ad altre esperienze avverse, perpetuando così il circolo negativo della patologia.

D’altra parte, la ricerca sull’attaccamento ci mostra come per il bambino nel primo anno di vita sia condizione indispensabile per lo sviluppo psicologico, la presenza di una figura di accudimento stabile, capace di assicurare un’interazione affettiva e per mezzo della quale costruire una strategia di attaccamento il più possibile “sicura”, strategia che rappresenterà nel futuro lo schema di riferimento per i rapporti con se stesso e con il mondo. È per questo motivo che, soprattutto nelle situazioni in cui la relazione familiare disfunzionale coinvolge un bambino nei primi due anni di vita, la scelta dell’affido familiare può rappresentare una nuova occasione per il bambino e per i genitori naturali di far ripartire il percorso evolutivo su  un binario più sicuro.

E’ abbastanza inevitabile pensare che l’affido di un bambino molto piccolo, ad eccezione di quelle situazioni in cui si possa ipotizzare subito una probabile evoluzione verso l’adottabilità, deve necessariamente essere pensato come una forma di presa in carico di tutto il nucleo familiare (Guerrini Degl’Innocenti, 2015). Infatti la famiglia affidataria può rappresentare non solo un’occasione per quel bambino di riabilitare la propria capacità interattiva precocemente interrotta o disturbata dalle distorsioni delle relazioni genitoriali e familiari, ma anche una nuova occasione per i genitori naturali di sperimentare loro stessi una forma di sostegno e di aiuto. Molto spesso le difficoltà relazionali precoci sono leggibili come una forma di riattualizzazione da parte dell’adulto divenuto genitore, di un’immagine del sé bambino trascurato, fisicamente e/o psicologicamente, talvolta abusato o, al contrario, iperinvestito fino a complete inversioni di ruolo in cui il bambino viene trasformato nel genitore del proprio genitore. Queste dinamiche, nella maggior parte dei casi non elaborate e quindi inconsce, fanno sì che quel genitore trascurato, abusato o negletto possa inconsapevolmente proiettare sul proprio figlio quella parte così danneggiata del sé infantile allo scopo, sempre inconscio, di liberarsene. Al tempo stesso quello che viene messo in atto è un modello operativo interno patologico della relazione di attaccamento, modello che quel genitore ha strutturato nei primissimi anni dell’infanzia nella interazione quotidiana con i propri genitori.

L’affido, che interviene a regolamentare sia la separazione fra il bambino e i suoi genitori che a stabilire le modalità di  incontro e scambio, può così aiutare questo nucleo disfunzionante a compiere il percorso verso l’elaborazione dei processi di separazione e individuazione, laddove la separazione fisica di fatto stabilita serva a promuovere quella separazione psichica che può contribuire alla ristrutturazione del sistema familiare.

Bibliografia nel testo

Bronfenbrenner U. (1979), The ecology of human development: experiments by nature and design. Cambridge, MA: Harvard University Press.

Bowlby J. (1958), The nature of the child’s tie to his mother. International Journal of Psychoanalysis, 39, 350-373.

Bowlby J. (1969), Attaccamento e perdita. 1: L’attaccamento alla madre, Boringhieri, Torino, 1983.

David M. (1989), Le placement familial. De la pratique à la théorie. ESF Paris.

Guerrini Degl’Innocenti B. (2015) I legami di cura: attaccarsi, separarsi, affidarsi. Famiglia e Diritto. Mensile di legislazione, dottrina e giurisprudenza, 2: 199-204.

Rutter M. (1989), Intergenerational continuities and discontinuities in serious parenting difficulties, in D. Cicchetti & V. Carlson (Ed.), Child Maltreatment, Cambridge University Press.

Stierlin H. (1978), La famiglia e i disturbi psicosociali, Boringhieri, Torino, 1983.

Voci bibliografiche di riferimento generale 

AAVV (1997), Un bambino per mano. L’affido familiare, una realtà complessa. Franco Angeli, Milano.

Barbagli M., Saraceno C. (1997) Lo stato delle famiglie in Italia. Il Mulino, Bologna.

Mazzucchelli F. (1993) (a cura di) Percorsi assistenziali e affido familiare. Franco Angeli, Milano.

Nunziante Cesaro A., Ferraro F. (1992) (a cura di) La doppia famiglia. Discontinuità affettive e rotture traumatiche. Franco Angeli, Milano.

Vedi anche :

In Dibattiti: Dibattiti IPA: le nuove famiglie

Allucinatorio/ Allucinazioni

A cura di Antonello Correale

L’allucinazione, che in psichiatria viene classicamente definita come una percezione senza oggetto, è considerata in psicoanalisi come la punta estrema di un fenomeno percettivo molto più ampio, che può essere definito allucinatorio.

Per allucinatorio, si intende un pensiero, un’immagine, una traccia mnestica, un particolare percettivo, che assumono una iperchiarezza, una vivacità sensoriale, una coloritura così intensa, da occupare lo spazio mentale, rallentare o addirittura impedire il flusso associativo e determinare sul soggetto che lo prova una sorta di ipnosi, di incantamento, di catturamento quasi totale dell’attenzione.

Le caratteristiche dell’allucinatorio, oltre alla iperchiarezza e alla vivacità sensoriale, sono una perdita della terza dimensione, un allentamento del rapporto figura – sfondo, una perdita di un punto di vista particolare. L’immagine viene insomma in larga misura decontestualizzata e rimane come sospesa nella mente, potente e isolata in una sorta di fissità.

Freud ha fatto dell’allucinatorio uno dei pilastri del suo pensiero, al punto di arrivare a dire che la percezione è sempre in prima istanza allucinatoria.

Per comprendere questa affermazione, bisogna considerare che Freud pensa che il soggetto- bambino è sempre dominato da un desiderio violento di oggetto e delle soddisfazioni che l’oggetto può offrigli o offrirle.

Quando l’oggetto è assente e quindi non  in grado di offrire le soddisfazioni richieste, il bambino allucina cioè presentifica l’oggetto alla mente, in forma particolarmente intensa e eccitante, per compensare la delusione dell’assenza. Solo gradualmente, attraverso il ritmo assenza- presenza, la madre permette al bambino di riconoscere una presenza reale fuori di sé e di rinunciare alla gratificazione allucinatoria in nome dell’oggetto reale.

Nel lavoro La negazione, Freud riprende questa tema e arriva a dire, che solo il ritrovare l’oggetto ne permette il riconoscimento di realtà. Se l’oggetto non viene ritrovato, ma solo trovato, la percezione rimane in prima istanza allucinatoria.

Insomma, Freud ritiene che il principio del piacere influenzi profondamente il principio di realtà, al punto che solo un’insistenza dell’oggetto sul soggetto permette che al principio del piacere – è buono, è cattivo – si aggiunga il principio di realtà – è vero, non è vero.

Freud distingue poi i ricordi di copertura e l’allucinatorio vero e proprio.

Nei ricordi di copertura, un desiderio verso un oggetto proibito si sposta su un oggetto contiguo, incapace in se stesso di procurare desiderio, ma investito perché vicino all’oggetto desiderato. Questo meccanismo è presente nelle nevrosi e in particolare nell’isteria.

Nell’allucinatorio vero e proprio, il desiderio e i meccanismi di divieto e di difesa che mette in atto, la fa da padrone  e l’oggetto allucinatorio prende il posto addirittura dell’oggetto reale. Questo meccanismo è tipico, secondo Freud, della psicosi.

La Klein pone l’allucinatorio sotto il segno della scissione. L’aggressività rabbiosa che domina il bambino lo spinge o la spinge  a scindere addirittura la percezione, che viene attaccata e frammentata. L’allucinatorio e il suo polo estremizzato, l’allucinazione, sono frammenti di una percezione sotto attacco.

Il tema verrà ancora più fatto avanzare da Bion, che pone tutto l’allucinatorio sotto l’egida dei meccanismi della identificazione proiettiva maligna, un attacco evacuativo non solo al pensiero, ma anche alla percezione, in obbedienza a intensi bisogni espulsivi dell’attività di pensiero.

Winnicott modifica questo approccio e individua un percorso che potremmo chiamare dall’allucinazione alla illusione. La madre-oggetto transizionale raccoglie tracce dell’allucinatorio, per inserirle nella attività condivisa dell’illusione.

Più recentemente, nell’ottica di una ripresa attenta del pensiero freudiano, i Botella affermano che l’allucinatorio è l’effetto del trauma. La scomparsa improvvisa di un oggetto investito potentemente non lascia un vuoto, ma un pieno di frammenti sensoriali allucinatori, che hanno il fine di mantenere, trattenere qualcosa dell’oggetto, per non sprofondare in un vuoto affettivo e rappresentativo.

I Botella chiama lavoro della raffigurabilità psichica questo operare sull’allucinatorio, che diviene così, nella loro ottica, non più un elemento di scarto, ma addirittura la via maestra per recuperare una certa possibilità di rappresentazione dell’oggetto perduto.

Possiamo riassumere dicendo che l’allucinatorio è un attività fondamentale della mente, al servizio della pulsione, ma che assume una rilevanza del tutto particolare in alcune condizioni, come il trauma, l’isteria, la psicosi.

Può essere considerato come frutto di un espellere o come frutto di un trattenere. E’ questo un dibattito fondamentale nella psicoanalisi contemporanea, i cui risultati possono determinare  una modifica profonda nelle modalità di trattamento della psicosi cronicizzata e dei disturbi gravi di personalità, nonché nei casi sempre più frequenti di isteria grave.

In ogni caso è fondamentale un’attenzione assoluta al fenomeno nell’attività clinica.

Febbraio 2014

Allucinazioni uditive

A cura di Gabriella Giustino

Anche se le allucinazioni possono interessare tutti i sensi (la vista, l’udito, il tatto, l’olfatto, il gusto), quelle più studiate e frequenti sono quelle acustiche.

Un punto importante nello studio delle allucinazioni è quello che riguarda il giudizio di realtà.

In che modo il paziente conferisce un carattere di realtà a stimoli che, fuori di ogni ragionevole dubbio, nascono dalla sua mente?

Un elemento caratteristico dello stato allucinatorio consiste nel fatto che il paziente perde la differenziazione tra realtà interna ed esterna e smarrisce il giudizio di realtà. Nell’allucinazione lo stimolo, che nasce dall’interno, viene proiettato all’esterno e, senza che esista una corrispondenza con un oggetto esterno, acquisisce il carattere della realtà.

Come può la nostra mente essere ingannata dal fenomeno allucinatorio e quali sono le condizioni che permettono di formulare un giudizio di realtà?

Come il giudizio di realtà sia aleatorio e come la sua  alterazione dipenda da strutture cerebrali che ingannano la mente è dimostrato da un elegante esperimento  neuroscientifico (Schacter et al.,1996). A una serie di soggetti un intervistatore comunicava a voce una lista di nomi che corrispondevano a degli oggetti. In un momento successivo  gli stessi soggetti leggevano  un’altra lista in cui erano presenti alcuni nomi elencati nella prima lista ( e quindi uditi)  e altri in cui gli stessi oggetti della prima lista venivano nominati con una parola diversa ma dotata dello stesso significato (ad esempio “dolce” invece di “torta”). Alla fine si chiedeva se un determinato vocabolo era presente nella prima lista o meno. Alcune volte i soggetti confondevano i nomi della seconda lista con quelli della prima, mentre altre volte ricordavano benissimo i nomi della prima lista. Attraverso tecniche di neuroimagining i ricercatori hanno visto che l’ippocampo si attiva sia quando il soggetto ricorda correttamente sia quando sbaglia.

La differenza è che quando il ricordo è vero si attiva anche la corteccia uditiva, sede della memorizzazione uditiva (la prima lista è stata letta); quando invece il ricordo non ha riscontro nella realtà, al di là della convinzione del soggetto, si attiva l’ippocampo mentre la corteccia uditiva rimane inattiva.

La conclusione dei ricercatori è che l’attivazione dell’ippocampo fornisce il convincimento di realtà al ricordo, indipendentemente che questo sia veramente accaduto o meno.

Alcune ipotesi psicoanalitiche

Freud ha affrontato il tema delle allucinazioni da molti punti di vista,  a volte difficili da integrare fra loro. All’inizio  considera l’allucinazione secondo il modello della rimozione, della regressione e del ritorno del rimosso.

Per Freud l’Io, allontanandosi dalla rappresentazione incompatibile, si stacca anche dalla realtà poiché alla rappresentazione incompatibile sono connessi pezzi di realtà.

Descrivendo il caso  del Presidente Schreber  (1911), affermerà che le allucinazioni sono il prodotto del conflitto inconscio derivante dagli impulsi  omosessuali inconsci del Presidente.

Inoltre Freud (1924) prospetta l’interessante ipotesi che la realtà psicotica deriva dalle sensazioni del proprio corpo  in quanto  il paziente  riconosce come esterocettiva una realtà propriocettiva. L’ingresso nella psicosi, per Freud, si svolge in due stadi. Prima L’Io nega (rigetta) la realtà e si svincola da essa, poi crea una nuova realtà tramite un delirio o un’ allucinazione. Questa neocreazione avviene per risarcire l’Io del danno subito. L’angoscia non è dovuta al ritorno del rimosso (come nella nevrosi) ma al riemergere di quella parte di realtà  che è stata rigettata.

In modo abbastanza sorprendente e nel periodo maturo della sua produzione, Freud (1937) riprende il tema dell’allucinazione legandolo alla memoria. Egli sostiene che le allucinazioni non psicotiche contengono i ricordi di avvenimenti remoti, qualcosa che il bambino ha udito  quando non sapeva ancora parlare.  Ma anche le allucinazioni psicotiche, inserite nei sistemi deliranti, avrebbero lo stesso significato di memorie del passato, sia pur estremamente deformate, che aspirano a emergere dall’oblio.

L’allucinazione, per Bion, è frutto di un’operazione mentale che distrugge gli elementi alfa (simboli), li riduce in frantumi che non possono essere pensati ma solo evacuati. Tale evacuazione avviene attraverso gli organi di senso, il cui funzionamento s’inverte espellendo nel mondo esterno elementi beta indigeriti insieme a tracce di Io e Super-Io,  dando luogo agli oggetti bizzarri ( Bion 1958).

Alcuni pazienti usano l’onnipotenza implicita nell’allucinazione come un metodo per acquisire indipendenza da qualsiasi oggetto o situazione mediante la capacità di usare i propri organi di senso come organi di evacuazione in un mondo creato da loro stessi.

Un’ intuizione originale infine sul tema delle allucinazioni ci viene da Lacan (1981). Com’è noto egli distingue tre ordini di funzioni: l’ immaginario, il simbolico e il reale che vede collegati insieme dalla funzione del linguaggio. Quando interviene la forclusione, come nel caso della psicosi,  il linguaggio non può più esercitare la funzione di legame e si realizza una confusione tra il reale e il simbolico come nel caso delle allucinazioni acustiche.  Per Lacan l’allucinazione è il ritorno di ciò che non è stato elaborato a livello simbolico ma che è stato forcluso, ovvero dissociato dalla coscienza. Il contenuto dissociato dalla personalità del soggetto verrà quindi ad imporsi come esperienza proveniente dalla realtà esterna, pertanto nell’allucinazione la parola dell’inconscio appare come puro Es.

Bibliografia

Bion W.R. (1958). On Hallucination. Int. J. Psycho-Anal., 39:341-349

Freud S. (1911) Psycho-analitic notes on an autobiographical account of a case of paranoia (Dementia paranoides). SE 12:3-84

Freud S. (1915) A Metapsychological Supplement to the Theory of Dreams. SE 14:217-36

Freud S. (1924) The  loss of reality in neurosis and psychosis. SE 19 183-90

Freud S. (1937) Constructions in Analysis SE 23:256-270

Hugdall K. (2009) Hearing voices:  hallucinations as failure of top-down control of bottom-up perceptual. Scandinavian Journal of Psychology 50: 553-560

Lacan J., (1981), Les Psychoses, Séminaire III 1955-56, Seul, Paris.

Schachter, D. L. et al. (1996). Neuroanatomical correlates of veridical and illusory recognition memory: evidence from positron emission tomography. Neuron, 17:1-20.

Approfondimenti

Allucinazioni uditive

Il caso Schreber

Amore primario
Andrea Segantini, Le Due Madri - 1889 -

Andrea Segantini, Le Due Madri - 1889 -

A cura di Simonetta Diena

Balint  e la teorizzazione dell’amore primario

Che cos’è l’amore primario passivo, o relazione oggettuale primaria, per Balint?

E’ una pulsione originaria, fonte di ogni successiva evoluzione normale o patologica. Le prime relazioni madre/bambino per Balint si posizionerebbero in una felice ed estatica attesa d’amore e di soddisfazione, che va dal bambino alla madre, senza percezioni di obblighi di reciprocità: una sconfinata ed onnipotente possibilità di ricevere da parte del bambino, una infinita e illimitata capacità di dare nella madre. La tenerezza, in Balint, non è più, come in Freud, una libido inibita nella meta, (vedi oltre) ma è una pulsione autonoma, che non deve più essere individuata rispetto alla genitalità. E anche la genitalità, in Balint, si configura come una pulsione autonoma, legata alla riproduzione del singolo e della specie. Il destino dell’uomo è per Balint legato appunto alla relazione oggettuale primaria: solo la tenera e puntuale gratificazione del bisogno d’amore passivo consentirà al bambino una progressiva crescita nell’esame di realtà fino ad affrontare da adulto l’avventura della genialità. L’assenza di questo amore primario invece lo obbligherà ad affrontare le strade della nevrosi, della perversione o della psicosi.

Primary Love and Psychoanalytic Thecnique, è un insieme di saggi apparsi nel 1952, e scritti da Balint tra il 1930 e appunto il 1952, su tre argomenti strettamente collegati tra loro: la sessualità umana, le relazioni oggettuali e la tecnica psicoanalitica. Non tutti gli scritti, come sottolinea giustamente Zucchini nella prefazione italiana, sono ugualmente interessanti. Ad una lettura attuale sembrano a tratti noiosi e decisamente superati,  ciononostante contengono elementi a mio avviso di grande interesse.

Nel saggio Note critiche alla teoria dell’organizzazione genitale della libido (1935) Balint si propone di studiare “lo sviluppo delle relazioni oggettuali, e cioè lo sviluppo dell’amore”

E’ difficile tradurre in linguaggio moderno questo saggio di Balint, che troppo appare impastato di concetti biologici e pulsionali. In parte rimando ai paragrafi successivi dedicati al lavoro di Freud, la comprensione del suo lavoro, ma in parte devo confessare che sono rimasta colpita da quanto, in un insieme di concetti appunto ora desueti, compaiano invece intuizioni fondamentali di clinica e di teoria psicoanalitica. Per esempio quando descrive quei pazienti che “non amano, ma vogliono essere amati.” La richiesta di gratificazione di tale necessità è assolutamente problematica, e viene spesso manifestata in modo violento e con grande dispendio di energia, come se fosse una questione di vita o di morte. Da questa tendenza deriva la paura di essere abbandonati. Balint sottolinea il fraintendimento cui questa richiesta va incontro, perché viene letta come una forma di aggressività e di innato sadismo (In seguito nella Klein questo fraintendimento verrà legato alla teorizzazione del predominio della distruttività nei primi anni di vita.) Ma, dice Balint, e secondo me è geniale: “E’ la sofferenza che rende cattivi, tutto ha un suo precedente che può essere rimosso”. L’altro fraintendimento riguarda la passione. La modalità di manifestazione della pulsione vien confusa con la sua meta: si pensa che i desideri il cui appagamento venga richiesto in modo così appassionato appartengono ad una vita pulsionale sana; mentre sono le mete pulsionali appassionate che conducono ad uno sviluppo disturbato, al fraintendimento delle lingue di cui parla Ferenczi.

In questo modo Balint intende mettere in discussione il bambino polimorfo perverso di Freud, il bambino autoerotico e narcisistico. Ma, dice Balint, la tendenza primaria del bambino a pensare “Io sarò sempre amato, dovunque, in qualunque modo, senza il minimo sforzo da parte mia” che poi è la meta finale dell’amore oggettuale passivo, appartiene appunto al mondo dell’Io del bambino, che  non ha ancora operato la differenziazione tra Io e mondo esterno, un mondo che è ancora completamente narcisistico, non ad una perversa ostinazione del bambino, ad una sua innata cattiveria.

In realtà Balint suggerisce, più o meno implicitamente, di sostituire il concetto di narcisismo primario con quello di amore primario passivo. Il narcisismo del bambino deriva, per Balint da questo pensiero: “Se il mondo non mi ama abbastanza, sono io che devo amare e gratificare me stesso”. Di conseguenza vediamo come per Balint il narcisismo sia sempre di natura secondaria. Di fatto insiste sulla differenza tra narcisismo come investimento libidico, cioè quello in cui la persona ama se stessa e quello in cui la persona non prende in considerazione, o in modo insufficiente, la realtà esterna.

Ma per Balint se c’è l’amore oggettuale passivo, che è, ripetiamo, la meta primaria dell’erotismo, l’amore libidico di sé, c’è anche l’amore oggettuale attivo, nel quale invece amiamo e gratifichiamo il nostro partner perché ci ricambi con amore e gratificazione. Entrambi sono strettamente collegati. Commentando la domanda di Freud su “da dove origina il nostro bisogno di applicare la libido agli oggetti” (in Introduzione al narcisismo), Balint dichiara che solo la concezione dell’amore passivo per l’oggetto fornisce una spiegazione di questa descrizione clinica. L’amore narcisistico non può mai raggiungere la meta di tutti gli impulsi sessuali: per essere amati, bisogna entrare in contatto con il mondo e con i suoi oggetti.

Prima di introdurre quello che è a mio avviso il saggio più bello, Amore e odio, (1951) sento che è necessaria una piccola premessa storica.

Non si può affrontare il lavoro di Balint sull’amore primario passivo, dicevo prima, senza fare infatti un breve riferimento all’opera di Freud cui si riferisce costantemente, e cioè ai Tre saggi sulla teoria sessuale. Inoltre credo che ogni riflessione di Balint sulle preoccupazione freudiane sulla relazione tra sessualità e amore, tenerezza e sessualità scelta d’oggetto e scelta narcisistica, non possa non prescindere da questo lavoro iniziale.

I Tre saggi sulla teoria sessuale (1905) sono, insieme all’Interpretazione dei sogni (1899) l’opera che Freud ha arricchito e precisato maggiormente nel corso delle edizioni successive, pur mantenendone intatta la struttura.

E’ nel terzo saggio, Le trasformazioni della pubertà che affronta il compito più arduo, quello di collegare l’esperienza della sessualità infantile all’organizzazione complessiva dello psichismo. La teoria del primato genitale risulta poco soddisfacente: “ L’inizio e la meta finale della successione evolutiva  descritta stanno chiaramente davanti ai nostri occhi. I passaggi intermedi ci sono ancora oscuri da molti punti vista; dovremo lasciare in essi più di un enigma non risolto.” La teoria del primato genitale viene prima proposta e poi contrastata continuamente, a favore di un’implicita consapevolezza della necessità di continue ristrutturazioni del funzionamento psichico in relazione alle esperienze di incontro con gli oggetti.

L’enigma di una tensione libidica che non si estingue con il suo soddisfacimento, come avviene invece per la fame, resta aperto, come strada verso sviluppi che valorizzano gli aspetti relazionali: “Ci è rimasto assolutamente non chiaro donde derivi la tensione sessuale che, nel soddisfacimento delle zone erogene, nasce contemporaneamente al piacere, e quale sia l’essenza di essa.”

Come possiamo vedere, Balint parte da questo saggio, ma poi se ne discosta, e non di poco.

Prendiamo per esempio, come inizio di discussione, il punto in cui, in Amore e odio, discute il concetto di onnipotenza infantile:

“Onnipotenza- dice- non significa mai propriamente una situazione di potenza: al contrario, indica un tentativo disperato e molto incerto di vincere una sensazione di inferiorità e impotenza.” Balint inizia a discutere il concetto di onnipotenza per meglio capire quella che chiama la differenza tra amore maturo, o adulto e amore primitivo, nel quale appare di fondamentale importanza un tempestivo e opportuno appagamento di tutti i bisogni, a causa della assoluta dipendenza dall’oggetto. O secondo un altro punto di vista, non è tanto il bambino, o l’adulto, ad essere avido, ma sono le loro gratificazioni ed il loro oggetto ad avere un’importanza assoluta.

Tutte le situazioni oggettuali pregenitali o primitive, come le definiremo meglio adesso, contengono in varia misura questi tre elementi: disperata dipendenza, rifiuto di questa dipendenza per mezzo dell’onnipotenza, il dare l’oggetto per scontato trattandolo come un vero oggetto, una cosa. Alla base di tutte queste relazioni primitive risiede una verifica di realtà falsa e ancora poco sviluppata, o difettosa. Ecco perché l’amore onnipotente, o avido è instabile, e condannato a subire infinite frustrazioni e trasformazioni in odio. L’odio, è per Balint, l’ultimo residuo, il rifiuto e la difesa contro l’amore oggettuale primitivo. Ciò significa che odiamo le persone che non ci amano e si rifiutano di collaborare malgrado i nostri sforzi di guadagnarci il loro affetto. Ci difendiamo innalzando le barriere dell’odio. Ma l’odio ha bisogno del rifiuto della dipendenza, e della disuguaglianza tra oggetto e soggetto.

Gli scritti di Balint si collocano sempre all’interno di un dibattito creativo. In questo contesto dobbiamo leggere i suoi scritti, estremamente attuali nel dibattito moderno sull’esperienza relazionale. Per Balint questa è sempre collocata in una vicenda di costante ambivalenza, di amore e odio, attrazione e rifiuto, fiducia e sfiducia al tempo stesso. Per tali ragioni Balint sottolinea più volte la necessità di una base sicura nella fase pre-verbale. Ecco quindi l’origine e la necessità dell’amore primario.

Ottobre 2015

Angoscia di separazione
Angoscia di separazione

Dal film E.T. l'extra-terrestre di Steven Spielberg

A cura di Giorgio Mattana

L’angoscia di separazione, introdotta per primo da Otto Rank (1924) con il concetto di trauma della nascita, fa riferimento a un evento centrale e caratteristico di ogni relazione,a partire da quella primaria fra madre e bambino. Immerso in una situazione di dipendenza totale dalla madre, il neonato può vivere la separazione da essa come un evento estremamente drammatico, capace di ripercuotersi negativamente sulle future separazioni adulte, e prima ancora sul vissuto di quei processi fondamentali di separazione che sono lo svezzamento, la crescita, l’adolescenza e la maturità. Nel caso di un poco felice superamento delle prime angosce infantili di separazione, anche il vissuto della morte come separazione definitiva sarà difficilmente elaborabile e integrabile nella prospettiva di vita del soggetto. Nell’ambito della revisione della sua prima teoria dell’angoscia, Freud (1926) chiaramente antepone all’angoscia di castrazione legata alla fase fallica e al dramma edipico un’angoscia di separazione che rimanda a fasi evolutive precedenti, e tuttavia in qualche modo già prefigura quelle successive, nella fedeltà a un modello energetico-pulsionale della mente che individuava il vero pericolo e motivo del “segnale d’angoscia” nella scomparsa dell’oggetto in quanto fonte di soddisfacimento pulsionale. In linea con le ultime formulazioni freudiane, la Klein (1935) sottolinea come nel corso dello sviluppo il bambino vada inevitabilmente incontro a situazioni di separazione o di perdita, le prime e più significative delle quali riguardano la nascita e lo svezzamento. Quest’ultimo in particolare, nella sua connessione con la separazione dalla madre e l’ingresso nella posizione depressiva, rappresenterebbe il modello di tutte le perdite successive. Benché espresse in un linguaggio pulsionale, le formulazioni kleiniane sembrano inscriversi più organicamente di quelle freudiane in un contesto relazionale, come risulterebbe dal rifiuto del concetto freudiano di narcisismo primario e dalla tesi della originarietà della relazione con oggetti esterni e interni.
Fra gli autori postkleiniani, Bion (1962) sottolinea la capacità innata del bambino di far fronte alle frustrazioni che inevitabilmente la madre, come rappresentante della realtà, provoca in lui. Si tratta di frustrazioni orali collegate anche alla separazione, come nel caso dello svezzamento, o di frustrazioni edipiche precoci legate alla presenza della figura del padre. Grazie alla sua capacità di rêverie, la madre potrà accogliere l’angoscia di morte che si accompagna nell’infante alla frustrazione dei bisogni più elementari, aiutandolo a trasformarla e tollerarla, oppure fallire in questo compito creando le premesse della sua patologia relazionale adulta. In sintonia con l’ultima Klein (1963), Winnicott (1965) definisce la capacità di essere solo come una delle conquiste evolutive più difficili, ma al tempo stesso essenziali al raggiungimento della maturità affettiva. Il bambino sviluppa la capacità di essere solo in maniera progressiva: dapprima in presenza della madre e successivamente, in maniera graduale, attraverso l’interiorizzazione di questa, fino alla possibilità di essere veramente solo, inconsciamente sostenuto dalla sua rappresentazione interna.
Notevole supporto empirico alle formulazioni postfreudiane dell’angoscia di separazione proviene dalle osservazioni effettuate da Bowlby (1960, 1988) nell’ambito dei suoi studi sull’attaccamento. Questo autore concepisce l’angoscia di separazione come qualcosa di primario e biologicamente determinato, espressione della tendenza innata del bambino a stabilire un intimo contatto emotivo con l’oggetto, e conseguenza diretta della rottura di tale legame. Come evidenziano Emde (1981) e Stern (1985), fin dalla nascita il bambino mostra uno spiccato interesse per l’ambiente umano e ricerca selettivamente l’interazione con esso, contrariamente all’interpretazione prevalente del narcisismo primario freudiano come fase iniziale caratterizzata dall’assoluta chiusura relazionale del soggetto.
Come conseguenza della sua centralità nello sviluppo, numerosi autori postfreudiani pongono particolare enfasi sulla separazione in analisi, suscettibile di far emergere nel transfert gli antichi vissuti separativi del soggetto, fino a farne in alcuni casi l’aspetto centrale del trattamento e delle sue finalità trasformative. Notevole è l’attenzione riservata dagli autori kleiniani alle difese dall’angoscia di separazione, dalla negazione alla scissione e all’identificazione proiettiva, all’identificazione adesiva, alla masturbazione anale e a diversi tipi di agito. Significativa la posizione di Meltzer (1967), che si sofferma sulla ciclicità del processo analitico, sottolineando come l’esperienza della separazione tenda a dominare l’inizio e la fine di tali cicli (seduta, settimana, segmento, anno di analisi): l’analisi è “dominata” da questo aspetto dinamico “fino a quando le ansie con esso connesse non siano state chiarite, di modo che la loro elaborazione possa avviarsi” (p. 46). Ancora più radicalmente, Quinodoz (1991) colloca la separazione e le connesse ansie e difese al centro dell’attenzione fin dalla prima seduta, di fatto facendone l’asse portante del trattamento fino alla sua conclusione.
Con Bion (1963), è possibile replicare a tale accentuazione considerando la separazione un “elemento” della psicoanalisi, centrale e imprescindibile ma da non confondere con il tutto, bensì da esplorare di volta in volta nelle sue declinazioni peculiari, nella sua variabile incidenza nelle diverse manifestazioni psicopatologiche. Appresa dall’esperienza, la categoria psicoanalitica della separazione a quest’ultima deve rimanere collegata, testimoniando caso per caso la propria rilevanza e dinamica, onde evitare di costituirsi in categoria metafisica inconfutabile, essendo in linea di principio tutto quanto avviene fuori della stanza dell’analisi interpretabile nel suo nome. Ciò introduce a un’ultima considerazione, che muove dalla consapevolezza che intense angosce di separazione e relative difese possono del pari attivarsi all’interno della situazione analitica: a condizione di ancorarsi a indici clinici significativi, l’esperienza della separazione e dell’identità separata nelle sue diverse e multiformi modalità, appare qualcosa di più complesso e interiore rispetto alla separazione spazio-temporale legata ai “cicli” analitici. Come suggeriscono Winnicott (1965) e la Klein (1963), l’esperienza della separazione è un vissuto profondo e difficilmente obiettivabile, a partire dall’essenziale possibilità di sperimentarla in presenza dell’oggetto. Per converso, non sempre e non necessariamente sensazioni di vuoto, solitudine e distacco con le relative ansie e difese corrispondono in maniera lineare a situazioni di separazione in senso spazio-temporale.

Bibliografia

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Bion W.R. (1963). Gli elementi della psicoanalisi. Roma, Armando, 1973.
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Bowlby J. (1988). Una base sicura. Milano, Cortina, 1989.
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Stern D.N. (1985). Il mondo interpersonale del bambino. Torino, Bollati Boringhieri, 1987.
Winnicott D.W. (1965). La capacità di essere solo. In Sviluppo affettivo e ambiente. Roma, Armando, 1974.

Luglio 2014

Anoressia
Rooze Mirijan

Rooze Mirijan

A cura di Maria Teresa Palladino

L’anoressia è un disturbo del comportamento alimentare che comporta un rifiuto più o meno grave ad alimentarsi. L’obiettivo è quello di mantenere uno stretto controllo sul peso per evitare di ingrassare come  parte di un bisogno di controllo totale del corpo e delle sue funzioni. Implica anche una distorsione dell’immagine corporea per cui viene negata l’effettiva condizione di debilitazione fisica.  Inoltre esiste una negazione di stimoli come la fame o la stanchezza spesso connessa alle attività di fitness messe ossessivamente  in atto al fine di mantenere sotto controllo il peso. Questo insieme di comportamenti implica quasi sempre una situazione di amenorrea e può arrivare nelle forme estreme a provocare conseguenze permanenti sul piano corporeo fino a  mettere in pericolo la vita stessa.

E’ un disturbo che spesso si presenta alternato al suo opposto, la bulimia, caratterizzata  da abbuffate compulsive di quantità e qualità di cibo notevoli con una sensazione, durante l’episodio, di perdita di controllo. Nella bulimia il tentativo di controllare il peso viene spesso messo in campo attraverso il vomito autoindotto o con l’abuso di farmaci lassativi e/o diuretici. L’aspetto in comune è il desiderio di assoluto controllo sul corpo.

L’anoressia riguarda prevalentemente giovani donne nella fase adolescenziale benchè sempre più spesso abbiamo esperienza del permanere di questa sintomatologia anche in età adulta magari in forme meno gravi di fobia alimentare e come esito di anoressie conclamate in adolescenza. Inoltre, negli ultimi anni, è aumentato il numero di adolescent maschi coinvolti seppure in percentuale minore rispetto alle ragazze. (10 a1). Per questi ultimi parliamo però di anoressia inversa o vigoressia, solo in parte sovrapponibile ai disturbi alimentari femminili  ed espressione di problematiche legate all’identità di genere.

I primi a parlare di anoressia furono alla fine dell’ 800 Lasegue e Gull che la descrivono con termini molto simili a quelli con cui viene ancora identificata nel DSM .

Freud parla di rifiuto del cibo in collegamento con la melanconia (1895) e come espressione della rimozione dell’erotismo orale (1905).

In ambito Kleiniano si sottolineano le paure paranoiche di essere avvelenati o la paura di attaccare e mettere in pericolo gli  oggetti interni buoni.

Dalla seconda metà del secolo scorso la problematica anoressica ha subito un incremento notevole, diffondendosi prima tra le giovani donne della borghesia e poi allargandosi a tutte le fasce sociali tanto che si può parlare con Di Chiara di sindrome psicosociale (Di Chiara 1999) o con Devereux(1951) di disturbo etnico. Le forme in cui si presenta sono variegate e, se rappresentano senz’altro l’espressione più diffusa di sofferenza psichica del nostro tempo in ambito adolescenziale femminile, si pongono, per altro, in una zona di confine con la “normalità” del perseguimento di un ideale ascetico di bellezza che sembra essere il mito della  femminilità contemporanea.

Parlare di disturbo del comportamento alimentare significa in ogni caso mettere l’accento sul comportamento come canale privilegiato di comunicazione della sofferenza psichica senza entrare nel merito di eventuali quadri psicopatologici sottostanti.(Riva 2009).

Infatti sul fatto che esista una corrispondenza tra un quadro psicopatologico specifico e l’anoressia ci sono opinioni controverse.

Su questo  punto Anna Nicolò (2010)  evidenza come si debba distinguere tra situazioni in cui l’anoressia è sindrome da quelle in cui è sintomo di strutture di personalità sottostanti celate da questo. In questo senso l’Autrice distingue I casi in cui l’anoressia sembra riallacciarsi a disturbi evolutivi adolescenziali più o meno incisivi e che opportunamente affrontati e decodificati hanno spesso una risoluzione abbastanza veloce,  da  situazioni, più gravi, in cui sembra strutturarsi invece una sorta di conversione isterica.  In questi casi più gravi si può definire con Bollas (2000) e Young-Bruehl Cummins(1993)  l’anoressia come la forma moderna di isteria. Ancora più impegnative, per Nicolò sembrano essere invece quelle situazioni in cui l’anoressia si presenta come una sindrome complessa vera e propria collegata con amenorrea, iperattività e con una intensità e perseveranza della sintomatologia che possono portare  ad un rischio di morte.

L’Autrice  evidenzia come questa possa essere invece un sintomo che rappresenta  una difesa da un breakdown evolutivo perché, attraverso l’insieme dei comportamenti  anoressici che permettono un controllo della realtà e del corpo, si ottiene l’effetto di tenere a bada il conflitto tanto nel mondo interno quanto in quello esterno, il che è particolarmente  importante soprattutto nella fase adolescenziale.

I vari autori sono comunque concordi nel non ritenere questa patologia come esclusivamente intrapsichica, ma come luogo di incontro di problematiche intrapsichiche, relazionali e sociali.

Sul piano intrapsichico il tema centrale che impegna l’anoressica e su cui il suo sviluppo sembra incagliarsi è quello della separazione –individuazione proprio nel momento in cui la spinta ormonale indirizza verso una definita costruzione dell’identità di genere.

In questo processo l’anoressica sembra essere in conflitto con il modello femminile e soprattutto con quello materno in uno sforzo di acquisire una separatezza dalla madre che evidentemente non è stata conquistata in una fase precedente e che fa fatica a delinearsi essendo in conflitto con un desiderio contemporaneo di fusione (Breen 1989). Il terreno del conflitto è appunto il corpo attaccato nelle sue forme femminili e nelle sue funzioni procreative quasi che possedere un corpo diverso sia l’unico modo per differenziarsi ed evitare l’equazione tra diventare adulta e diventare la madre (Hughes 1985). Avere un corpo diverso da quello della madre sembra realizzare questa istanza  L’attacco al corpo è concreto e testimonia la difficoltà delle pazienti alla mentalizzazione e la preferenza per l’agire piuttosto che per il pensare. Questa è una tendenza tipica dell’adolescenza e che racconta la fatica di questo momento evolutivo a rappresentare  i conflitti traducendoli in pensieri e raccontandoli con le parole. La tendenza è ad esprimerli con comportamenti e l’attacco al corpo sessuato ne è un esempio. Certamente anche se si inscrive in un problema  specifico della adolescenza, questa difficoltà a mentalizzare il corpo  si deve probabilmente  fare risalire ad ancora più precoci  difficoltà di rispecchiamento che la bambina ha incontrato nel rapporto con la propria madre probabilmente più pronta a proiettare contenuti personali che ad accogliere e rispecchiare gli stati d’animo della figlia.

In questo sforzo di distacco dal modello materno l’adolescente si rivolge cosi ad un modello paterno vissuto come più potente, più indipendente, più vincente.

L’obiettivo diventa far perdere o meglio non fare acquistare  le caratteristiche femminili che sarebbero fisiologiche nel processo di sviluppo per acquisire un corpo fallico che, quando non del tutto emaciato e quindi scheletrico, diventa corpo efebico ed asessuato.

Corpo infantile però, testimone del conflitto tra il desiderio di separazione dalla madre e di unione con lei in una infanzia senza fine. Il  rischio che si delinea e’ quello di portare al limite lo sforzo di indipendenza e di strutturare piuttosto un modello di funzionamento autarchico in cui ogni relazione di scambio è annullata e in cui ci si rifugia in una rigida corazza narcisistica di negazione totale dei propri bisogni. Quello che viene così’ a strutturarsi è un modello in cui sono prevalenti su vari livelli di funzionamento le difficoltà ad introiettare e a simbolizzare.

La Breen in particolare sottolinea come le difficoltà di simbolizzazione siano da collegare ad una assenza di spazio transizionale connessa alla impossibilita’ ad accedere ad una posizione triadica che costringe la anoressica dentro ad un conflitto tra il desiderio di essere confusa con la madre e la spinta a separarsene.

Queste considerazioni  rimandano a modelli teorici che individuano  situazioni di deficit nelle relazioni precoci, nodi che vengono al pettine in adolescenza.

Posizione diversa ha invece Jeammet che fa riferimento a problematiche dell’Io e che definisce l’anoressia un disturbo da dipendenza il cui nucleo è rappresentato sostituzione della dipendenza dall’oggetto con una dipendenza da ciò che ha sostituito l’oggetto e cioè il corpo e il cibo con tutte le pratiche che intorno a questo ruotano.

Il nucleo del problema è il conflitto tra l’estremo bisogno di vicinanza, di fusione,  e la paura di essere intrusi e occupati dall’altro che caratterizza ognuno di noi ma che certo è esasperato al massimo in adolescenza  diventando esplosivo.

La coppia anoressia / bulimia rappresenta così una concretizzazione di questo paradosso in cui : “ciò di cui ho bisogno mi minaccia”( Nicolò 2010). Per questo Jeammet pensa che l’anoressia e più in generale i DCA rappresentano solo una variante delle condotte di dipendenza che celano un grande bisogno di riconoscimento legato ad una grande insicurezza interna. Ed è  in ragione di questa insicurezza che gli inevitabili incidenti che si possono incontrare in adolescenza rischiano di innescare la paura di essere sopraffatti e/o di perdere il controllo. Cio’ si traduce in una chiusura che diventa concreta e impedisce il nutrirsi per il timore di essere invasi dal troppo bisogno dell’altro, di cibo.

Certo anche Jeammet sottolinea come in questo si possa essere aiutati o meno dall’ambiente circostante.

Passando dunque dalla dimensione intrapsichica a quella più prettamente relazionale vediamo come, in effetti, la  famiglia della anoressica  sia  stata  oggetto di studio da parte di tutti coloro che si sono occupati di anoressia e come  esista  un generale accordo sul fatto che si tratta di una famiglia a vari livelli disfunzionale.

Già Kestemberge e  Decobert  nel 1972 parlavano di un legame madre-figlia cosi stretto che era molto difficile per la figlia disincagliarsi e procedere verso la costruzione di una identità autonoma senza rimanere incagliata in modelli imitativi materni.

La difficoltà principale sembra quella ad accedere ad una dimensione triadica. La famiglia sembra strutturarsi in un asse di due uniti spesso contro o almeno ad escludere un terzo.

Più spesso il terzo escluso è il padre e quello che vediamo è una alleanza simbiotica tra madre e figlia che riproduce talvolta quella che ha legato in precedenza la mamma alla nonna materna. Questo contribuisce alla costituzione di una immagine interna di madre fagocitante da cui bisogna difendersi perché non c’è un padre capace di costituire una barriera difensiva. Il padre infatti spesso si autoelimina anche dalla relazione coniugale lasciando madre e figlia unite in un abbraccio mortifero e rinunciando alla sua funzione di agente separante.

C’è dunque alla base una disfunzionalità della coppia che non riesce a proporsi come sufficientemente coesa ed in grado di definire con chiarezza gli spazi e le differenze generazionali.

Questo tipo di funzionamento fondato sulla alleanza di madre e figlia con un padre escluso sembra funzionale sicuramente ad evitare i conflitti, altra caratteristica centrale di queste famiglie, per lo meno fino a quando non si affacciano le prime istanze di separazione  adolescenziali. Sotto la spinta della necessità di definirsi e di confrontarsi con la dimensione di una nascente sessualità l’equilibrio precedente si rompe e spesso l’anoressia sembra l’unico modo per impedire un processo di crescita altrimenti ineludibile e tuttavia terrorizzante.

A volte il padre tenta di rientrare in gioco a questo punto, ma spesso riproponendo un legame a due in cui la madre appare svalutata e screditata, nella speranza di avere dalla figlia quel supporto narcisistico che la moglie non gli ha fornito. Ancora una volta la dimensione triadica viene bypassata e non si delinea una funzione ordinatrice paterna. Sono perciò tentativi di ridefinire il quadro destinati al fallimento e che comportano spesso un nuovo  ritiro del padre dalla dinamica familiare.

Infine per quanto riguarda l’intervento terapeutico c’è ormai un certo accordo  sulla necessità di un approccio multidisciplinare. Il coordinamento tra gli operatori che si occupano del corpo e quelli che lavorano a livello della psiche è fondamentale anche per non supportare una scissione tra corpo e mente che caratterizza questi pazienti.

Altrettanto importante è che l’intervento coinvolga anche il contesto relazionale familiare all’interno del quale il disturbo si è manifestato. Molta esperienza sul piano dell’intervento familiare è stata elaborata dalla scuola sistemica che fin dagli anni 60 lavora a livello del gruppo famiglia (Selvini 1963). Tuttavia anche in ambito psicoanalitico interventi sul gruppo famiglia sono in questi casi abbastanza diffusi (Nicolò 2010, Riva 2009).

Spesso si ricorre ad interventi integrati di affiancamento a terapie familiari con terapie individuali. E’ un fatto che stringere una alleanza terapeutica con una paziente anoressica non è cosa facile dal momento che le pazienti non vedono l’anoressia come un problema e quindi spesso oppongono un netto rifiuto ad ogni intervento di cura. Nelle  situazioni piu gravi c’è inoltre una persecutorietà che fa si che ogni intervento sia vissuto come una introduzione di elementi pericolosi da cui bisogna difendersi. D’altra parte si tratta di adolescenti e, se è vero che spesso c’è un rifiuto ad essere “curati” da parte dei ragazzi, è altrettanto vero che spesso c’è una maggiore apertura ad essere aiutati nell’indagare quali sono le difficoltà ad affrontare i compiti evolutivi di cui anche il sintomo anoressia e i disturbi alimentari in genere possono essere testimonianza. Si tratta allora di individuare  un setting stabile ma flessibile che tenga conto della ambivalenza e dell’oscillazione tra il desiderio e la paura  di dipendere. E’ fondamentale così conformarsi al regime dietetico (psicoterapeutico) che sembra possibile in relazione alla paura di essere invase ed intruse e contemporaneamente al bisogno di avere vicinanza.

In questo contesto flessibile sembra  possibile arrivare ad investigare sia le paure più profonde che rendono indispensabile la chiusura ad ogni introiezione, sia operare attraverso il rapporto terapeutico quel processo di rinarcisizzazione di cui parla Jeammet (2004) che può consentire di riavviare il processo di crescita bloccato.

Bibliografia 

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Selvini Palazzoli M. (1963)L’anoressia mentale. Cortina Milano.2006

Vedi anche: 

Interruzione dello sviluppo in adolescenza di M. Eglé Laufer

 

Ansia/Angoscia
Ansia/Angoscia

L'urlo, Edvard Munch

A cura di Gabriella Giustino

Definizione

L’ansia è una condizione psichica, prevalentemente consapevole, caratterizzata da sensazioni di paura. Queste possono derivare da stimoli soggettivi od oggettivi. L’ansia è spesso associata a sintomi corporei ( palpitazioni, senso di oppressione al petto, affanno, tremori).

In ambito psicoanalitico più che di ansia si parla di angoscia.

L’angoscia si distingue dalla paura (ansia) per il fatto di essere meno specifica o legata ad un oggetto che la genera. Può derivare da un conflitto interiore e non è una paura immediatamente individuabile. E’ un terrore senza nome che deriva dall’immaginazione catastrofica dell’individuo.  Il tema dell’angoscia in psicoanalisi è molto complesso ma l’evoluzione teorica di questo concetto ha dato un grande contributo alla comprensione clinica di alcune situazioni psicopatologiche. Mi soffermo in particolare sull’approccio a quelle condizioni cliniche in cui determinati stati d’angoscia esprimono sottostanti problematiche strutturali e funzionali del Sé.

Si tratta di situazioni in cui l’ambiente sembra essere stato inadeguato a fornire le condizioni necessarie allo sviluppo di un senso identità stabile e allo sviluppo della capacità di contenimento e di elaborazione dell’angoscia.

Storia del concetto

Il tentativo di Freud, non privo d’indeterminatezza, nel definire l’angoscia, un concetto molto complesso, sembra oscillare dalla concezione economico – biologica della pulsione e della scarica (l’angoscia come “libido convertita”), a quella simbolica dell’angoscia-segnale basata sulla visione strutturale e genetica dell’apparato psichico.

Nel primo periodo ( 1915-1917) prevale il punto di vista economico: l’angoscia é definita come un eccesso di libido che si accumula e non può essere trasformata mediante il legame con la rappresentazione; un’eccitazione eccessiva che deriva da tensioni somatiche mancanti di rappresentazione e di legame e che comporta una reazione di “scarica” attraverso canali neuro vegetativi.

Successivamente Freud introduce i concetti di rimozione e di sintomo psiconevrotico: la rimozione trasforma in angoscia l’affetto legato alla rappresentazione rimossa.

Con l’introduzione della teoria strutturale diviene possibile concepire l’esistenza di un’istanza che può rispondere con l’ansia a situazioni di pericolo sia interne che esterne.

In “Inibizione sintomo e angoscia” (1925) Freud effettua, infatti, una revisione del concetto di angoscia ed indica come ancora valido in senso fenomenologico il concetto di “libido convertita” ma aggiunge una rappresentazione metapsicologica del termine. In questo lavoro emerge la distinzione tra angoscia come “segnale di pericolo” e angoscia come “reazione al pericolo” e l’Io viene definito come l’istanza psichica che percepisce l’angoscia in quanto simbolo “mnestico” o “affettivo” di una situazione di pericolo.

Appena conosciuto il pericolo l’Io dà il segnale d’angoscia e inibisce il minaccioso investimento dell’Es in modo da evitare di essere sopraffatto dall’afflusso di eccitazioni e permettendo di far scattare così le operazioni di difesa.

L’angoscia nevrotica é una reazione ad un pericolo pulsionale interno, l’angoscia “reale” ad un pericolo esterno.

In questo lavoro Freud rivolge la sua attenzione anche ai contenuti psicologici dell’angoscia: affrontando il rapporto tra angoscia e trauma della nascita l’autore scrive: “…Sia come fenomeno automatico, sia quale segnale di salvataggio, l’angoscia appare il prodotto dello stato di impotenza psichica del poppante…”; l’angoscia viene quindi considerata come una risposta spontanea dell’organismo a una situazione traumatica (o a una sua riproduzione). Affermando che le situazioni infantili di pericolo e angoscia mutano nei diversi stadi della vita, e criticando la tesi di Rank secondo la quale il trauma della nascita costituisce l’angoscia unica e ubiquitaria, Freud sottolinea come il trauma della nascita venga invece man mano sostituito dal trauma della perdita dell’oggetto, dalla paura di perderne l’amore, dall’angoscia di castrazione e dalla paura della perdita di amore del Super-Io.

Per Freud l’angoscia di castrazione é comunque centrale e sembra rappresentare il prototipo di tutte le angosce, risignificando, nella situazione edipica, lo stato affettivo originario dell’impotenza e della paura della perdita (separazione).

Anche l’angoscia di morte é, in un certo senso, equiparata all’angoscia di castrazione: nell’inconscio freudiano, la pulsione di morte é silente e non ha collegamenti con l’angoscia di morte. L’inconscio, per Freud, é soprattutto il luogo dei desideri e degli appagamenti libidici e non prevede una rappresentabilità della morte.

Nella teorizzazione kleiniana il problema dell’angoscia appare centrale.  Le ipotesi teoriche di Melanie Klein sullo sviluppo mentale si basano sul concetto di “posizione” schizoparanoide e depressiva e su una visione del funzionamento mentale fondata sulle corrispondenti angosce e relazioni oggettuali.

L’autrice nei suoi primi lavori (1928) teorizza che vi sono nell’infante fantasie sadiche e aggressive contro il corpo materno con l’angoscia che deriva dall’attesa di una successiva rappresaglia. Successivamente, introducendo la nozione di posizione depressiva, individua come angoscia fondamentale dell’individuo quella della perdita dell’oggetto interno amato (1935) e infine si concentra (1946) sull’angoscia di annichilimento dell’Io.

Concettualizzando l’angoscia in relazione al dolore mentale ed ai fenomeni legati alla teorizzazione delle “posizioni”, l’autrice distingue l’angoscia persecutoria dall’angoscia depressiva.   Il significato dell’angoscia per il soggetto può essere legato prevalentemente a vissuti di minaccia per l’Io (angoscia persecutoria o paranoide) o a vissuti di perdita e minaccia per l’oggetto d’amore ( angosce depressive); queste ultime  sono,  in un certo senso, comparabili  all’angoscia di separazione di Freud, ma la Klein va oltre introducendo i sentimenti di colpa per gli impulsi distruttivi diretti all’oggetto e il desiderio di riparazione che ne deriva.

Per l’autrice le vicissitudini dell’Io e dell’oggetto esistono e si intrecciano sin dall’inizio della vita mentale: il presupposto di base é l’esistenza di un Io precoce capace di difendersi e di percepire l’angoscia (1932). Si potrebbe in questo senso dire che, nella teorizzazione kleiniana, l’angoscia si definisce sin dal principio come “segnale” in quanto ha sempre ( dall’inizio della vita) un significato psicologico per il soggetto. Peraltro, la tesi generale dell’autrice é che l’angoscia, purché non sia eccessiva, agisce da stimolo allo sviluppo.

Nel 1946 la Klein accoglie l’ipotesi della centralità della paura di annichilimento nelle primissime esperienze della vita: queste angosce rappresentano il modo in cui viene sperimentato l’istinto di morte che opera all’interno della personalità.

A questo proposito l’autrice scrive: “…se assumiamo l’esistenza dell’istinto di morte dobbiamo anche assumere che negli strati più profondi della mente c’é una risposta a questo istinto in termini di paura di essere annientati […] questo a mio avviso é la prima causa di angoscia” (1946).  Il primo generatore dell’angoscia deriva dalla percezione da parte dell’Io della minaccia di annichilimento operata dall’istinto di morte. Per l’autrice, l’angoscia dell’infante origina proprio dalla paura di morire e, nell’inconscio, la rappresentazione della morte corrisponde a quella degli oggetti cattivi e persecutori. La proiezione all’esterno aiuta inizialmente l’Io a superare l’angoscia liberandolo da ciò che é pericoloso e minaccioso.

Anche Winnicott sposta l’attenzione della sua ricerca dall’angoscia di castrazione ad angosce più precoci e primitive, ma la sua teorizzazione pone l’accento sul ruolo cruciale della risposta dell’ambiente e si declina all’interno di un modello evolutivo che riguarda la strutturazione del Sé e lo sviluppo dell’identità.

Winnicott pensa che l’ambiente può esercitare un’influenza tale da distruggere la “continuità dell’essere del bambino”.

Se la madre non conferma l’ipotesi del bambino di essere in grado di soddisfare anche da sé i propri bisogni, cioè non sostiene e facilita il senso di “onnipotenza” infantile, allora l’infante soffre dell’esperienza della “pressione ambientale” e sperimenta la sensazione di annichilimento. Questo causa gravi interferenze nello sviluppo della personalità con la costituzione difensiva di un falso Sé (teorizzazione che qui tralascio).

Complessivamente, comunque, le osservazioni cliniche di Winnicott sullo sviluppo affettivo infantile condurranno all’interesse verso i processi che promuovono oppure interferiscono con l’integrazione del Sé. L’individuo, per potersi costituire come persona intera, parte dal suo Sé originario che necessita di sviluppo: l’immaginazione del soggetto é il “luogo” di questo sviluppo potenziale che dipenderà da una felice relazione dinamica tra la funzione creativa dell’individuo e quella ambientale.

Le vicissitudini pulsionali si intrecciano quindi con le vicende legate alle relazioni oggettuali: l’individuo cresce e sviluppa il suo Sé attraverso esperienze relazionali e, per poter costruire un proprio senso di identità personale, necessita di una “matrice relazionale” adeguata a dargli un senso di significatività e valore.

A questo proposito l’autore scrive: “[…] Il Sé si trova naturalmente posto nel corpo ma, in certe circostanze, può dissociarsi dal corpo nello sguardo e nell’espressione della madre e nello specchio che può giungere a rappresentare il viso della madre… Infine il Sé arriva a un rapporto significativo tra il bambino e la somma di identificazioni che (dopo una sufficiente incorporazione ed introiezione di rappresentazioni mentali) si organizzano nella forma di una viva realtà psichica interna” (1971). La relazione tra la madre e il bambino diventa fondante per lo sviluppo dell’identità e del senso di sé vitale: attraverso il rapporto reciprocamente creativo con la madre, il bambino ri-conosce le sue doti innate e sperimenta il suo senso di esistere come persona.

La naturale funzione materna di cure empatiche fornisce un ambiente “che sostiene” (holding) e attraverso cui il figlio si sente contenuto e può sperimentare il proprio senso di esistere come individuo. Il processo evolutivo si compie attraverso la progressione da stati di non integrazione ad esperienze di sempre maggiore senso di “unità” ed integrità della continuità dell’essere, dove I confini del corpo e della psiche divengono sempre più definiti.

La patologia del Sé si configura allora, in questa teorizzazione, come un’interferenza nel senso di continuità dell’esistenza dovuta a fallimenti nella responsività materna, con il conseguente sviluppo di angosce specifiche.  Winnicott definirà queste angosce come “andare in pezzi”, “cadere per sempre”, non avere rapporto con il proprio corpo, non avere orientamento, essere annientato, e descriverà gli insuccessi della madre-ambiente (in termini di holding, handling e object-presenting) e i tentativi del Sé nell’organizzare difese specifiche.

Il disturbo psicosomatico diventa allora un sintomo che segnala un’angoscia a livello del Sé corporeo (disturbo dell’indwelling, patologia del Sé somato-mentale); l’angoscia di “crollare” viene invece messa in connessione con fenomeni terrificanti di disintegrazione del Sé (depersonalizzazione da fallimento dell’holding), dissociazione dell’unità psico-somatica (fallimento dell’handling), cattiva relazione con gli oggetti (fallimento dell’object presenting).

L’angoscia di morte si configura quindi in Winnicott come terrore di annientamento, di perdita irreparabile del Sé potenziale, angoscia di non esistenza.

Vi sono alcune analogie tra il concetto di “holding” di Winnicott e il concetto di “madre contenitore” di Bion. Questo autore sviluppa, infatti, l’idea che l’identificazione proiettiva del bambino possa ricevere un primo grado di significato dalla madre tramite la capacità di quest’ultima di rendere “pensabili” e “nominabili” le angosce senza nome del bambino. Nel 1967 scrive: “… Se vuole capire quello di cui ha bisogno il bambino la madre non può limitarsi a considerare il suo pianto semplicemente con la presenza di lei…la madre dovrebbe prenderlo in grembo e accogliere la paura che ha dentro di Sé, la paura di morire, perché é questa che il bambino non é in grado di tenersi dentro…una madre comprensiva é in grado di sperimentare questa angoscia che il figlio tenta di introdurre in lei attraverso l’identificazione proiettiva e di mantenere un sufficiente equilibrio…”.

Bion e Winnicott, seppure attraverso differenti intuizioni e riferendosi a modelli teorici diversi, sembrano concordare su un punto fondamentale: le madri che non possono accogliere, comprendere e rendere tollerabili (restituendole trasformate) le angosce primitive dei propri figli, fanno mancare loro una struttura psichica di base di cui hanno bisogno per costituire un senso di sé vitale. La cura analitica si configura allora come un’opportunità di contenimento e trasformazione di intollerabili angosce di morte ed annientamento del Sé ( che possono diventare pensabili) e può fornire un ambiente adeguato, uno spazio potenziale dove è possibile il cambiamento.

BIBLIOGRAFIA

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Winnicott, D.W. (1971) Lettera a Mme Jeannine Kalmanovitch. Nouvelle Revue de Psychanalyse, 3.

Attaccamento/Teoria

A cura di Maria Rosa De Zordo

Che rapporto c’è tra psicoanalisi infantile e teoria dell’attaccamento? Perché occuparsi di questa teoria?

La psicoanalisi si è da sempre interessata allo sviluppo umano dalla nascita all’età adulta, la psicoanalisi infantile in particolare si è occupata dei primi anni di vita. La teoria dell’attaccamento va intesa come la primaria relazione affettiva tra infante e genitore, che si sviluppa nel primo anno di vita, risposta del genitore all’assoluta dipendenza dell’infante e ricerca precoce di relazioni del neonato. Influisce sullo sviluppo della personalità come stima di sé, atteggiamento verso la realtà esterna, aspettative nelle relazioni. Comprensibilmente quindi interessa una parte considerevole di analisti che si occupano di età evolutiva, prima infanzia, ma anche dell’età adulta, e cercheremo di capire perché. Al tempo stesso tuttavia è una teoria che incontra alcune critiche, poiché sembra orientata piuttosto al cognitivismo e non tenere nel debito conto alcuni concetti fondamentali della psicoanalisi classica: inconscio, pulsioni… Ma la critica non regge: che i processi mentali siano per la maggior parte inconsci è assodato anche dalle neuroscienze (anche se il termine “inconscio” è usato con accezioni diverse da discipline diverse dalla psicoanalisi); quanto alle pulsioni, la teoria dell’attaccamento non contraddice a mio avviso tale assunto. Comunque il dibattito è aperto, così come la discussione tra orientamenti ed evoluzioni diverse della psicoanalisi sollecitati dall’esperienza clinica e dal confronto con discipline dei territori di confine.

Il pregio forse maggiore di questa teoria (e il motivo per cui vale la pena di accennarvi) è l’affinità e l’intreccio con la ricerca nell’area dell’infanzia, cioè con quegli studi che si occupano di conoscere lo sviluppo infantile attraverso l’osservazione diretta accurata delle interazioni precoci tra l’infante e chi se ne prende cura.

L’infant research ipotizza la presenza nel neonato di una tendenza sociale innata a interagire e a comunicare con l’altro, usualmente la madre, i genitori biologici (talvolta, per vari motivi, altre figure, da cui la preferenza per il termine inglese caregiver: chi offre la cura, chi si prende cura). Questa tendenza innata, presente attraverso l’orientamento preferenziale che il lattante manifesta verso la madre (il caregiver) a livello di attenzione olfattiva, uditiva e visiva, diventa più marcata dopo poche settimane, con movimenti di orientamento verso la madre e con scambi vocali e mimici, dialogo che diventa più coerente quando il neonato incontra una madre responsiva, cioè che risponde essa stessa con un orientamento nei confronti del lattante, guardandolo intensamente, toccandogli il capo e le mani, utilizzando un particolare tono di voce, incoraggiando in questo modo l’infante ad aprirsi e a ricercare il contatto: potremmo dire che questo incontro felice favorisce nel bambino l’innamoramento per la vita. Una recente ricerca (Nadia Bruschweiler Stern, 2013) approfondisce i momenti precoci di incontro tra madre e neonato in cui entrambi appaiono felicemente in grado di sintonizzarsi, la madre confortandosi di poter essere un buon genitore (sufficientemente buon genitore), sentendo che può proteggere e amare il nuovo nato e dando un senso ai segnali comunicativi del piccolo attraverso la sua interiorità. Quando questo sembra difficile da realizzarsi, i momenti di incontro della madre (di cui son frequenti e comprensibili incertezze e timori) con il neonato richiederebbero un sostegno alla diade per favorire lo sviluppo dell’attaccamento. A questo riguardo è comunque importante sottolineare che le difficoltà di interazione, il mancato coordinamento tra infante e caregiver hanno molteplici cause, che si possono genericamente ascrivere non solo all’ambiente, ma anche alle particolarità costituzionali dell’infante.

La teoria dell’attaccamento si è sviluppata in tre fasi principali.

Nella prima fase il londinese John Bowlby (1907-1990), psichiatra e psicoanalista, richiamò l’attenzione sul sistema comportamentale di attaccamento, come garante dell’incolumità e della sopravvivenza del bambino nel suo ambiente. Da questo punto di vista l’attaccamento è un sistema altrettanto importante di quello che regola l’assunzione del cibo. Esso orienta il bambino verso la/le figura/figure di protezione, le figure appunto di attaccamento, e ricerca queste figure come rifugio sicuro in caso di pericolo.

La psicoanalisi classica parla di pulsione (che è un concetto psicologico distinto dall’istinto, che è un concetto biologico), che ha la sua fonte in un organo del soggetto e cerca il soddisfacimento in una meta oggettuale. Da questo punto di vista l’attaccamento sembra piuttosto riduttivo, solo processo istintuale, comune agli altri mammiferi, che non tiene nel debito conto la specificità somato psichica della pulsione. Ma è anche vero che i teorici dell’attaccamento non ignorano tutta la complessità emotiva della relazione e la sua importanza per lo sviluppo psichico: la base sicura per affrontare la vita, come abbiamo accennato sopra.

I primi legami di attaccamento in genere si formano nei primi mesi e si costruiscono con poche persone; la selezione delle figure di attaccamento avviene attraverso le interazioni sociali: il bambino tenderà a piangere quando tali figure si allontanano e mostrerà piacere quando ricompaiono. E’ così forte il bisogno di attaccamento per la sopravvivenza che i bambini sviluppano un legame di attaccamento anche verso genitori insensibili o maltrattanti. E’ comunque importante sottolineare che le difficoltà di interazione, il mancato coordinamento tra infante e caregiver hanno molteplici cause, che si possono genericamente ascrivere non solo all’ambiente, ma anche alle particolarità costituzionali dell’infante.

La tendenza a controllare la disponibilità delle figure di attaccamento e a cercarle nei momenti difficili permane, secondo Bowlby, per tutta la vita (negli adulti di solito è un amico o il partner).

Tuttavia è utile tenere presente che la formazione dei primi legami di attaccamento è un campo di indagine aperto, così come i processi che portano gli individui a cambiare le proprie figure di attaccamento.

La seconda fase si può far coincidere con gli studi della psicologa clinica canadese Mary Ainsworth (1913-1999). Essa individuò nei bambini di dodici mesi tre modelli organizzati di risposta a due brevi separazioni da un genitore e successivamente in sua presenza in una situazione sperimentale (Strange Situation). Parallelamente fu condotta a Baltimora una ricerca osservativa longitudinale della durata di un anno nell’ambiente familiare.

I bambini che mostravano segni di disagio durante l’assenza della madre, che la salutavano attivamente e tornavano a giocare al suo rientro, erano considerati capaci di utilizzare la madre come “base sicura” nell’esplorazione dell’ambiente di casa, raramente irritati o ansiosi dopo brevi separazioni. Questo modello di risposta sicura compariva nella maggioranza dei casi ed era associato ad un comportamento amorevole e attento da parte della madre (attaccamento sicuro). Pochi bambini apparivano preoccupati durante tutta la procedura, arrabbiati o passivi, non riprendevano a giocare al ritorno della madre; apparivano ansiosi nel loro ambiente familiare, non perché le madri fossero rifiutanti, ma incapaci di contenimento, di coordinare le loro risposte nelle interazioni con il bambino (attaccamento insicuro-resistente, insicuro-ansioso).
L’attaccamento insicuro-evitante sarebbe caratteristico dei bambini che non piangevano durante le separazioni, ignoravano o evitavano attivamente la madre al suo ritorno. In casa questi bambini tendevano a manifestare una certa rabbia verso la madre per i suoi spostamenti, ma tali comportamenti non apparivano nella Strange Situation. Le madri di questi bambini sembravano restie al comportamento di attaccamento del bambino e mostravano una certa avversione al contatto fisico. Bowlby aveva osservato lo stesso comportamento evitante dopo una lunga separazione.

Queste ricerche e scoperte della Ainsworth furono seguite da numerosi altri studi e sono tuttora ricerca di indagine. Ci si è chiesti quale sia il contributo dei genitori allo stile di attaccamento, quale l’impatto dello stile di attaccamento nello sviluppo emotivo. Come osservato in nota, vivace è il dibattito sul ruolo ricoperto dal temperamento del bambino.

Ci limitiamo a segnalare che lo stile di attaccamento disorganizzato-disorientato (conseguente a situazioni ambientali e diadiche particolarmente catastrofiche) sembra quello a più alto rischio di futuro disturbo mentale.

La terza fase che si può far iniziare con Mary Main (che insegna presso il Department of Psychology dell’Università di Berkeley in California) è la prevalente fase attuale degli studi. I ricercatori hanno osservato relazioni sistematiche tra l’organizzazione dei primi legami di attaccamento e le capacità rappresentazionali in età scolare, in adolescenza, nell’età adulta. Se si intervistano gli adulti sulle esperienze, sulle relazioni di attaccamento vissute nell’infanzia, le separazioni, la perdita delle figure di attaccamento e gli effetti di queste esperienze sulla loro crescita e persona, si ottengono delle risultanze molto significative che descrivono lo stato mentale dell’adulto (ma le ricerche si sono rivolte anche agli adolescenti) relativamente ai legami di attaccamento.
E’ stata elaborata dalla Main e dai suoi collaboratori un’intervista clinica semistrutturata (Adult Attachment Interview), che individua quattro categorie relative alle rappresentazioni interne degli originari legami di attaccamento e il conseguente stato mentale: sicuro-autonomo, distanziante, preoccupato, disorganizzato a seguito di traumi e lutti irrisolti.
Ci sarebbe una certa relazione tra la risposta dell’adulto caregiver a questa intervista e il legame di attaccamento dell’infante.
La sintesi presentata della teoria dell’attaccamento è ovviamente una presentazione breve, che rischia di apparire generica. Vuole solo evidenziare un’importante area di ricerca e congruenza tra la psicoanalisi clinica e la ricerca nell’area infantile. Le domande aperte sono certamente maggiori delle risposte che si possono dare, ma continuano gli studi e i contributi sul tema.

Bibliografia

Cristina Ria Crugnola (2007). Il bambino e le sue relazioni. Raffaello Cortina Editore, Milano.
Nadia Bruschweiler Stern (2013). Il momento di incontro del neonato,costruzione del dialogo e rafforzamento del legame. infanzia e adolescenza, 3, 161,173.
Widlöcher et al. ( 2000). Sessualità Infantile e Attaccamento. Franco Angeli, Milano, 2002

Attacco di panico
Rissa in galleria_ Umberto Boccioni

Rissa in galleria_ Umberto Boccioni

A cura di Franco De Masi

L’attacco di panico è caratterizzato dall’insorgere improvviso di episodi di angoscia intensa che sopravvengono senza alcuna prevedibilità e senza la possibilità di essere bloccati. Si accompagna a forti manifestazioni neurovegetative, quali palpitazioni, tachicardia, vertigine, tremori corporei, diarrea o sudorazione eccessiva e soprattutto sensazione di soffocamento.

L’opinione che avanzo é che la crisi di panico abbia un’origine squisitamente psichica capace di scatenare una risposta neurobiologica specifica e automatica.

E’ possibile, infatti, isolare due momenti progressivi dell’attacco: il primo, in cui l’angoscia è ancora avvertita psichicamente, e il secondo, in cui la partecipazione corporea è prevalente e il terrore diventa angoscia somatica incontrollata.

La sequenza

Nell’attacco di panico è il corpo a parlare della propria morte o, meglio, della propria agonia. Nelle persone che soffrono di attacchi di panico i circuiti neurovegetativi, che connettono la coscienza ai segnali del pericolo, sembrano talmente esaltati da diventare indipendenti da ogni controllo razionale. Il paziente ad un certo livello “sa” che non morirà, ma, nello stesso tempo, perde la capacità di arginare la paura e “crede” di morire.

Una volta comparso, l’attacco di panico tende inesorabilmente a ripetersi.

Chi lo ha subito, lungi dall’essere rassicurato dal fatto di essere sopravvissuto o dal convincersi dall’inconsistenza dei suoi terrori, sembra sempre più incline a farsene catturare. Un elemento molto importante nella preparazione e nello scatenamento dell’attacco è il ruolo giocato dall’immaginazione.

Una delle ragioni del suo ripetersi e aggravarsi è il condizionamento che si stabilisce nella mente tra stimolo, immaginazione e risposta emotiva. La risposta emotiva e neuro-vegetativa è un prodotto dell’immaginazione che concretizza la percezione e la realtà del pericolo di morte. Lo scampato pericolo rafforza paradossalmente il successivo allarme.

Un contributo neuroscientifico

Il neuroscienziato Joseph LeDoux (1990) ha identificato i percorsi inconsapevoli della paura e ne ha proposto una suddivisione in più semplici e più sofisticati. I primi sono più veloci e meno discriminanti, i secondi più precisi ma più lenti.

E’ possibile identificare tre percorsi o meglio tre livelli del percorso della paura:

1) Il circuito primitivo della paura governa il repertorio di emergenza che consente di mettere in atto reazioni immediate quali la lotta e la fuga.   Scatena le reazioni ormonali e neurovegetative connesse alla difesa. E’ la risposta attacco-fuga.

La caratteristica del circuito principale della paura sta non tanto nella precisione della risposta quanto nella rapidità e nella globalità della sua azione.

Solo successivamente, sulla base delle informazioni che provengono dalla corteccia cerebrale, il circuito primitivo della paura può riesaminare le decisioni iniziali e adeguare le reazioni alla situazione di pericolo.

2) Il circuito razionale della paura è quello che va dalla corteccia prefrontale al sistema limbico. Questo sistema è più lento ed elaborato, ma permette di valutare con maggiore attenzione e realismo la situazione generale, prendere decisioni e valutare la risposta.

3) Un ultimo circuito è quello riflessivo che è caratterizzato dalla autoconsapevolezza, dalla coscienza di provare paura e dalle ragioni di questa.

Prendiamo come esempio un uomo che cammina di notte in un bosco. Un rumore qualsiasi può suscitare in lui una reazione di allarme, con lo scatenamento dei segnali neurovegetativi legati alla paura. Solo in un secondo tempo gli è possibile capire che l’allarme era ingiustificato, era un innocuo stormire di fronde. In questo caso il segnale di allarme è stato attivato attraverso la via più breve, quella che fa capo all’amigdala.

Il circuito primitivo della paura, che si sottrae al controllo della coscienza, comporta l’inconveniente che il riconoscimento del pericolo può essere falso; in questo caso la discriminazione avviene solo a posteriori cioè dopo che è stato scatenato il corteo neurovegetativo della paura.

Può esserci dunque un falso allarme che viene riconosciuto come tale solo dopo che lo stimolo è stato scrutinato dalla coscienza. E’ interessante che il primo riconoscimento dell’oggetto capace di produrre angoscia avviene in primo luogo per vie completamente inconsapevoli e che sfuggono al controllo razionale.

Da quanto finora prospettato risulta suggestivo immaginare che l’angoscia dell’attacco di panico risulta imprigionata nel circuito primitivo della paura, il che spiegherebbe l’immediatezza e la non discriminazione tra pericolo reale o immaginato.

Pericolo immaginato che equivale a quello reale per chi subisce l’attacco di panico anche se, agli occhi di un osservatore esterno, il pericolo non esiste.

Il punto di vista psicoanalitico

L’attacco di panico in analisi viene considerato un sintomo di una complessa ma aspecifica sofferenza del sé, espressione del venir meno di alcuni parametri necessari al suo funzionamento.

L’angosciosa sensazione di non comprendersi porta all’accumulo dell’ansia che, nel corso della crisi, si travasa nel corpo e si esprime in un linguaggio viscerale, sottraendosi sempre di più alla possibilità di essere raffigurata psichicamente.

Gli psicoanalisti sanno tuttavia che le fobie e gli attacchi di panico sono solo un sintomo di una situazione molto più complessa: sono l’espressione di un difetto di costituzione della personalità.

Alcune volte gli attacchi di panico compaiono nel corso di crisi di identità, nei momenti di trasformazione (entrata nell’età adulta, crisi della mezza età) o come reazioni psicosomatiche alla separazione, ma indicano sempre una mancata strutturazione del sé.

Nei casi più semplici l’attacco di panico segue alla caduta di assetti narcisistici. Per questo motivo sono particolarmente frequenti nelle crisi di mezza età (dove il mito della propria efficienza, bellezza o successo non è in grado di sostenere l’angoscia per il limite della propria esistenza) o nelle reazioni all’abbandono dove la separazione dal partner viene sentita come un crollo del sè e delle proprie sicurezze.

Conclusioni

Il mio punto di vista è che i sintomi somatici, che riconoscono un’origine neurobiologica, non sono direttamente legati a un particolare conflitto inconscio, ma piuttosto a una costellazione psicologica ed emotiva di base in cui la funzione di contenimento dell’angoscia è andata perduta.

Penso, infatti, che l’attacco di panico sia l’espressione del fallimento di quelle funzioni inconsce che modulano e monitorizzano lo stato emotivo.

Nelle condizioni di stress non è possibile utilizzare quell’insieme di operazioni inconsapevoli necessarie a trasformare i contenuti emotivi per renderli idonei al funzionamento della vita psichica

In altre parole si viene a configurare una rottura simile a quella del disturbo post-traumatico da stress in cui la persona, in uno stato di ipervigilanza, cade improvvisamente preda di attacchi di terrore legati associativamente all’episodio traumatico.

L’attacco di panico, ricorrente espressione di sofferenza del sè, ci dice che la membrana protettiva della mente (Freud, 1920) si è lacerata.

Lo scatenamento dei sintomi, che è sostenuto da un continuo rimando dalla psiche al soma e viceversa, si collega a un micro-delirio, limitato nel tempo e nello spazio e legato ad alcuni oggetti, luoghi o pensieri, che origina nell’isolamento e nell’angoscia.

La risposta neurovegetativa, biologicamente predeterminata, potenzia a sua volta le costruzioni traumatiche nell’immaginazione attraverso il ruolo determinante dell’angoscia proveniente dal corpo (terrore somatico).

E’ possibile isolare tre livelli, da quello più a valle a quello più a monte, che sono strettamente interconnessi nel configurare l’attacco di panico.

Il livello inferiore, quello più a valle, è sotto il controllo dell’amigdala ( l’organo cerebrale che regola tutte le reazioni neurovegetative della paura) ed è in grado di scatenare le reazioni somatiche.

Il livello intermedio, è quello della memoria traumatica che costruisce i nessi associativi e le immagini visive o mnestiche che entrano nell’immaginazione catastrofica.

Il terzo livello, quello superiore, è connesso alla struttura della personalità, alle esperienze infantili o alle difese psichiche, cioè a quella complessa configurazione dinamica che non solo dà origine al sintomo ma che condiziona l’intero mondo interno e relazionale del paziente.

Le differenti terapie, che partono da ipotesi etiopatogenetiche divergenti, si differenziano in realtà per i diversi livelli in cui cercano di agire.

Agendo al livello inferiore, quello più a valle, gli psicofarmaci cercano di ridurre l’intensità delle reazioni neurovegetative scatenate dal sistema limbico e di combattere lo stato depressivo di base.

La terapia cognitiva, agendo a un livello intermedio, cerca di correggere la distorsione percettiva, che genera la paura, mediante strategie di decondizionamento e graduale esposizione del paziente allo stimolo che induce il terrore.

Entrambi questi due approcci hanno lo scopo di liberare il paziente dal sintomo del panico.

La terapia psicoanalitica, che considera l’attacco di panico conseguenza di un disturbo dell’identità personale e della crisi di assetti difensivi, ha come scopo quello di agire a livello strutturale e non puramente sintomatico.

L’esperienza clinica mi ha convinto che è indispensabile in ogni caso lavorare in seduta sull’attacco di panico, focalizzandolo ogni volta che si manifesta e invitando il paziente a descrivere le sensazioni, percezioni o pensieri che l’hanno preceduto e accompagnato.

In questo modo è possibile cominciare a riconoscere come si formano i sintomi, in quali situazioni più facilmente compaiono e quale é il ruolo dell’immaginazione catastrofica.

Il paziente ha così la possibilità di rivivere in seduta la vicenda traumatica che viene analizzata, condivisa con l’analista e sperimentata in una sequenza potenzialmente pensabile.

Questo tipo di lavoro analitico permette al paziente di prendere atto del proprio contributo al costituirsi dell’attacco e ha il vantaggioso effetto di liberare nuovi spazi ed energie per lo sviluppo del processo analitico.

BIBLIOGRAFIA

De Masi, F.  (2004), The Psychodynamic of Panic Attack: a Useful Integration of Psychoanalysis and Neuroscience. Int. J. Psychoanal. 85, pp. 311-336.

Freud, S. (1920) Al di là del principio del piacere OSF, vol 9, Boringhieri Torino. 1977.

LeDoux, J. (1996) Il cervello emotivo Alle origini delle emozioni. Tr. It. Baldini e Castoldi 1998.

Autolesionismo
Autolesionismo

ORLAN self hybridation africaine

A cura di Mario Rossi Monti e Alessandra D’Agostino

Definizione

Quali condotte sono comprese sotto il termine “autolesionismo”? Riprendendo la definizione di Armando Favazza, l’autolesionismo è “un comportamento ripetitivo, solitamente non letale per severità né intento, diretto volontariamente a ledere parti del proprio corpo, come avviene in attività quali tagliarsi o bruciarsi” (1989, p. 137). Dunque, non possono essere considerate autolesionistiche in senso stretto le condotte che determinano solo indirettamente danni fisici (abbuffate, anoressia, assunzione di sostanze, etc.). Mentre possono essere considerate autolesionistiche le condotte che portano comunque a un ferimento volontario, anche se non inquadrabile all’interno di un chiaro contesto di patologia.  Entrando maggiormente  nello specifico, Favazza (1996) suddivide essenzialmente le condotte autolesive in due grandi gruppi: autolesionismo “deviante” e autolesionismo “culturalmente approvato”.

Due tipi di autolesionismo.

Del  primo tipo (per intenderci, quello che si ritrova nel nuovo DSM-5 sotto il nome di “Non-Suicidal Self-Injury”, NSSI) fanno parte tutte quelle condotte ascrivibili a precisi disturbi psichiatrici e che l’autore suddivide a sua volta in tre sottogruppi:

-un autolesionismo “maggiore” che comprende gesti poco frequenti ma molto gravi (come l’enucleazione di un occhio, l’evirazione, l’auto-amputazione di un orecchio) e che si manifestano spesso nel contesto di intossicazioni acute da sostanze o di esperienze psicotiche.

-un autolesionismo “stereotipato” che comprende azioni ripetitive e occasionalmente ritmiche (come battere la testa, percuotersi, mordersi, graffiarsi la bocca o gli occhi, strapparsi i capelli, lesionare la pelle, etc.) che si riscontrano in genere in soggetti con ritardo mentale (specie se istituzionalizzati), psicotici in fase acuta, sindromi autistiche o altre sindromi di carattere neurologico (come la sindrome di Tourette, quella di Cornelia de Lange o quella di Lesch-Nyhan).

– un autolesionismo “superficiale/moderato”, che comprende forme autolesive lievi suddivisibili, a loro volta,   in tre tipologie: condotte compulsive (come la tricotillomania, il mangiarsi le unghie fino alla carne viva, lo strapparsi e scorticarsi la pelle), condotte episodiche e condotte ripetitive (come tagliare, incidere e bruciare la pelle, conficcarsi aghi, rompersi le ossa, interferire con la guarigione delle ferite, etc.). Tra queste le condotte più comuni sono tagliarsi e bruciarsi, presenti in numerose patologie:  nei disturbi di personalità (soprattutto borderline), nel disturbo post-traumatico da stress, nei disturbi dissociativi e nei disturbi dell’alimentazione. Tali atti sono in genere occasionali, ma possono diventare ripetitivi quando il soggetto li assume come modello di condotta per far fronte a determinate situazioni emotive o per rispondere a bisogni di identificazione con il gruppo di appartenenza. In questi casi il gesto autolesivo può configurarsi come un tratto stabile del modo di essere attorno a cui si sviluppa l’intera identità (si parla allora di cutters o burners) o come una vera e propria “sindrome di autoferimento intenzionale”, che inizia in adolescenza e si protrae per dieci o quindici anni, alternando periodi caratterizzati da gesti autolesivi a periodi di quiete e ad altri comportamenti impulsivi (disordini alimentari, abusi di sostanze, cleptomania).

Del secondo tipo di autolesionismo, invece, quello “culturalmente approvato”, fanno parte “rituali” e “pratiche” autolesionistiche accettate da un gruppo. I “rituali” sono attività portate avanti per generazioni, che riflettono tradizioni e credenze della particolare società che li perpetua; molte di queste cerimonie hanno l’obiettivo di prevenire o scongiurare fenomeni che potrebbero destabilizzare la comunità (come catastrofi, rabbia degli dei, degli spiriti o degli avi, conflitti fra tribù, scontri uomo/donna, perdita dell’identità di gruppo). Le “pratiche”, invece, sono forme di modificazione o manipolazione corporea approvate dalla società di appartenenza (come tatuaggi, piercing, incisioni sulla pelle, impianti sotto pelle, scritture direttamente nella carne con ferri arroventati, etc.). Sono tutte condotte molto in voga nella società moderna: basti pensare ai ragazzi “Emo” che, sulla scia di una cultura post-punk/gotica, ricorrono a condotte autolesionistiche quasi fossero, queste, un rito da assolvere obbligatoriamente per affermare la propria identità e la propria appartenenza al gruppo, oppure ancora a quelle persone che si sottopongono a numerosi interventi di chirurgia estetica senza essere mai soddisfatte dei risultati, o persino a quegli artisti contemporanei (come Marina Abramovic, Gina Pane, Stelarc o Orlan) il cui lavoro è tutto incentrato sull’attacco al proprio corpo, un attacco violento, brutale, ma soprattutto reale, per quanto prodotto di un vero e proprio progetto artistico e di una strategia comunicativa pensata nei dettagli.

Autolesionismo nelle società contemporanee.

Oggi l’autolesionismo è un fenomeno talmente diffuso nei paesi industriali avanzati da costituire una vera e propria emergenza sociale, che riguarda tutta la popolazione, non soltanto quella psichiatrica e, in special modo,  la fascia di età giovanile. Giusto per citare qualche dato: circa il 4% di adulti privi di disturbi clinici riporta una storia di autolesionismo (Klonsky, Oltmanns & Turkheimer, 2003); negli Stati Uniti e in Canada il 14-15% degli adolescenti riferisce di aver compiuto almeno un atto autolesivo nell’ultimo anno (Laye-Gindhu & Schonert-Reichl, 2005); in Svezia gli adolescenti di 14 anni che riferiscono almeno un episodio di autolesionismo oscillano tra il 36 e il 40% (Bjärehed, Lundh, 2008); tra i pazienti psichiatrici adulti, gesti autolesivi sono presenti nel 20% dei casi (Briere & Gil, 1998) e, tra i pazienti psichiatrici adolescenti, le cifre salgono fino al 40-80% (Nock & Prinstein, 2004). Una situazione decisamente drammatica, dunque. Quasi un’epidemia.

Perché questa diffusione trasversale dell’autolesionismo nelle società odierne?

E, soprattutto, cosa spinge le persone a ferirsi (e nei modi più disparati)?

Dal panorama complesso mostrato finora, le cose non sembrano per nulla chiare. Certo è che chi si ferisce lo fa per un motivo che a poco o niente a che fare con l’idea di darsi la morte. Su quali motivi sottendono queste condotte il dibattito è aperto ormai da anni. Friedman et al. (1972), ad esempio, pensano che l’autolesionismo serve a tenere sotto controllo pulsioni sessuali o di morte; Simpson e Porter (1981) ritengono che esso sia utile nel definire i confini tra il Sé e l’altro; Suyemoto (1998) ipotizza che tale comportamento protegga gli altri dalla propria aggressività e rabbia.

In particolare Lemma (2010) sostiene che l’autolesionismo assolve una serie di compiti inconsci, tra cui:

-negare la separazione o la perdita (con la fantasia inconscia di essere fusi con l’oggetto, rifiutando di elaborare il lutto per il corpo dell’oggetto perduto)

– tentare la separazione (con la fantasia inconscia di sovrascrivere, tagliare via in modo violento o strappare l’altro, sentito risiedere dentro il proprio corpo)

– coprire un corpo vissuto con vergogna (con la fantasia inconscia di distrarre, e quindi controllare, lo sguardo dell’altro)

– porre rimedio a un senso interno di frammentazione (con fantasia inconscia di identificazione con l’immagine che l’altro vede e che ristabilirà un senso di coesione interna)

– attaccare l’oggetto (con la fantasia inconscia di infliggere un dolore, e quindi punire l’oggetto, esponendolo al luogo del crimine).

Organizzatori di senso.

Per muoversi nel contesto di un insieme di comportamenti altamente indifferenziati ed opachi ci è sembrato utile proporre una serie di  “organizzatori di senso” (Rossi Monti & D’Agostino, 2009) non certamente esaustivi né mutuamente esclusivi, ma che possano funzionare un po’ come boe durante la navigazione clinica:

-il primo organizzatore lo abbiamo chiamato  “concretizzare”, là dove il gesto autolesivo viene usato come modo per trasformare uno stato psichico in uno fisico, per controllare nel corpo sentimenti intollerabili, come un angoscioso vuoto interiore;

-il secondo organizzatore è “punire-estirpare-purificare”, dove ferirsi è un mezzo per punire/estirpare la parte cattiva di sé (il sé alieno di cui parla Fonagy) al fine di disintossicarsi/purificarsi e attaccare pensieri, sentimenti, ricordi, o anche per ripetere inconsciamente una sequenza emotiva che rimanda ad una storia di abuso infantile;

-il terzo è “regolare la disforia”, dove l’atto di auto-ferimento aiuta a controllare sentimenti di tensione angosciosa, quale può essere ad esempio lo stato disforico cronico che fa da sfondo all’esperienza borderline (un misto di tensione, irritazione, sordo malumore, confusione, rabbia), ma anche ad interrompere il ciclo di depersonalizzazione/derealizzazione, ricercando esperienze vive e stimolanti nel dolore;

-il quarto è “comunicare senza parole”, dove il gesto autolesivo funge da linguaggio per trasmettere qualcosa che a parole non si riesce a dire, o anche per controllare i comportamenti e le emozioni dell’altro, o pure per suscitare nell’altro risposte di accudimento (in questo contesto si parla spesso in modo inesatto di “manipolazione”, una modalità di pensiero e azione che richiede funzioni mentali complesse e sofisticate, in genere sostanzialmente compromesse nel disturbo borderline grave);

-il quinto è “costruire una memoria di sé”, dove ferirsi diventa un modo per fissare una memoria di se stessi, incidendo sul proprio corpo marchi che segnano sulla pelle momenti, vicende ed emozioni, corrispondenti a significativi punti di passaggio;

-il sesto ed ultimo organizzatore è “volgere in attivo/cambiare pelle”, dove l’auto-ferimento agisce come uno strumento per trasformare in attive esperienze che vengono vissute passivamente, subite o imposte, un modo per ribaltare un senso di impotenza di per se stesso traumatico in un “trauma” auto-provocato, del quale ci si può sentire autori.

Tanti, dunque, sembrano essere i percorsi di senso, consapevoli o meno, che sottendono un gesto per altri versi sempre uguale. Ogni gesto autolesivo racconta in qualche misura una storia diversa. Ma ognuna di queste storie mostra in definitiva che l’autolesionismo, in qualunque forma si declini, svolge una precisa funzione all’interno dell’economia psichica della persona (Lemma, 2010): una funzione per certi versi “vitale”, volta alla salvaguardia dell’ identità.

Bibliografia

Bjärehed, J., & Lundh, L. G. (2008). Deliberate self-harm in 14-year-old adolescents: How frequent is it, and how is it associated with psychopathology, relationship variables, and styles of emotional regulation? Cognitive Behavior Therapy, 37, 26-37.

Briere, J., & Gil, E. (1998). Self-mutilation in clinical and general population samples: Prevalence, correlates, and functions. American Journal of Orthopsychiatry, 68, 609– 620.

D’Agostino, A. (2012). Corpi alla deriva. Autolesionismo e oltre. in M. Rossi Monti (a cura di). Psicopatologia del presente. Crisi della nosografia e nuove forme della clinica, Milano: FrancoAngeli, pp. 64-110.

Favazza, A. R. (1989). Why patients mutilate themselves. Hospital & Community Psychiatry, 2, 137-45.

Favazza, A. R. (1996). Bodies under siege: Self-mutilation and body modification in culture and psychiatry. Baltimore: The Johns Hopkins University Press.

Friedman, M., et al. (1972). Attempted suicide and self-mutilation in adolescence: Some observations from a psychoanalytic research project. The International Journal of Psychoanalysis, 53, 2: 179-83.

Klonsky, E. D., & Muehlenkamp, J. J. (2007). Self-injury: A research review for the practitioner. Journal of Clinical Psychology, 63(11), 1045-1056.

Klonsky, E. D., Oltmanns, T. F., & Turkheimer, E. (2003). Deliberate self-harm in a nonclinical population: Prevalence and psychological correlates. American Journal of Psychiatry, 160, 1501–1508.

Laye-Gindhu, A., & Schonert-Reichl, K. A. (2005). Nonsuicidal self-harm among community adolescents: Understanding the “whats” and “whys” of self-harm. Journal of Youth and Adolescence, 34, 447– 457.

Lemma, A. (2010). Sotto la pelle. Psicoanalisi delle modificazioni corporee. Milano: Raffaello Cortina, 2011.

Nock, M. K., & Prinstein, M. J. (2004). A functional approach to the assessment of self-mutilative behavior. Journal of Consulting and Clinical Psychology, 72, 885–890.

Rossi Monti, M. & D’Agostino, A. (2009). L’autolesionismo. Roma: Carocci.

Simpson, C. A., & Porter, G. L. (1981). Self-mutilation in children and adolescents. Bulletin of the Menninger Clinic, 45, 5: 428-438.

Suyemoto, K. L. (1998). The functions of self-mutilation. Clinical Psychology Review, 18, 5: 531-554.

Balbuzie

A cura di Irenea Olivotto

(Inglese: stuttering, stammering – Francese : bégaiement – Tedesco : stottern – Spagnolo: tartamudeo)

La balbuzie è un fenomeno relativo al comportamento verbale che si manifesta frequentemente nell’età evolutiva e che in molti casi scompare spontaneamente. Lieve o intensa che sia la sua manifestazione, essa è una caratteristica generalmente assai disturbante per la persona che ne è affetta ed anche per coloro che con chi balbetta vengono a contatto. Può, infatti, incidere pesantemente sulla possibilità di comunicare e creare un disagio nella relazione che non è facilmente superabile.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha proposto la seguente definizione: “La balbuzie è un disordine nel ritmo della parola, nel quale il paziente sa con precisione quello che vorrebbe dire, ma nello stesso tempo non è in grado di dirlo a causa di involontari arresti, ripetizioni e/o prolungamenti di un suono”. E’ da considerarsi pertanto una disfemia, cioè uno dei disturbi di fluenza del linguaggio, distinguibile sia da altri disturbi di disfluenza (come per esempio il tumultus sermonis o tartagliamento, dove è stata riscontrata una più netta base organica), sia dai disturbi che riguardano più specificamente la pronuncia delle parole (come per es. la dislalia), sia dai disturbi relativi alla organizzazione del pensiero e del linguaggio verbale.

E’ un fenomeno universale, testimoniato fin dall’antichità; è presente in tutti i popoli della terra, anche nelle culture primitive; si riscontra in tutti i livelli sociali. La storia ricorda illustri personaggi affetti da balbuzie; solo per citarne qualcuno: Mosè, Aristotele, Demostene l’oratore greco, Esopo, Virgilio, Newton, Napoleone, Washington, Darwin, Wittgenstein, il re inglese Giorgio VI, Churchill, Lenin, Manzoni, Somerset Maugham… ed anche Marilyn Monroe.
Da tutte le discipline che si interessano di questo fenomeno (in campo medico, psichiatrico, psicologico) viene riconosciuta l’importanza degli aspetti psicologici e relazionali implicati nel disturbo, tanto che secondo O. Schindler, audiofoniatra di Torino e uno dei maggiori studiosi della balbuzie in Italia, si può dire che un individuo nasce o diventa disfluente e la società lo trasforma in balbuziente.
Una persona affetta da balbuzie non balbetta quando pensa, quando sogna, quando parla da sola o con gli animali, o parla una lingua straniera, quando canta o recita…
Ci sono età della vita in cui la balbuzie si manifesta più facilmente: nella prima infanzia, all’inizio della scuola elementare e all’inizio della pubertà; l’insorgenza nell’età adulta è rara e generalmente è legata a problematiche di tipo organico quali traumi o malattie neurologiche. Viene anche generalmente riconosciuto che il primo manifestarsi della balbuzie è spesso correlato con episodi traumatici o di intenso significato emotivo sgradevole per il soggetto che poi ne resta affetto. La fascia di età di maggiore frequenza della balbuzie è fra i 3 e i 6 anni (oltre il 30%) ed è considerata fisiologica; poi la frequenza diminuisce e oltre i 18 anni scende al di sotto dell’1% anche per il fatto che il balbuziente ha trovato dei sistemi per controllare l’emissione del linguaggio e riesce a tenere il disturbo, qualora persista, in forma latente appena rilevabile da leggera disfluenza del ritmo della parola.
Si osserva una maggiore incidenza nei maschi, con rapporto generalmente accettato di 3-6 a 1 rispetto alle femmine.
Solitamente si distinguono tre forme di balbuzie: la tonica, la clonica e una forma mista delle due. La balbuzie tonica è caratterizzata da blocchi improvvisi e parossistici di emissione del linguaggio per cui la persona non può cominciare un dato fonema o non riesce a superarlo per passare ad un altro. La forma clonica si presenta con una ripetizione convulsiva di un fono, di una sillaba o di una parola soprattutto all’inizio della produzione verbale o durante l’enunciazione della frase. Emil Fröschels, illustre foniatra austriaco del secolo scorso, descriveva sei livelli di intensità nella manifestazione della balbuzie. A partire da un primo livello (in cui è presente solo la semplice ripetizione di suoni, sillabe o parole) via via il disturbo si intensifica accompagnandosi con incoordinazione respiratoria, sincinesie mimico-facciali, movimenti ticcosi del volto, della testa, del busto, degli arti e delle mani che hanno lo scopo di superare il blocco spastico. Si arriva ad un ultimo stadio, detto del mascheramento, in cui il balbuziente tenta di adattarsi all’ambiente sociale mettendo in atto una serie di meccanismi che lo aiutano a nascondere il proprio difetto, come per esempio evitare le parole che ingenerano balbuzie usando al loro posto altre parole o frasi sostitutive. Il tutto rende la produzione linguistica del soggetto difficile e alterata nella qualità e nella quantità di emissione delle parole e la comunicazione estremamente penosa per chi parla e per chi ascolta.
Gli autori americani distinguono una balbuzie primaria da una secondaria. La balbuzie primaria viene riferita ai primi anni di età, quando il bambino non ne è consapevole, è limitata ad esitazioni, prolungamenti o ripetizioni di suono, non interessa la parola e la frase e non vi sono tentativi di evitarla. La balbuzie secondaria si instaura più tardi, in età scolare, con coscienza del disturbo e può accompagnarsi alle sincinesie, ai movimenti ticcosi, alla incoordinazione respiratoria. La balbuzie che insorge nella prima infanzia viene detta anche evolutiva, in quanto in condizioni ambientali favorevoli scompare spontaneamente e nella maggioranza dei casi non si ripresenta.
Per quanto riguarda la terapia, il problema della balbuzie viene affrontato con metodi e tecniche diverse e differenziate a seconda dell’età. Sempre più frequentemente è considerato elettivo il trattamento psicoterapeutico, nella visione della balbuzie come disturbo della relazione interpersonale, accompagnato o no che sia da tecniche di rieducazione logopedica.
Nella prima infanzia è sconsigliato generalmente un trattamento specifico con tecniche logopediche e si preferisce tenere sotto controllo l’evolversi del disturbo, seguendo i genitori e dando consigli sul modo più opportuno di rivolgersi al figlio quando balbetta, in modo da evitare al massimo il fissarsi del sintomo. Perché la rieducazione logopedica abbia buoni effetti, è necessario, infatti, che vi sia nel balbuziente la coscienza del disturbo e che la sua disfluenza venga sentita come disturbante.
Le tecniche logopediche attuate sono svariate, e si basano soprattutto in pratiche di rilassamento, di controllo della respirazione e della emissione delle parole, nello sviluppare le abilità verbali e non verbali del linguaggio e nell’incoraggiare l’interazione comunicativa. Ma non sempre la rieducazione logopedica ha successo: dopo cicli di rieducazione che hanno avuto buon esito la balbuzie spesso si ripresenta…e magari succede che il paziente riesca a non balbettare più durante le sedute con la logopedista, per poi riprendere a balbettare appena esce dalla stanza.
Sulla eziologia della balbuzie, vengono chiamati in causa numerosi fattori sia organici che funzionali, la predisposizione ereditaria, la psicologia del soggetto e le influenze ambientali. Le teorie organicistiche, foniatriche e psicogenetiche dibattono i loro punti di vista. Gli psicoanalisti Renato Sigurtà e Mariangela Barbieri in un loro libro del 1955 nel quale hanno trattato ampliamente l’argomento, hanno affermato che esistono casi nei quali l’organicità almeno parziale del disturbo appare troppo evidente per poter essere negata; ma che l’origine organica nulla toglie al fatto che nelle manifestazioni di balbuzie i fattori emozionali esercitino un ruolo particolare. Essi escludono la univocità psicogenetica del disturbo e affermano che anche nelle sindromi nelle quali la componente psichica è più evidente esiste una componente organica la quale è la causa effettiva perché il disturbo fisico si manifesti sotto forma di balbuzie e non di altri aspetti.
Nel versante organico, si nota un’alta correlazione con incoordinazione e ritardi motori, alterazione o disturbi della lateralizzazione (frequente il mancinismo), della strutturazione spazio percettiva, ritardo nel feedback uditivo, nonché un’elevata familiarità, la quale però può trovare ragione anche nel comportamento appreso e nel fatto che i genitori particolarmente sensibilizzati da esperienze di balbuzie, possono con la loro ansia contribuire a fissare il sintomo nel figlio. Non è stata trovata correlazione alcuna della balbuzie con il livello intellettivo.
Gli studi sulle dinamiche affettive hanno evidenziato nei balbuzienti delle caratteristiche assai peculiari sia per quanto riguarda la personalità di questi soggetti che per quanto riguarda il loro ambiente e le relazioni familiari. Nella nostra cultura occidentale, il rapporto genitori/figlio balbuziente pare caratterizzato da una forte richiesta da parte dei genitori che il figlio risponda alle loro aspettative narcisistiche di successo, da un’educazione rigida e formale, da tensioni e contrasti soprattutto con la figura paterna. Nei balbuzienti e nelle loro famiglie si trova spesso una ipervalutazione della parola: essa appare eccessivamente privilegiata come veicolo della comunicazione e come indice di evoluzione culturale, in un contesto dove sono più importanti gli aspetti formali della parola che non il suo contenuto affettivo. Questa caratteristica appare più facilmente quando la personalità dei genitori, al di là del bagaglio culturale e del livello socioeconomico, si presenta a sua volta disturbata. Invece che essere usata nel suo valore simbolico come segno verbale del pensare, la parola sembra restare fissata a significati concreti, non affettivamente neutralizzati; il che rende assai problematico l’uso del linguaggio come mezzo di comunicazione.
Fra il balbuziente e il contesto ambientale si instaura un clima di tensione e di aspettative continuamente deluse. I balbuzienti possono assumere un atteggiamento passivo e dipendente, con inibizione delle loro potenzialità espressive ed interattive in famiglia e nell’ambiente sociale; oppure possono reagire in modo eccessivo con disinibizione verbale (il cosiddetto Complesso di Demostene), manifestazioni di prepotenza o di instabilità emotiva. Le indagini psicologiche effettuate hanno evidenziato che l’espressione e l’uso dell’aggressività è uno degli aspetti principali della problematica dei balbuzienti.

APPROFONDIMENTI

La balbuzie nella psicoanalisi

Viene esposta qui di seguito una breve panoramica degli autori che si sono interessati di questo disturbo del linguaggio, focalizzando l’attenzione sul fatto che essi mettono strettamente in relazione la balbuzie con le problematiche inerenti ai vari livelli e stadi dell’evoluzione della personalità.
Secondo alcuni autori (Blanton, Fröschels – vedi Bloom 1978) Freud non avrebbe mai condotto analisi su balbuzienti e avrebbe dichiarato la sua poca esperienza a proposito. Negli “Studi sull’Isteria” (1895) egli espone il caso di Frau Emmy von N., che aveva trattato col metodo dell’ipnosi. Fra i vari disturbi di Emmy vi era anche la balbuzie, insorta in seguito ad un paio di incidenti traumatici: mentre era in carrozza con le figlie piccole i cavalli si erano imbizzarriti e lei si era imposta di stare quieta per non spaventare maggiormente i cavalli. Freud era riuscito con la suggestione ad eliminare il sintomo, ma il disturbo era ricomparso sia durante la frequentazione di Freud, sia dopo il trattamento. Freud lo spiega per il fatto che era stata cancellata con l’imposizione ipnotica la balbuzie legata all’angoscia del fatto traumatico in sé, ma non quella relativa alla lunga catena di ricordi associati. Freud considera la balbuzie di Emmy “una sorta di conversione isterica”, “un simbolo mnestico corporeo”, “un sintomo motorio formatosi per semplice conversione dell’eccitamento psichico in fatto motorio”. (Per una visione critica di questo caso in relazione alla balbuzie, vedi B. Barrau 1980).

Anche se non vi sono lavori specifici di Freud sulla balbuzie, accenni ad essa si trovano in vari punti della sua opera e sono riportati da autori a lui contemporanei suoi interventi a proposito. In “Psicopatologia della vita quotidiana” (1901) ne fa cenno come indice di conflitto interiore. Nel 1907, discutendo il caso di un balbuziente presentato da Adler, non concorda con lui che si tratti di un difetto innato derivante da una inferiorità dell’organo del linguaggio, ma pensa piuttosto ad una soppressione dell’esibizionismo, accennando indirettamente alla connessione fra la balbuzie e la nevrosi ossessiva. Nel 1910 dichiara a Federn che la balbuzie, come l’asma ed i tic, è “un disordine che assomiglia all’isteria… ma che dobbiamo classificare a parte come nevrosi di fissazione” (ad un organo). Nel 1915, in una lettera a Ferenczi, gli chiede “se gli constasse che la balbuzie poteva essere causata da uno spostamento verso l’alto di conflitti a carico delle funzioni escretorie” (Jones 1953). Pare si riferisse ad un paziente balbuziente su cui non era riuscito a condurre l’analisi.
Fra i seguaci di Freud, molti si interessarono della balbuzie, o per avere incontrato il disturbo nei loro pazienti o perché specificamente interessati alla patologia del linguaggio: Putman, Jones, Adler, Jung, Seashore, Travis, Appelt e Johnson che erano balbuzienti, Van Riper, Blanton, Fröschels… Le loro teorizzazioni furono svariate, le cause e meccanismi riportati furono molteplici. E’ interessante notare che le loro idee si possono ritrovare nelle interpretazioni della balbuzie che furono date da autori successivi.
La prima esposizione clinico-scientifica psicoanalitica completa si deve a Stekel (1908) che dedicò alla balbuzie un capitolo del suo trattato sulle nevrosi d’angoscia, ma la sua idea (balbuzie come impotenza psichica, inibizione al parlare derivante dalla fobia di non poter parlare senza interruzioni) non fu condivisa da Freud.

Scripture (1912) affermò che la balbuzie inizia da un trauma che porta ad uno stato generale di ansia; il balbettare inizia come un’abitudine, che la disapprovazione dell’ambiente fa diventare psiconevrosi.

Dorsey (1934) considerava il balbuziente difettoso nella libido genitale, come risultato di difetto nella libido orale anale e uretrale.

Melanie Klein in un saggio del 1923 parla della sublimazione delle fissazioni orali, cannibalesche e sadico-anali che si ha nel linguaggio e cita una bambina balbuziente di 9 anni, Grete, come esempio di non felice esito del processo di maturazione. Per Grete il parlare e il cantare rappresentavano l’attività mascolina e il movimento della lingua quello del pene. “Nel corso dell’analisi – dice la Klein – si dimostrò che l’occasionale balbuzie di cui soffriva la bambina era determinata dall’investimento libidico del parlare e del cantare. Il salire e il calare della voce, e i movimenti della lingua, rappresentavano il coito”.

Coriat (1927, 1933, 1942-43) vede la balbuzie non come una difesa ma piuttosto come una perversione. Alla base di essa vi sarebbe un eccessivo erotismo orale (succhiare, masticare, mordere). La parola sarebbe trattenuta per avere una più intensa gratificazione, senza quindi sensi di colpa e inibizione. Questo autore descrive la personalità del balbuziente come passiva-dipendente e interpreta la balbuzie come una ripetizione compulsiva dei primi atti relativi all’allattamento, un tentativo di tenere legata a sé la madre come oggetto d’amore. A sostegno delle sue opinioni, sottolinea la relazione fra svezzamento ritardato ed assenza di balbuzie nelle tribù primitive della Nuova Guinea, dove manca anche il termine “balbuzie”.
Fenichel (1945) pone la balbuzie (come il tic psicogeno e l’asma bronchiale) fra le conversioni pregenitali, un terzo tipo di nevrosi i cui sintomi rientrano in quelli della conversione, ma gli impulsi inconsci espressi nei sintomi sono pregenitali. Pur evidenziando anche l’importanza di pulsioni orali, falliche ed esibizionistiche nella strutturazione del disturbo, egli considera la balbuzie principalmente un sintomo di fissazione allo stadio sadico-anale e avvicina la struttura di personalità del balbuziente a quella del nevrotico coatto. La parola detta e non detta, espulsa e trattenuta, viene rifiutata dall’Io perché rappresenta desideri relativi al livello sadico-anale del bambino. Il significato inconscio del parlare, o della cosa che sta per essere detta, o dell’attività del parlare in genere, rende impossibile esprimere quello che sta per essere detto. Come è proprio del pensiero magico concreto che caratterizza questa fase evolutiva, le parole non “rappresentano le cose” ma “sono” le cose e quindi sono sentite pericolose di sporcare e di uccidere.
Secondo Wassef (1955) sono altamente implicate nella personalità del balbuziente problematiche specifiche del livello edipico, che non trovano soluzione a causa del permanere di conflitti irrisolti dei livelli precedenti (orale e anale). Il sintomo della balbuzie esprime simbolicamente le modalità con cui sono state strutturate, negli stadi successivi dello sviluppo psicosessuale, le relazioni oggettuali e libidiche degli stadi precedenti.

Johnson (1959), pubblicando i risultati di una più che ventennale ricerca sui balbuzienti dello Iowa, arrivò a concludere che, come conseguenza della reazione del bambino ai suoi genitori, egli sviluppa una visione negativa del suo linguaggio che “inibisce” il suo parlare, e che nel dire “il mio fiato si è fermato” il balbuziente vuole significare che ci sono entità e forze sulle quali egli non ha controllo. Questo autore dà cruciale importanza all’influenza della “proiezione inconscia” dei genitori sullo sviluppo della balbuzie. Afferma: “la balbuzie inizia nell’orecchio di chi ascolta piuttosto che nella bocca del balbuziente”.
Più tardi, nel 1963 Augusta Bonnard ipotizzerà che la balbuzie, equiparata in questo senso a tutti gli altri disturbi del linguaggio, sia un’espressione psicosomatica di stati affettivi arcaici che si manifestano attraverso i meccanismi muscolari della lingua ma che vengono contrastati da azioni dirette ad annullare l’impulso.
Glauber, autore statunitense appartenente alla corrente della Psicologia dell’Io, a partire da 1935 ha pubblicato una quindicina di articoli sulla balbuzie e sul pensiero di Freud a riguardo. Egli afferma che la balbuzie ha le sue origini nel rapporto primitivo diadico madre-bambino e nel gioco fantasmatico di proiezioni-introiezioni che si crea tra di loro. In questo caso si presume una fissazione a livello orale-narcisistico che si traduce nella personalità dipendente e passiva che, secondo questo autore, è tipica del balbuziente. Nell’ultimo articolo pubblicato nel 1968, dopo la sua morte, parla della balbuzie come disautomatizzazione, cioè come un disordine del funzionamento preconscio dell’Io. Egli afferma che il parlare è una delle funzioni dell’Io che opera preconsciamente. Nella formazione del linguaggio, il bambino passa dall’imitazione conscia all’identificazione inconscia; il parlare diventa un automatismo. In talune circostanze può accadere che avvenga un investimento conscio delle funzioni preconscie, le quali quindi non avvengono più automaticamente ma passano sotto i meccanismi di controllo dell’Io. Se nel processo di separazione dall’identificazione primaria con la madre avviene un trauma, l’aggressività che si sviluppa in conseguenza della defusione delle pulsioni va a colpire la funzione del linguaggio negli aspetti dell’automatismo e della fluenza che ad esso è legata. La balbuzie viene considerata il prototipo della disautomatizzazione. Essa di solito consiste soltanto in un sintomo transitorio; se persiste nella latenza e nella adolescenza, diventa una sindrome cronica che ha due aspetti principali: 1) il disturbo primario, balbuzie come sintomo, una fissazione derivante dal trauma precoce; 2) secondariamente un conflitto nevrotico posteriore che viene innestato sopra e utilizza la fissazione primaria. Inoltre, la fissazione determina lo sviluppo di un disordine del carattere che in generale tende a riflettere la struttura della fissazione. Secondo Glauber la tecnica analitica raramente produce una completa risoluzione del sintomo, che ha radici così profonde. Può essere trattato con l’analisi solo ciò che appartiene alla struttura nevrotica; il funzionamento balbuziente, a sua volta libidinizzato e automatizzato, diventa egosintonico e vengono instaurate ambivalenze e grosse resistenze alla terapia.
La teoria di Glauber sulla balbuzie si inserisce e si accorda con il pensiero di Anna Freud per ciò che riguarda lo sviluppo delle funzioni dell’Io e le sue problematiche. La linea di sviluppo di una funzione (in questo caso il linguaggio, la comunicazione) non è stabile e continuativa ma può essere alterata da pressioni disturbanti provenienti sia dal mondo esterno che da quello interno. Anna Freud riferisce del piccolo Martin di tre anni, il quale veniva preso da collera violenta e da crisi di rabbia quando non poteva restare con la bambinaia alla quale era affidato all’asilo e alla quale era legatissimo. Dopo le sue scenate, diventava malamente balbuziente per parecchie ore, a volte anche per l’intera giornata. Il livello di funzionamento raggiunto dal bambino nel linguaggio veniva turbato dall’angoscia di perdere l’amatissima bambinaia. Un commento di Anna Freud è che “i balbettamenti infantili hanno diritto di esistere nella vita del bambino, accanto ai discorsi razionali e in alternanza con essi” (1943, 1965).

Annie Anzieu (1964, 1969, 1980, 1982) ipotizza nel bambino che diventerà balbuziente un’estrema precocità della rimozione, dovuta all’intensità delle pulsioni libidiche. Il sintomo della balbuzie non esprime la regressione o la fissazione dell’affettività soltanto ad un determinato stadio di sviluppo, ma si manifesta contemporaneamente su tre registri: paranoico, ossessivo e isterico, i quali si riferiscono agli stadi successivi orale, anale e fallico dello sviluppo psicosessuale ed alle relazioni oggettuali elaborate o non completamente elaborate all’interno di essi. Questa interpretazione permette di spiegare il carattere sfaccettato e la presenza di atteggiamenti contraddittori, come attività e passività, nel balbuziente. Annie Anzieu osserva nei balbuzienti una struttura psichica estremamente fragile sotto le difese apparenti, pur avendo riscontrato molto raramente balbuzienti psicotici o psicotici balbuzienti, come se la balbuzie fosse un segno o un mezzo per superare e controllare la parte psicotica della personalità. Nel pensiero di questa autrice, il linguaggio come conquista del simbolico è il segno della accettazione delle differenze generazionali e del divieto dell’incesto. La balbuzie quindi è il sintomo che esprime la lotta fra il desiderio inconscio e la non ammissione di esso. Per questa autrice (come per Glauber) la balbuzie si manifesta spesso in un contesto familiare caratterizzato da una relazione madre-figlio fusionale, altamente sessualizzata, in cui le tematiche edipiche del figlio si incontrano con i desideri edipici inconsci della madre, colludendo con essi. Nel balbuziente la posizione edipica sembra restare la stessa, non superata, per tutta la vita; la sessualità genitale mai pienamente raggiunta e goduta. L’eliminazione della balbuzie viene ritenuta quasi impossibile per le radici arcaiche di essa e per l’utilizzazione difensiva del sintomo.

Anche Sigurtà (1955, 1970) dà della balbuzie una visione più allargata, che non lega più il disturbo ad una regressione-fissazione ad un unico e determinato stadio dello sviluppo psicosessuale, ma la interpreta come un sintomo che può presentarsi in diverse forme nevrotiche, le quali esprimono problematiche a livelli diversi. La balbuzie si manifesta in quei casi in cui gli organi del linguaggio vengono investiti di significato tale da diventare il luogo più adatto per l’espressione del conflitto.
Per W. Bion (1967, 1970) il balbettare è un attacco al linguaggio in quanto legame fra paziente e analista. La formulazione verbale con la quale le esperienze vengono espresse viene mandata in frantumi dalle emozioni sottostanti che non riescono più ad essere contenute dal contenitore linguaggio, cosicché il significato che chi parla vuole esprimere viene spogliato di significato. Come per M. Klein, Bion riferisce, nella situazione clinica di balbuzie che riporta, l’investimento libidico masturbatorio della bocca.

E. Gaddini (1980) avvicina la balbuzie all’asma bronchiale, affermando che là dove la sindrome dell’asma non si è instaurata (fine del primo anno di vita), nel secondo anno di vita si può instaurare la balbuzie. La balbuzie quindi viene collegata alle sindromi psicofisiche datate che, secondo questo autore, si riferiscono ad una patologia della mente relativa al distacco e alla separatezza dall’oggetto primario materno. Esse esprimono in una sorta di linguaggio preverbale, concreto e presimbolico, quale è quello di un alterato funzionamento corporeo, un contenuto mentale difensivo. La connessione funzionale del parlare con il respirare viene usata dalla mente infantile per riattivare una delle prime esperienze della mente, quella del succhiare e del deglutire al seno in concomitanza con il respirare.

Renata Gaddini a sua volta (1980) sottolinea come nell’età in cui insorge la prima balbuzie, 2/3 anni, il mondo interno del bambino è pieno di contenuti sadici: tensioni dirompenti e fantasie distruttive. Secondo questa autrice, le tensioni che sono alla base dei sintomi che insorgono a questa età, come la balbuzie, sono di natura istintuale e quindi non tendono a risolversi da sole ma “urgono senza pietà” nel corso del crescere in relazione al rapporto oggettuale.
Anche Giannitelli, che aveva avuto a che fare come pedopsichiatra con questa patologia, in un articolo del 1976 aveva parlato di attivazione nella balbuzie di pulsioni pregenitali prevalentemente aggressive e distruttive sulla base di angosce traumatiche di separazione.La localizzazione somatica sulle prime vie aeree viene collegata all’iperinvestimento dell’aria sulla base della fissazione anale. Rifacendosi a Fenichel, questo autore suppone che “a livello del pensiero primitivo l’apparato respiratorio sembra diventare la sede dell’incorporazione degli oggetti alla stessa guisa di quello intestinale: alla stessa guisa si prendono e si ricevono sostanze dal mondo esterno, o si restituiscono, si ridanno ad esso”. Giannitelli sottolinea l’alternanza (nei casi da lui studiati) della balbuzie con le malattie respiratorie, entrambi come comunicazione di richiamo al rapporto per via somatica secondo modalità espressive non verbali.

R. Diatkine (1985) sottolinea che la balbuzie nel bambino non è un sintomo nevrotico nel senso stretto del termine, ma piuttosto una inibizione in una situazione di parola. Egli afferma che nei piccoli balbuzienti si ritrova con innegabile frequenza l’importanza delle fissazioni sadico-orali e delle relazioni pregenitali, in particolare dell’invidia, nel senso kleiniano del termine. Secondo questo autore, la balbuzie costituisce una debolezza nella relazione con l’altro, dove la disorganizzazione del linguaggio rappresenta il fallimento dell’identificazione primaria coi genitori. Quando nel bambino le organizzazioni preedipiche ed edipiche – che hanno partecipato alla labilità strutturale nel corso della quale si organizza la balbuzie – non evolvono positivamente, allora la balbuzie può fissarsi come sintomo nevrotico di varie forme psicopatologiche.

Nel 1999 Tomas Plänkers, nel discutere il materiale dell’analisi di un paziente balbuziente, formula una nuova ipotesi sulla psicodinamica della balbuzie facendo riferimento alla teoria del claustrum di Meltzer. Sostiene che il balbuziente si trova a far fronte ad esperienze intollerabili di separazione dall’oggetto primario e all’esperienza catastrofica della situazione edipica attraverso una fantasia inconscia nella quale l’odio predominante conferisce all’oggetto materno interno delle qualità anali. Lo spazio dell’oggetto sadico-anale di questo “claustrum” è proiettata sullo spazio dell’oggetto esterno, in modo specifico sulla bocca in quanto cavità involucro dei suoni che, secondo le teorie di D. Anzieu, viene considerata il vero primo spazio psichico; ne consegue la rottura delle parole. In parallelo, nelle relazioni d’oggetto ne consegue l’attacco al legame e il ritiro psichico, come Plänkers testimonia nelle vicende del transfert e controtransfert con il suo paziente.

Dal punto di vista psicoanalitico, dunque, la balbuzie è considerata un sintomo, indice di un disagio psicologico che ha addentellati nelle fasi più precoci dello sviluppo affettivo e che trova espressione a livello organico con una conversione dal conflitto psicologico alla funzionalità dell’organo (sistema respiratorio, articolatorio-fonatorio). E’ implicita l’idea di base di una stretta connessione fra l’espressione psichica e il substrato organico nell’individuo dove (citando A. Anzieu) il linguaggio costituisce l’adempimento dei processi di mentalizzazione che a poco a poco portano sulla via simbolica attraverso i labirinti somato-psichici e la dialettica Io/altro. L’origine del disturbo è dunque collocabile nelle fasi precoci dello sviluppo psichico, là dove l’aggressività è componente fondamentale dei processi di separazione e differenziazione di sé dall’altro e dove i processi di simbolizzazione ancora non sono completati.
All’aggressività è stata attribuita una grande importanza come fattore caratterizzante sia la manifestazione della balbuzie, sia la personalità del balbuziente. Il padre di un bambino portato a consultazione perché balbettava, spiegava che capiva benissimo il problema e la sofferenza del figlio, perché anche lui era stato balbuziente da ragazzo. Disse che non gli riusciva di pronunciare le parole specialmente quando era arrabbiato, perché gli pareva che una spada di fuoco gli uscisse dalla gola e andasse a colpire la persona alla quale parlava. Le parole di questo padre sarebbero molto piaciute a Fenichel, il quale scrisse che, nella situazione affettiva da cui si origina la balbuzie, le parole possono uccidere e i balbuzienti sono persone che inconsciamente ritengono necessario usare con cura un’arma così pericolosa.
L’aggressività è necessaria per mettere spazio fra sé e l’altro e stabilire i confini. Da un confine all’altro, quello spazio può essere percorso dalla parola quale espressione del pensiero e degli affetti, come un ponte segno di separazione e di relazione. Ma se l’aggressività invece che creare spazio produce distruzione, la parola non potrà mai essere espressa e il pensiero non potrà trovare evoluzione.

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Maggio 2014

Balconi Marcella
Balconi Marcella

Marcella Balconi

A cura di Raffaela Pagano

Marcella Balconi è stata, con Maria Elvira Berrini e Giovanni Bollea, uno dei principali fondatori della psicoanalisi infantile in Italia. Dal 1949 al 1980 ha diretto dapprima un servizio pilota di neuropsichiatria infantile, poi il reparto di Neuropsichiatria Infantile dell’Ospedale Maggiore di Novara. Nel suo centro si sono formati centinaia di psicoterapeuti ad indirizzo psicoanalitico che, a loro volta, hanno poi fondato e diretto altri centri con caratteristiche affini. Si può dire che molti dei reparti di neuropsichiatria infantile nati in Piemonte (ma non solo) siano sorti quasi per gemmazione dal reparto novarese diretto da Marcella Balconi.

Molti tra gli psicologi e i medici che hanno effettuato il tirocinio a Novara o che hanno lavorato in quel reparto di neuropsichiatria infantile, sono in seguito entrati nella Società Psicoanalitica Italiana. Anche Marcella Balconi era un membro della SPI.

Si era formata nell’immediato dopoguerra, dapprima attraverso uno stage nell’ospedale parigino di Sant’Anna, dove iniziò a collaborare con Serge Lebovici, poi lavorando nel centro medico-pedagogico di Lucien Bovet a Losanna, infine presso il Service médico-pédagogique di André Repond, nella località svizzera di Malévoz.

Il centro istituito da Repond era, in quegli anni, all’avanguardia in Europa e venne frequentato, tra gli altri, anche da Lebovici, Berrini e Bollea. Era un centro nel quale veniva richiesta una formazione psicoanalitica e Marcella Balconi intraprese un’analisi con N. Beno che si concluse nel 1953.

Ai tirocinanti che lavorarono nel suo reparto di Neuropsichiatria infantile, Marcella Balconi non richiese però mai di fare un’analisi personale, anche se appoggiò e sostenne la scelta di coloro che decisero di intraprenderla. Il suo obiettivo era quello di creare una struttura diffusa capillarmente nel territorio, gestita da operatori ai quali erano affidate mansioni diverse, con un processo di formazione permanente, sempre condotto, però, all’interno di un’ottica psicoanalitica.

Il ruolo e il peso di Marcella Balconi nello sviluppo della psicoanalisi non solo infantile in Piemonte e in altri contesti geografici è stato di assoluto rilievo, come testimoniano coloro che hanno avuto modo di formarsi e di collaborare con lei.(1) Di questa sua attività, condotta per quarant’anni nel centro di Novara, e poi attraverso un numero rilevantissimo di supervisioni negli anni successivi, restano però testimonianze scritte relativamente esigue. C’è infatti una assoluta sproporzione tra la mole di lavoro che Marcella Balconi svolse e i libri che ha scritto.(2)

Per spiegare questa discrepanza, si è detto di lei che fosse soprattutto una clinica e non una teorica. Il che, in parte, forse è vero. Ma è anche vero che non esiste una clinica senza una teoria. E viceversa.
E allora qual era la teoria alla quale Marcella Balconi faceva riferimento? I seminari che Marta Harris e Donald Meltzer tennero per molti anni nel centro di Novara, indussero alcuni a qualificarla come kleiniana. Il che, però, non è corretto.

“Non definirei Marcella Balconi una psicoanalista ortodossa – scrive Carla Gallo Barbisio – Non poteva essere collocata facilmente come kleiniana, annafreudiana, winnicottiana o altro: era se stessa”.(3)

BALCONI2In cosa consistesse questa sua singolarità analitica può essere dedotto, anche se solo a grandi linee, soprattutto da un breve testo pubblicato dai Quaderni di Psicoterapia Infantile nel 1984.(4) Era un numero della rivista dedicato proprio alla fondatrice del reparto di Neuropsichiatria infantile di Novara e al tema per lei cruciale dell’osservazione. Raccoglieva i contributi di molti collaboratori del centro novarese e si apriva, letteralmente, con la voce di Marcella Balconi. Il testo raccolto sotto il titolo di “Autobiografia scientifica”, infatti, non era stato scritto da lei, ma consisteva nella trascrizione di una intervista che Marcella Balconi aveva concesso nel 1980 a Francesco Scotti.(5)

In quell’intervista sono contenuti, pur se in estrema sintesi, i principali concetti teorici ai quali Marcella Balconi ha fatto riferimento per tutta la vita. Sono espressi in modo semplice e piano, con un linguaggio che non ha quasi nulla di tecnico, e ciò nonostante essi contengono spunti che sono di grande attualità e interesse nell’odierno dibattito teoretico in ambito psicoanalitico.

Sono concetti che riguardano il ruolo e la figura del terapeuta, i suoi rapporti con i pazienti, la trasmissione del sapere psicoanalitico, il metro di valutazione riguardo a normalità e patologia, gli strumenti e gli obiettivi della cura, il peso e l’incidenza della realtà esterna nel costituirsi del mondo interno.

Partirò proprio da quest’ultimo punto per descrivere in modo un po’ più approfondito il pensiero di Marcella Balconi. Lo farò ricorrendo a un aneddoto riportato da quasi tutti i suoi collaboratori. Quando un medico o uno psicologo veniva accolto nel reparto di neuropsichiatria di Novara, il primo approccio lavorativo consisteva in un “viaggio nella realtà”. Marcella Balconi portava i nuovi arrivati nei quartieri, nei paesi, nelle scuole e negli asili dove vivevano coloro che sarebbero stati i loro pazienti.(6) Il perché, lo spiegava in questo modo: “Non è solo il mondo interno l’oggetto del nostro lavoro, ma vi è, come elemento costitutivo, anche lo scontro con la realtà”.(7)

La necessità che la muoveva era quella di avere una visione globale: del contesto sociale e del territorio, del contesto famigliare e transgenerazionale e poi del singolo paziente nella sua totalità. Il punto di arrivo era quello di creare “una medicina di territorio di tipo longitudinale”(8).

Lo strumento primario di questo percorso, ovviamente, era l’osservazione: “Quando ho iniziato ad insegnare, tra le prime cose insegnavo proprio come osservare il bambino. Dicevo, fino a diventare noiosa: osservate bene il bambino che entra. Cominciate ad osservarlo fin dalla porta. Guardate come è vestito, guardate come è pettinato, come vi guarda, come muove le mani. Guardate tutto, perché solo così potrete avere una visione di insieme del bambino. L’osservazione vi dice se in famiglia è curato o non è curato, quali sono le condizioni economiche. Il suo sguardo vi rivela se vi vede come un amico o come un nemico. I movimenti hanno il profondo valore di esprimere quelle tensioni che ancora non si esprimono con la parola”.(9)

Era l’osservazione lo strumento che consentiva di cogliere l’essenza della relazione tra madre e bambino e quindi capire aspetti fondamentali della realtà interna del paziente. ” Se osservi una situazione a due, evidenzi tutti i rapporti che esistono tra quei due ed anche i fantasmi che quando il bambino è piccolo sono nella madre e quando il bambino è più grande sono nel bambino”.(10)

Ma, soprattutto, era importante, anzi, essenziale, il modo in cui si conduceva l’osservazione e lo spirito che animava l’atteggiamento del terapeuta.

“Nel nostro lavoro, osservare significa osservare la vita …. Quando osservi, vai incontro a dei rischi. Il primo è quello di devitalizzare l’oggetto di osservazione; poi di vedere solo una parte o un settore di realtà. Osservare vuol dire acquisire la capacità di vedere un insieme, un tutto unitario….tu devi avere sempre la carica umana che ti fa ricercare l’intero e non la parte: l’interesse per una persona viva, non per i pezzi di una persona. Quando incominci ad osservare in questo modo ti rendi conto di avere delle emozioni, di vivere il rapporto in un certo modo. Prendi coscienza che l’individuo che osservi è pieno di vita come te. Qui la psicoanalisi dà un serio contributo nel far vedere che le problematiche del tuo malato sono anche le tue. Incominci ad avere verso il malato quell’atteggiamento che è l’unico possibile se vogliamo portare avanti un discorso nuovo che è di rispetto dell’altro. Si instaura un dialogo per cui impari da lui e lui da quello che tu sai. Si stabilisce cioè un rapporto di parità. Io ho il compito di guarire il malato; il malato insegna a me a guarirne un altro o a migliorare me stessa”.(11)

La visione di Marcella Balconi sul rapporto con il paziente, e quindi sul ruolo e sull’atteggiamento del terapeuta, precorreva dunque alcuni degli spunti teorici che oggi sono oggetto di intenso dibattito.

Non stupisce che Marcella Balconi, pur essendo membro associato della SPI, non abbia mai voluto partecipare in modo più attivo alle vicende societarie. “A me bastava essere psicoanalista …. Il non essere membro ordinario mi lasciava un ampio margine di movimento”.(12)

Questo “margine di movimento” comprendeva anche la libertà di provare delle emozioni, di mettersi sullo stesso piano del paziente pur non cadendo nell’errore di una falsa simmetria, di ammettere che il paziente poteva insegnarci qualcosa anche riguardo al nostro stesso mondo interno. Non erano esattamente questi, i canoni ufficiali della psicoanalisi negli Anni Sessanta e Settanta.

Ma Marcella Balconi andava ancora oltre: “Quando ho iniziato a preparare persone per la psicoterapia, andavo contro corrente. Allora si parlava solo di analisi classica e si diceva che la psicoterapia deve essere fatta solo da persone analizzate. Io, al contrario, preparavo i giovani del servizio a fare la psicoterapia anche se non erano analizzati”.(13)

Ciò che la infastidiva era un concetto per molti versi élitario di psicoanalisi, che contrastava fortemente con il suo impegno politico e sociale.(14) Asseriva che la psicoanalisi doveva essere a carico di una istituzione e che non doveva comportare esborsi ingenti di denaro da parte dei pazienti. La speranza che la muoveva (e per la quale operava attivamente in prima persona) era quella di consentire a tutti, anche ai meno privilegiati, di poter usufruire di cure fino a quel momento riservate solo alle classi più abbienti.

Era la speranza di coloro che, come lei, avevano fatto la Resistenza e che volevano trasformare un Paese arretrato e classista in una democrazia moderna con un sistema di assistenza sanitario efficiente e diffuso capillarmente nel territorio. La scelta di formare psicoterapeuti anche non analizzati andava proprio in questa direzione: c’era molto lavoro da fare, e bisognava farlo in fretta. C’era bisogno di personale qualificato a svolgere funzioni psicoterapiche di base per le quali un’analisi personale non era da lei ritenuta indispensabile. Certo, chi, tra i suoi tirocinanti, poteva e sceglieva di intraprendere un’analisi personale, aveva tutto il suo appoggio. La sua immagine ideale dello psicoterapeuta non era affatto un’immagine riduttiva e sminuente. Al contrario. Nella sua ottica, non solo il terapeuta doveva avere il più alto livello possibile di conoscenze psicoanalitiche, ma doveva averne anche altre di carattere più generale: “Non credo sia possibile fare il nostro lavoro senza avere basi umanistiche: la conoscenza della storia, il piacere dell’arte. L’individuo non è mai avulso dalla società in cui vive, dalla storia del pensiero. Anche per la patologia vale questo legame con la cultura, con il costume”.(15)

In altri termini, non solo il terapeuta doveva operare in modo da avere una visione globale del paziente e del territorio in cui risiedeva, ma anche della società nella quale tutti, pazienti e terapeuti, vivevano.

La società nella quale Marcella Balconi incominciò a lavorare agli inizi degli Anni Cinquanta era una società nella quale non era neppure ben definito il concetto più elementare di patologia. Il bambino che “recava disturbo”, soprattutto se apparteneva ad una classe sociale bassa, aveva buone probabilità di vedersi rinchiuso in una istituzione che certamente avrebbe aggravato i suoi problemi. Il primo impegno di Marcella Balconi fu quello di organizzare uno screening capillare nella scuola primaria e negli asili: “Mi sono posta il problema di quali parametri di riferimento usavo quando dicevo che un bambino era normale o no. Mi sono detta: se vediamo tutti i bambini della nostra città, di una certa età, ci rendiamo conto delle problematiche di questa età. A partire dall’insieme della popolazione potremo dire chi è malato e chi è sano”.(16)

Poi, ovviamente, si trattava di curare chi ne aveva la necessità.
Il fatto che noi, oggi, consideriamo tutto questo quasi come scontato, significa che il lavoro svolto da Marcella Balconi è stato proficuo.

Credo che Marcella Balconi si sia dedicata quasi esclusivamente alla psicoanalisi infantile e non a quella degli adulti perché era convinta, e con ragione, che i bambini fossero i soggetti più deboli e che quindi abbisognassero maggiormente delle sue cure. Curare i bambini significava aiutarli a diventare adulti sani. Cioè a rendere la società, nel suo complesso, migliore.

Io credo però (ma questa è solo una mia ipotesi) che ci fossero anche altre ragioni alla base di questa sua scelta. Ragioni che forse hanno a che fare proprio con il tipo di rapporto che lei tendeva ad instaurare con i suoi piccoli pazienti, e cioè un rapporto, anche, emozionale.

Oggi questo non ci stupisce affatto, ma negli anni nei quali operava Marcella Balconi, il ruolo dello psicoanalista, e in particolar modo nel setting con gli adulti, le emozioni erano ufficialmente bandite. Una psicoanalisi classica, con il paziente sul lettino, non le avrebbe inoltre consentito di instaurare una relazione attraverso uno strumento che lei considerava fondamentale nella terapia con i bambini: lo sguardo.

Il “vedersi” era per Marcella Balconi il mezzo fondamentale attraverso il quale avveniva la comunicazione più profonda tra terapeuta e paziente: “Lo stare di fronte al terapeuta, seduti al tavolo, il poter volgere costantemente lo sguardo a lui e trattenere a loro volta i suoi occhi permette ai bambini una comunicazione che si fa man mano più intensa, dove si intrecciano lo sguardo, l’agire disegnando, il lasciarsi andare, il parlare, l’intendersi e il difendersi in un periodo evolutivo in cui l’espressione puramente verbale non può ancora essere mezzo privilegiato per comunicare sentimenti complessi”.(17)

Oggi noi sappiamo che il verbo non è affatto l’unico strumento di cui disponiamo anche nelle terapie con gli adulti. Anzi, ci siamo resi conto che la parola è spesso insufficiente e inadeguata per raggiungere traumi che sono avvenuti in ambiti psichici così arcaici da precedere la capacità di parola. Ampi filoni della psicoanalisi contemporanea si stanno muovendo in questa direzione. Credo che la psicoanalisi infantile, e con essa Marcella Balconi, ci abbia fornito indicazioni preziose sulla strada da percorrere.

E’ una strada nella quale non è più in gioco solo l’inconscio del paziente, ma, nell’ambito della relazione, anche quello dell’analista, a cui è richiesta una capacità di comprensione che va oltre la cosiddetta razionalità del livello conscio.

Per definire questa capacità di comprendere attingendo a risorse profonde che sfuggono a tutte le teorie codificate, noi a volte usiamo il termine di “intuizione”. Lo usava anche Marcella Balconi, ma senza attribuirgli alcunché di misterioso. “In realtà – diceva – l’intuizione si costruisce acquistando la capacità di osservare e poi di sintetizzare. Ad un certo punto, questo processo avviene con estrema rapidità. Esso viene chiamato intuizione solo da coloro che non si rendono conto della natura del processo. Tutti possono imparare ad avere intuizione”.(18)

E’ una affermazione rassicurante, ma niente affatto scontata. Chi ha avuto l’opportunità, ad esempio, di osservare la capacità quasi magica che Marcella Balconi aveva di “leggere” i disegni dei bambini, individuandone particolari e significati apparentemente invisibili, non può far altro che dubitare che questa attitudine possa essere in qualche modo insegnata e appresa.

Uno dei pochi testi firmati da Marcella Balconi è contenuto nel libro “Il disegno e la psicoanalisi del bambino”. (19) Ha come titolo “Il ciccione e il tetaccio” e riguarda i disegni di un bambino di quattro anni e mezzo, portato al servizio di neuropsichiatria infantile perché presentava problemi di linguaggio. Marcella Balconi ne analizza, commenta e interpreta i disegni. Lo fa servendosi della sua esperienza e delle sue capacità, ma, soprattutto, facendosi aiutare da quanto Paul Klee scrisse nei suoi diari e nel suo testo sulla teoria della forma e della figurazione.

La psicoanalisi, a partire da Freud, ha spesso interpretato il lavoro degli artisti. Ma è assolutamente inconsueto che uno psicoanalista assegni a un artista il compito dell’interpretazione.

Marcella Balconi lo ha fatto.

Nella sua autobiografia scientifica afferma: “Ho sempre insegnato tutto quello che sapevo”.(20)

Peccato che non tutto si possa imparare.

1) Vedi “Grazie Marcella”, Quaderni ArsDiapason 2009, che raccoglie, a dieci anni dalla sua morte, le testimonianze di molti di coloro che hanno lavorato con lei.
2) In “Grazie Marcella”, op. cit., Germana De Leo racconta che “nelle sue ultime settimane di vita Marcella Balconi si chiedeva se fosse il caso di rammaricarsi per non aver scritto e pubblicato con compiutezza il suo pensiero teorico e le sue esperienze di analista-neuropsichiatra infantile, avendolo affidato quasi esclusivamente alla trasmissione orale”. Pag. 12.
3) Ibidem, pag. 74.
4) “Quaderni di Psicoterapia infantile n. 4”, Borla Editore 1984, pagg. 8-20.
5) Ibidem, pag. 8.
6) “Mi disse che non avrei potuto fare bene il mio lavoro con i bambini in ospedale senza conoscere il contesto, senza rendermi conto delle diverse realtà da cui essi provenivano e in cui vivevano” . Carla Gallo Barbisio in “Grazie Marcella”, op. cit. pag. 70.
7)Quaderni di Psicoterapia Infantile n. 4, op. cit. pagg. 15-16.
8) Ibidem, pag. 11.
9) Ibidem, pag. 14.
10) Ibidem, pag. 14.
11) Ibidem, pagg. 18-19.
12 ) Ibidem, pag. 15.
13) Ibidem, pag. 15.
14) Marcella Balconi ricoprì in varie riprese e in più epoche il ruolo di assessore, di sindaco e anche di deputato al Parlamento nelle fila del Pci.
15) Ibidem, pag. 20.
16) Ibidem, pag. 10.
17) Marcella Balconi – G. Del Carlo Giannini, “Il disegno e la psicoanalisi infantile”, Raffaello Cortina Editore 1987, pag. 5.
18) “Quaderni di Psicoterapia infantile n. 4”, op. cit. pag. 19.
19) Op. cit.
20) “Quaderni di Psicoterapia Infantile n. 4”, op. cit. pag. 16

Balint. Il metodo
Stella Olivier, William Kentridge -  2017 

Stella Olivier, William Kentridge -  2017 

A cura di Mario Perini

I Gruppi Balint – così chiamati dal nome del loro ideatore, Michael Balint – sono un metodo di lavoro di gruppo destinato ai medici e alle altre professioni di cura e d’aiuto, che ha come scopi la formazione psicologica alla relazione con il paziente, la “manutenzione del ruolo curante” e la promozione del benessere lavorativo.

Chi è Michael Balint?

Nato a Budapest nel 1896, figlio di un medico di famiglia, dopo la laurea in medicina lavorò per qualche anno nel campo della biochimica. Si interessò alla psicoanalisi dopo aver assistito a una conferenza di Freud nel 1918 e grazie al fatto che la sua prima moglie, Alice, era una psicoanalista. Formatosi al metodo analitico con Sandor Ferenczi, un allievo di Freud, lavorò a Budapest come analista fino al 1939 e poi si trasferì in Inghilterra come rifugiato. Alla fine della guerra entrò a far parte dello staff della Tavistock Clinic di Londra, dove a partire dai primi anni ’50 iniziò, insieme con la terza moglie, Enid, ad occuparsi della formazione dei General Practitioner: nacquero così i gruppi di training che presero il suo nome, i Gruppi Balint. Nel 1957 uscì il suo libro più importante, Medico Paziente e Malattia, e da allora la formazione dei medici di famiglia inglesi venne profondamente influenzata dal suo metodo, che era noto anche come “medicina centrata sul paziente”.

I Gruppi Balint rappresentano una metodologia collaudata di formazione di gruppo, creata originariamente per l’addestramento psicologico dei medici di famiglia e adattata successivamente ad altre figure professionali. Nata all’interno di un modello delle cure fondato sul rapporto a due curante/paziente, è venuta nel tempo ampiamente trasformandosi e rimodellandosi per rispondere ai profondi mutamenti che nel corso degli ultimi decenni hanno cambiato il volto della medicina, delle cure primarie e del welfare, e che nel lavoro del medico di famiglia hanno gradualmente trasformato la relazione di cura in un insieme di relazioni di coppia, di gruppo e di rete, più complesse e più impegnative sia in termini professionali che per il loro costo emotivo.

Quali sono le premesse del metodo Balint?

Le premesse concettuali del metodo sono le seguenti:

1)  il “farmaco” più frequentemente prescritto è il medico, ma la sua farmacologia (l’azione terapeutica, la posologia, la tossicità, gli effetti collaterali, ecc.) è sostanzialmente sconosciuta;

2)  sebbene un’ampia quota del lavoro del medico di famiglia sia assorbita da casi “psicologici” la formazione medica non prevede nessun tipo di preparazione specifica;

3)  la medicina presta molta attenzione alla malattia e ai sintomi, molto meno alla persona malata, poco o nulla alla relazione medico-paziente, per quanto le vicissitudini di tale relazione siano così spesso causa di insoddisfazione e di ansietà per entrambi i partecipanti, oltre che fonte di frequenti errori diagnostici e terapeutici;

4)l’esperienza, il buon senso e la buona volontà non bastano a fare un buon medico;

5)il moderno sistema delle cure richiede al medico nuove competenze emotive e relazionali, senza le quali il suo lavoro corre il pericolo di diventare inefficace, rischioso e molto logorante

A chi è rivolto e come opera il metodo Balint?

Rivolto in origine essenzialmente ai medici di famiglia, per la specificità del loro lavoro, che si basa su relazioni di cura di lunga durata e spesso di  particolare intimità e intensità emozionale, questo approccio è stato esteso e proficuamente adattato anche a medici ospedalieri, infermieri, tecnici e professionisti sanitari, studenti in medicina, psicologi, assistenti sociali, educatori, magistrati, insegnanti, dirigenti di servizi e istituzioni sanitarie, socio-educative e di accoglienza residenziale. In termini generali il metodo si è rivelato utile per tutte le professioni che implicano una relazione d’aiuto (le c.d helping professions) essendo centrato

–          sull’indagine della relazione tra professionista e cliente;

–          sull’azione del gruppo come strumento facilitatore del pensiero;

–          su un apprendimento basato sull’esperienza e non solo sulla conoscenza intellettuale.

Quali sono gli obiettivi primari del metodo Balint?

Gli obiettivi che il metodo Balint si propone possono essere riassunti in quattro punti

a)Miglioramento della relazione di cura

b)Protezione del benessere lavorativo del professionista

c)Addestramento al lavoro di gruppo

d)Manutenzione del ruolo curante

Questi obiettivi sono tra loro strettamente interconnessi.

Infatti l’acquisizione da parte del medico di maggiori competenze emotivo-relazionali gli permette

a)un approccio al paziente più soddisfacente perché fondato più sulla relazione, sull’ascolto e sull’attenzione ai bisogni che sull’intervento e sulla prescrizione;

b)lo sviluppo di una speciale sensibilità che, aiutando il medico a comprendere meglio il paziente, le sue emozioni, il suo comportamento e il suo punto di vista sulla malattia e sul trattamento, riducono le tensioni nel rapporto e facilitano l’alleanza di lavoro;

c)una maggiore consapevolezza delle proprie reazioni emozionali in risposta ai comportamenti del paziente, con aumento della capacità di affrontare le ansie, evitando il ricorso ad atteggiamenti difensivi controproducenti, e lo sviluppo di relazioni di cura più efficaci, efficienti, governabili e gratificanti per entrambe le parti.

d)una più chiara comprensione dei processi di gruppo, delle dinamiche organizzative e delle relazioni di rete che influenzano il lavoro del medico e il suo benessere lavorativo.

Che risultati persegue una formazione col metodo Balint?

I risultati attesi sono i seguenti:

1.individuazione dei fattori emozionali operanti nella relazione e riconoscimento del loro ruolo nei processi di diagnosi e cura (elementi di solito poco affrontati nei corsi di formazione);

2.miglioramento della capacità di lavorare in gruppo, ovvero a crescere professionalmente imparando dalle proprie esperienze e da quelle degli altri, e a cooperare attraverso la gestione delle differenze e il governo dei conflitti;

3.miglioramento della qualità della comunicazione, particolarmente cruciale in un’epoca caratterizzata dal sovraccarico delle informazioni e dal trionfo delle tecnologie, a spese del “sistema umano di erogazione delle cure” e con una crescente disumanizzazione della medicina.

Il metodo Balint non si propone come uno strumento di management sanitario o di ottimizzazione delle risorse e nemmeno mira a trasformare i medici di famiglia in psichiatri o psicoterapeuti; tuttavia tra le ricadute positive che sono state osservate figurano anche vari miglioramenti nel sistema delle cure:

–          nel riconoscimento e gestione dell’errore e del rischio (per effetto della riduzione dell’ansia e del miglioramento delle relazioni collaborative)

–         nell’utilizzo delle risorse economiche (poiché una buona alleanza medico-paziente riduce la domanda e il ricorso a terapie farmacologiche e indagini diagnostiche inappropriate)

–          nell’aiutare i medici a prendersi cura con più soddisfazione dei loro abituali pazienti, riducendo così i fattori di stress e di burn-out.

Che cosa sono i Gruppi Balint ?

Sono lo strumento basilare della formazione secondo il metodo che abbiamo descritto.

Sono piccoli gruppi, mediamente di 6-12 partecipanti, centrati non tanto sulle dinamiche gruppali ma essenzialmente sul compito, cioè sulla discussione collettiva di un caso clinico “problematico” presentato da un partecipante con l’aiuto di uno o due conduttori. La discussione non verte primariamente sugli aspetti tecnici del trattamento come nelle clinical conference, ma sull’esperienza emotiva della relazione di cura da parte dei suoi protagonisti.

I gruppi hanno cadenze prefissate, di solito settimanali o quindicinali, durano circa un’ora e mezza e si protraggono nel tempo in media per un paio d’anni. La partecipazione, preferibilmente su base volontaria, può essere subordinata a una qualche forma di preselezione. Il materiale di discussione è costituito dal libero resoconto (non occorre una relazione scritta o la cartella clinica) su un caso clinico recente che abbia presentato delle difficoltà o abbia creato disagio al medico. La continuità del gruppo permette di seguire l’evoluzione dei casi presentati e di verificare nel tempo le ipotesi diagnostiche e le scelte terapeutiche. Particolare importanza è attribuita alla creazione di un clima di gruppo aperto e solidale, capace di promuovere una libera comunicazione tra pari, assicurando ai membri sostegno e sicurezza, ma anche permettendo la franchezza e la critica. Il metodo di conduzione del gruppo e quello di elaborazione del materiale clinico derivano in larga misura dalla psicoanalisi.

In origine a composizione omogenea (ad es. solo medici di medicina generale), sempre più spesso gli odierni GB sono di tipo disomogeneo, rispecchiando i recenti modelli di lavoro basati su team e su interazioni di tipo interprofessionale.

Chi sono i conduttori dei Gruppi Balint?

Di solito sono due, uno psichiatra o psicologo con formazione psicoanalitica affiancato da un medico di famiglia o altro professionista sperimentato in questo metodo. Il ruolo del conduttore del Gruppo Balint è quello di un promotore del pensiero collettivo, tutore della coesione del gruppo ma anche della sua libertà di parola e di critica, regolatore delle crisi, interprete dei processi psicologici che si rendono visibili nella discussione dei casi. L’accento è messo sul suo ruolo facilitatore, ben diverso da quello di un docente che fa lezione o comunque dell’esperto che trasmette a dei non-iniziati un sapere precostituito. Il gruppo viene così addestrato ad apprendere dalla propria esperienza, a rinunciare alle spiegazioni rassicuranti e a tollerare il dispiacere di non riuscire a capire e di non sapere che cosa fare, almeno fino al momento in cui diventi possibile avere una più chiara comprensione della situazione. Questo è ciò che Balint ha chiamato “il coraggio della propria stupidità”.

Che cosa NON può fare un Gruppo Balint

  • Non prescrive ai curanti “come fare” il proprio lavoro
  • Non fornisce ricette o facili risposte
  • Non è in grado di risolvere tutti i problemi che i curanti hanno con i loro pazienti
  • Non è una terapia di gruppo per operatori sanitari

Che cosa può fare un Gruppo Balint

  • Offrire ai curanti l’opportunità di riflettere sulla propria attività
  • Fornire uno sfogo e un contenimento alle ansie e alle frustrazioni generate dal lavoro
  • Risvegliare l’interesse di un curante per un paziente fino ad allora sentito come “difficile”, disturbante o insopportabile
  • Aprire la mente ad altre possibilità, sia nella diagnosi sia nella gestione quotidiana
  • Fornire supporto al ruolo curante e migliorare il dialogo con i pazienti, con le altre figure professionali e con le istituzioni implicate nel processo di cura
  • Aumentare nei curanti la soddisfazione lavorativa (job satisfaction) e nei pazienti la qualità percepita delle cure (customer satisfaction)
  • Promuovere benessere organizzativo e contribuire alla prevenzione del burn-out.
Bellanova Piero
Bellanova  Piero

Piero Bellavova

Maestri della psicoanalisi

A cura di Luisa Corda

Bellanova, Piero (Sant’Agata di Efeso, 1917 – Roma, 1987)

La vita

Piero Bellanova, personalità ricca e poliedrica, ha vissuto e rappresentato in pieno le principali correnti culturali della prima metà del Novecento ed è stato uno dei padri della psicoanalisi italiana. Attento studioso della relazione paziente-analista, si è dedicato con impegno alla divulgazione della psicoanalisi e ai rapporti con i mass-media. Ha ricoperto la carica di segretario della SPI dal 1966 al 1986 e quella di presidente dal 1986 al 1987, anno della sua morte.

Piero Bellanova nasce nel febbraio del 1917 a Sant’Agata d’Esaro, un paesino della Calabria. La madre, insegnante, muore subito dopo aver dato alla luce quel figlio tanto desiderato; il padre, direttore didattico dell’unica scuola del paese, dopo un anno dalla morte della prima moglie, si sposa in seconde nozze con un’altra donna, anch’essa insegnante e dalla quale non ha avuto figli, che Bellanova ha amato molto e dalla quale è stato sempre sollecitato all’amore per lo studio e per la musica. La notizia della morte precoce della giovane madre  mobilita il senso materno di molte madri del paese, che si offrono come balie del neonato; grazie a questa generosità generale il piccolo riesce a sopravvivere e a crescere sano e forte. Le figlie, Monica e Patrizia, raccontano che mentre visitavano il paese di S’Agata, dove tra l’altro Bellenova ha voluto essere tumulato, sono state fermate da tante donne che con orgoglio si presentavano come le “mamme di latte di don Pierino”. Il legame con il paese di Sant’Agata è sempre stato molto forte e significativo per lui: “.. la nostra casa è sempre stata aperta alle persone di Sant’Agata (…)” (ricordano Patrizia e Monica). Dopo aver concluso la scuola elementare nel paese, Bellanova ha vissuto sempre in collegio, lontano da casa,  prima presso l’istituto dei Padri Scolopi a Villa Sora – Frascati -, dove ha frequentato le scuole medie, poi a Cava dei Tirreni, presso l’Abbazia dei Benedettini, per studiare al liceo classico. Nel 1932, per una complicazione renale, muore suo padre, uomo molto severo; Piero aveva quindici anni. Due anni dopo si iscrive alla facoltà di Medicina a Roma, dove si trasferisce con la sua amata “mammetta”, che morirà poco dopo la sua laurea, nel 1941. Prese la sua  prima specializzazione in chirurgia estetica, in un periodo ancora molto precoce per questa branca della medicina. Accanto ai suoi interessi nel campo della medicina, ha sempre coltivato passioni in campo letterario e artistico; amava la pittura ed era pianista, attento esploratore del suono e abile accompagnatore di readings poetico-musicali. E’ stato sposato con la nipote del pittore Mario Sironi (1885 – 1961), Anna Madami, sua compagna di vita per quarantadue anni, dalla quale ha avuto tre figli, Patrizia, Marco e Monica.

Durante gli studi di medicina, a Roma, Bellanova ha conosciuto Filippo Tommaso  Marinetti (Alessandria d’Egitto, 1876 – Bellagio, 1944) poeta, scrittore e drammaturgo italiano, fondatore del movimento futurista, prima avanguardia culturale italiana del Novecento. All’artista è stato legato da una lunga amicizia, diventandone anche medico personale, condividendone le idee letterarie e partecipando attivamente al gruppo dei futuristi romani, fino a divenire uno degli esponenti più qualificati del movimento stesso.

Nel 1939, con Marinetti e Luigi Scrivo, Bellanova ha firmato il “Manifesto futurista del romanzo sintetico”, pubblicato su II Giornale d’Italia. Nel 1940, oltre a partecipare alla stesura del futurista “Manifesto dell’arte tipografica”, pubblica il primo romanzo sintetico italiano, Picchiata nell’amore, dedicato a uno dei suoi più cari amici, il pittore Enzo Caglianone.

Ecco alcune recensioni del romanzo:

“Piero Bellanova ha creato con il suo mirabile e divertentissimo romanzo sintetico futurista Picchiata nell’amore qualcosa di inaspettato e di sorprendente”   F.T. Marinetti (dal Giornale d’Italia)

“Opera viva ed originale degna di essere conosciuta da tutti coloro che si interessano all’arte italiana e all’evoluzione del futurismo”    Marco Cugiani (da L’Italia Giovane)

“Il primo romanzo sintetico futurista di P. Bellanova, il quale ha certamente una sensibilità finissima e ricca d’imprevisti, non può non mancare di incuriosire quanti credono nell’avvenire delle lettere con sicura fede”.  Ettore Settanni  (da Meridiano di Roma)

“Il romanzo Picchiata nell’Amore la cui sintesi è indiscutibile rivela in Piero Bellanova uno scrittore immediato, vivace e divertente nel senso ottimo della parola”    Marco Ramperti  (da L’Illustrazione Italiana)

“.. è il romanzo della gioventù moderna futurista, abituata alla guerra lampo, al vivere dinamico, all’immediatezza e al susseguirsi veloce dei fatti”  Gio Ponti    (da Domus)

Nel 1943, collabora alla stesura del Canzoniere futurista amoroso guerriero, Edizioni Futuriste, pubblicando, inoltre, un volume di poesie, l’”aeropoema” Bombardata Napoli canta, ultima prova estetica prima della fine della guerra, preceduto da un Aeropoema collaudo di Marinetti, con 4 tavole fuori testo di Prampolini, Benedetta, Dottori e Crali.

bellanova2Nel dopoguerra, dal 1945 al 1946, Bellanova ha fatto parte del Ministero per la Costituente, come segretario della Commissione Sanitaria. Accanto alla professione medica, ha sempre coltivato l’interesse per la psicologia: fu lui a istituire i primi Centri Psicotecnici per la selezione del personale nella Marina Militare, nell’Esercito, nell’Aeronautica e nella Polizia. Ha diretto il Centro Psicotecnico della Polizia dal 1952 al 1968.

L’amicizia con  Fabio Metelli (Trieste, 1907 – Padova, 1987) psicologoitaliano, considerato uno dei principali studiosi italiani di psicologia della Gestalt, insieme a Gaetano Kanizsa e Paolo Bozzi, lo ha  avvicinato alla Psicoanalisi; è dietro suo consiglio che farà domanda alla Società Psicoanalitica Italiana e inizierà la formazione. Nel 1956, terminato il training psicoanalitico con Emilio Servadio, entra a far parte della SPI per divenirne, dal 1966 all1986, segretario e poi, fino alla morte, avvenuta il 19 maggio del 1987, vicepresidente. Attento divulgatore della cultura psicologica e psicoanalitica, per molto tempo è stato capo redattore della Rivista di Psicoanalisi; molti i suoi interventi pubblici in RAI, sia in televisione sia in Radio. Nel 1958, entra a far parte dell’équipe socio-medico-psicologica dell’Istituto di Osservazione di Rebibbia che esaminava detenuti giovani–adulti (18-28 anni) condannati al terzo grado di giudizio, per studiarne il possibile inserimento lavorativo e ambientale dopo la scarcerazione.  All’università di Padova e in Roma ha tenuto dei corsi sul “Primo colloquio clinico”.  L’impegno solerte di trovare un appartamento unico che riunisse i due Istituti di training (costituiti nel 1962), quello di via di Villa Emiliani 4, di cui faceva parte Emilio Servadio, e quello di via Salaria 237b, di cui faceva parte Nicola Perrotti, lo rende il precursore di un’esigenza di integrazione sentita ancora oggi nei due Istituti di Roma. Grazie al suo prezioso lavoro di relazioni, cucito con l’allora Assessore alla Cultura (Nicolini), riesce ad ottenere in affitto l’appartamento di via Panama 48 dal Comune di Roma, tutt’ora sede e proprietà della Società Psicoanalitica Italiana.

Nel 1982, insieme alla moglie Anna, redige il libro “Le due Gradive”, dove raccoglie una serie di documenti che testimoniano l’inizio della psicoanalisi in Italia e l’attività della Società Psicoanalitica Italiana dal 1932 al 1982.

Il contributo alla psicoanalisi

foto bellanovafoto2“Psicoanalisipertuttalavita”, scrisse nella presentazione dell’omaggio di Sante Monachesi – pittore, scultore,  tra i fondatori del movimento futurista – al VI congresso della SPI nel 1984, come a rimarcare la sua profonda passione e dedizione alla psicoanalisi; freudiano convinto, Piero Bellanova ha contribuito attivamente, grazie al suo lavoro appassionato e intelligente, al diffondersi della cultura psicoanalitica in Italia. Di lui non abbiamo tantissimi scritti, ma le sue idee e il suo “fare analitico” hanno avuto un ruolo sicuramente importante per la nascita di pensieri e modi di lavorare innovativi. La  teoria,  per  Bellanova,  è  stata  sempre  strettamente  legata alla clinica, la sua capacità di sintesi e l’integrazione tra esperienze vissute e interessi teorici restano tra le sue qualità maggiori, come ha detto Amalia Giuffrida. Sosteneva fermamente che la relazione analista-analizzato fosse uno dei punti più importanti della terapia. La sua indagine si è focalizzata sulla particolarità del mestiere dell’analista e sulla “coppia analitica” al lavoro.

“Quando  parliamo della realtà psichica dei nostri pazienti non possiamo prescindere dal rapporto della coppia paziente-analista e da quanto questo rapporto trasformi la realtà psichica del paziente.Ne viene di conseguenza che l’unica realtà psichica che può costituire oggetto d’indagine dello psicoanalista mediante l’uso dello strumento psicoanalitico costituito dall’esplorazione dell’inconscio, è la realtà che viene a determinarsi e ad emergere dal rapporto della coppia terapeutica” (Bellanova et al., 1976).

La lunga pratica istituzionale si è intrecciata con i suoi interessi teorici, stimolando le sue riflessioni sul rapporto tra istituzione e setting; citando l’Autore “(…) l’Istituzione  (…) viene sentita da entrambi i componenti la coppia analitica a volte come protettiva, a volte come svalutante, sempre come un elemento costitutivo del rapporto,  tanto da far pensare a ciò che abbiamo ipotizzato come a una specie di doppio contenitore: cioè come un contenitore che contiene il setting che è già di per sé un contenitore” (ibid.).

Bellanova teorizzò sia gli aspetti cristallizzati che gli aspetti libidici tipici del rapporto istituzionale e capì, in linea con Bleger, quanto gli aspetti istituzionali possano in alcuni casi favorire l’insorgere di rigide “istituzioni interne”, ma quanto, nello stesso tempo, siano fondanti l’identità professionale.Il setting emana e si configura a  partire dagli aspetti istituzionali, condensa la polisemia simbolica contenuta in essi.

Con Emilio Servadio e Cesare Musatti  è considerato uno dei padri della psicoanalisi.

Bibliografia

  • 1940  Piero Bellanova, Picchiata nell’amore,  primo romanzo sintetico italiano futurista
  • 1943
  • 1965 Piero Bellanova, , Rivista di Psicoanalisi, Rapporti tra terapia ed espressione pittorica nell’analisi di un omosessuale;
  • 1976, Bellanova, P., Amati, J., Argentieri, S., Batini, M., Cargnelutti, E., Giordanelli, L., Paulin, P., Vergine, A., Zerbino, E. .Panel su “Realtà istituzionale e setting”: Gruppo di lavoro dell’Istituto Romano di Psicoanalisi. Rivista  di Psicoanal
  • 1980, Gianna Giuliani, Le strisce interiori: cinema italiano e psicoanalisi, prefazione di Piero Bellanova, Bulzoni, Roma
  • 1982, a cura di Piero e Anna Bellanova, , Le due Gradive, notizie sull’attività psicoanalitica Italiana 1932-1982, edizioni CEPI Roma
  • Piero Bellanova, Ascoltare le stelle, raccolta di poesie pubblicate postume nel 2010, Biblioteca- Fonoteca,CJC Editore

Poesia da “Ascoltare le stelle” (vedi bibliografia)

Notte Spazio

NOTTE SPAZIO

mare felpato di velluto nero

con spiagge squillanti

di fanfare d’argento

IL TUO AMORE

un palpito d’atomi leggeri

sulle tue ciglia bagnate di viola

IL MIO AMORE

colorare la vita

con le sfumature rosate della tua pelle

LE TUE LABBRA

due coralli in una goccia di luce

I MIEI SOGNI

ali incandescenti agganciati alle stelle

IL MIO DESIDERIO

diventare una nota musicale

Berrini Maria Elvira ( Mariolina)

A cura di Pietro Roberto Goisis

Maria Elvira (Mariolina) Berrini fa parte del gruppo di giovani medici che iniziano un’analisi con Cesare Musatti verso la fine degli anni quaranta. Lei sola però, nel gruppo, con l’intenzione già maturata di formarsi come psicoanalista di bambini. Come è arrivata alla psicoanalisi? quali le motivazioni che l’hanno portata poi a farsi organizzatrice di servizi di psichiatria di psicoterapia infantile?

Laureatasi a Milano in Medicina nel luglio 1943, aveva acquisito una solida preparazione clinica, ma i suoi interessi e progetti per il futuro erano andati orientandosi verso lo studio della psichiatria. Capiva che preferiva prendersi cura della “persona” con difficoltà e disagi psicologici. Lo studio del funzionamento della mente, della sofferenza e dei conflitti psicologici la affascinava. E d’altra parte aveva riconosciuto in sé una particolare facilità e disponibilità all’ascolto e al sostegno di persone in difficoltà. La colpiva la frequenza con cui veniva scelta dagli amici come confidente e come riferimento per la soluzione dei propri problemi e dei propri patemi sentimentali.

Subito dopo la laurea però il progetto di specializzarsi in psichiatria doveva venire accantonato. Cresciuta in ambiente antifascista e di sinistra si trovava subito attivamente impegnata nel movimento della resistenza. E’ partigiana e dal Comando Lombardo delle Brigate Garibaldi le vengono affidati compiti ispettivi per verificare in loco e sul campo i bisogni sanitari delle varie formazioni e le possibilità di farvi fronte, provvedendo all’invio di materiale sanitario e di medici ed infermieri. Sarà in Valtellina, in Valcamonica, nell’Oltre Pò Pavese e soprattutto in un Val Sesia e nel Cusio vivendo di volta in volta, sia pure per brevi periodi, l’esperienza di partigiana di montagna.

È stato per lei un periodo indimenticabile e importante, un’esperienza fonte di arricchimento e di maturazione. Come un uscire da una fase di tarda, spensierata adolescenza e prima gioventù per ritrovarsi più matura e responsabile, scoprendo anche in sé capacità organizzative prima insospettate che avrebbe poi messo a frutto nel suo lavoro. Si era iscritta al PCI di cui sarà soltanto un’attiva militante di base. Il suo desiderio di ritornare allo studio, agli interessi scientifici, al lavoro di medico si accompagnano ora ad una forte motivazione per l’impegno sociale.

Prenderà la specializzazione in pediatria e come pediatra incomincerà a lavorare nei consultori dell’OMNI. Ma soprattutto avrà la fortuna di trovare presto indicazioni precise per un’attività che le darà modo di integrare i suoi diversi interessi.

Nell’estate del 1946, appena entrata come volontaria del servizio di neuropsichiatria infantile dell’Istituto Neurologico di Milano, le verrà offerta l’opportunità di partecipare, con tanti giovani pedopsichiatri e psicologi di diversi paesi europei provati dalla guerra, alle prime settimane di aggiornamento organizzate a Losanna per la formazione di equipes medico-psicologiche per l’assistenza all’infanzia disadattata. A Losanna il corso è articolato in lezioni teoriche e in visite a istituzioni psichiatriche e a servizi per l’infanzia. Le lezioni sono tenute da psicologi allievi di Piaget, da pedopsichiatri illustri venuti da Parigi (Heuyer), ma anche da psicoanaliste che lavorano con i bambini nell’Office Medico Pedagogique della città. Mariolina Berrini viene così scoprendo un modo nuovo e affascinante di affrontare lo studio e la cura del bambino affettivamente disturbato o psichicamente sofferente: un modo nuovo in cui rigore clinico, fantasia e gioco, rapporto con la realtà sociale, si intrecciano e si integrano in un occuparsi psicoterapeuticamente non solo del bambino, ma anche del suo ambiente.

A Losanna è con lei Giovanni Bollea con il quale instaura un rapporto di amicizia basato anche sul comune impegno a realizzare in Italia servizi di psichiatria infantile quali sono venuti conoscendo in Svizzera, servizi che si chiameranno centri medicopsicopedagogici (CMPP) in analogia coi servizi svizzeri e francesi. E’ un progetto che coinvolgerà altri giovani medici e psicologi che saranno poi tutti i membri della SPI. A Novara Marcella Balconi, cugina di Mariolina con cui ha condiviso i giochi dell’infanzia, gli anni di università e l’esperienza partigiana. A Roma Adda Corti e Bartoleschi, allievi di Bollea. Sono questi gli amici con cui si stabilisce un rapporto di scambi e di solidarietà che è di aiuto nel difficile inizio della propria attività.

Perché non era davvero facile, specie a Milano, realizzare il progetto a cui ci si era impegnati a Losanna. Ci si doveva preparare e formare professionalmente nel vuoto di centri di formazione specifica e insieme farsi promotori e organizzatori di quei servizi del tutto nuovi in cui il lavoro in equipe e gli interventi psicoterapici e psicosociali erano centrali.

Erano proposte che allora, alla fine degli anni quaranta, non potevano non urtare contro resistenze da parte di una psichiatria accademica fortemente organicista e di un’assistenza neuropsichiatrica infantile incentrata sulle cure del bambino definito “anormale” e visto soprattutto come portatore di deficit intellettuali e di danni cerebrali che finiva per essere isolato in scuole speciali o in istituti. D’altra parte lo stesso clima politico e culturale che si era instaurato dopo il 1948 non era certo tale da favorire le iniziative di giovani psicoanalisti e per di più di sinistra.

Per la sua formazione Mariolina Berrini tornerà a Losanna, anche per un tirocinio pratico che la vedrà impegnata per alcuni mesi presso l’Office Medico Pédagogique. Altro punto di riferimento importante sarà Parigi. Vi si recherà una prima volta per un corso di aggiornamento nel 1947 e poi successivamente per uno stage presso il servizio del Professor Heuyer dove sarà seguita da Serge Lebovici con cui già si erano incontrati, lei e Marcella Balconi, nel 47. Da lui avevano ricevuto le prime indicazioni bibliografiche e soprattutto consigli e suggerimenti preziosi fra cui anche quello di entrare al più presto in analisi. In anni successivi, i seminari di analisi infantile che Lebovici organizzerà ogni anno a Parigi saranno l’occasione per incontri e scambi anche con i colleghi italiani che lavorano con bambini. Importante d’altra parte era stato entrare nel gruppo degli analizzati o analizzandi di Musatti: un gruppo che si ritrova in un clima di cordialità e di amicizia, che si aggiornava, che si formava. Compagni di studio saranno soprattutto Franco Fornari e Giancarlo Zapparoli che come lei si stavano specializzando in psichiatria.

Dopo gli anni ’40 e ’50, diventerà poi tutto più facile. A parte l’apertura di scuole di psichiatria infantile, di psicologia e di psicoterapia, non mancheranno occasioni di supervisioni e di seminari. Adda Corti, e dopo di lei Lussana, torneranno da Londra formati da un lungo training anche come psicoanalisti di bambini. E’ il periodo in cui più che alla psicoanalisi di lingua francese si fa riferimento alla scuola inglese e in particolare agli allievi di M. Klein (Winnicott, Bion, Rosenfeld, Meltzer, ecc.) e si sarà aiutati da E. Bick e da M. Harris ad “osservare” il lattante in famiglia. Gli inglesi scenderanno in Italia per seminari tenuti non solo all’interno della S.P.I. (si pensi ai primi seminari di Meltzer a Novara e a Perugia, ai seminari a Roma di F. Tustin, a Irma Pick, ecc).

A Milano, per l’avvio del primo C.M.P.P. (nel 1948 nell’ambito dei servizi dell’ONMI) le sarà di sostegno Virginio Porta, un illuminato psichiatra di adulti aperto a ogni proposta nuova in campo psicosociale. Con lui M. Berrini pubblicherà il suo primo lavoro sulla “Funzione dei test proiettivi nell’infanzia”.

Dopo questa prima esperienza otterrà dal Comune di Milano il nullaosta per l’apertura di un centro che si affiancherà ai servizi di NPI delle scuole speciali, ma con un taglio completamente diverso. Le condizioni logistiche non erano certamente delle migliori, sistemati in un seminterrato di una scuola di via Sondrio; ma lì, in quelle strutture che evidentemente erano collocate nel sottosuolo non solo per un significato metaforico di ricerca nel profondo, vennero iniziate le prime psicoterapie ed i primi trattamenti psicoanalitici per bambini. Il fatto di nascere come servizio specialistico della medicina scolastica crea però dei problemi. All’inizio, infatti, il centro tende a essere utilizzato dalla scuola, più che per una consulenza per meglio capire i bambini, come strumento diagnostico per la selezione di alunni ritenuti insufficienti e anormali, ma che si riveleranno il più spesso “disadattati” a una scuola che non sa rispondere ai bisogni dei bambini che vivono nelle condizioni sociali più sfavorevoli.

M. Balconi a Novara vive la stessa esperienza. Insieme decidono, negli anni ’50, di avviare un’indagine clinico-statistica sulla casistica dei due centri da loro diretti su di un campione di 1000 alunni segnalati già in prima elementare. Ricercano la correlazione tra il disadattamento ed i fattori ambientali, educativi e psichici ponendo al centro dell’indagine, che riveste un indubbio valore anche sociologico, lo studio delle diverse “strutture” psicologiche del bambino di 6/7 anni. Lo scritto “Diagnosi di struttura in psichiatria infantile” appare in quel momento altamente innovativo in Italia e tale da mutare profondamente, in senso psicodinamico, l’approccio nosografico, diagnostico e clinico.

Sono di quegli anni anche due lavori (Balconi, Berrini e Fornari) sui disturbi nelle “prime relazioni oggettuali”. In uno di essi viene presentato per esteso il primo caso di autismo infantile descritto in Italia, osservato e seguito in psicoterapia da M. Berrini proprio all’interno del C.M.P.P. Così la psicoanalisi era entrata in un servizio pubblico e con lei naturalmente le psicoanaliste. (Numerose sono le psicoanaliste della S.P.I. che, dai tempi pioneristici sino ad anni recenti, hanno lavorato nei servizi di M. Berrini. Impossibile citarle tutte. Va certo ricordata per prima M. Carati, poi Luciana Nissim e Anna Maria Pandolfi, e poi ancora Laura Schwarz e Adriana Pagnoni. Infine, le più “giovani” tuttora attive nell’Osservatorio di Psicoanalisi del bambino e dell’adolescente del Centro Milanese di Psicoanalisi. Numerose sono anche le psichiatre e le psicoterapeute, non S.P.I., formatesi come psicoterapeute anche attraverso un’analisi personale rimaste a tempo pieno nel servizio. Grande importanza verrà data anche alla formazione che non deve essere solo trasmissione di conoscenze, ma di uno stile, di un metodo di lavoro in cui devono congiungersi rigore, fantasia, curiosità intellettuale e culturale. Non vengono fatte mancare supervisioni individuali per chi ha casi in trattamento e per la formazione dei nuovi assunti. Ma acquista importanza soprattutto la settimanale riunione di “sintesi”, in cui in gruppo si impara a riflettere, affinando le proprie capacità diagnostiche e anche di osservazione e di ascolto, sul materiale che viene dalla “consultazione”. Dall’incontro con il bambino e da quanto egli comunica con le parole, col gioco, col disegno e con i test e dall’incontro con i genitori e dalla storia che si saprà ricostruire con loro intorno al figlio e a loro stessi e al gioco di interazioni che li lega. La consultazione, in fondo, ancor più degli interventi sociali, di consulenza e delle psicoterapie, potrà essere considerato l’intervento centrale e di elezione e finirà in molti casi per trasformarsi da momento diagnostico in rapporto psicoterapico vero e proprio anche con i genitori e soprattutto con la madre.

Sul piano organizzativo maturava intanto la consapevolezza, anche dopo l’apertura nel 1960 di un secondo centro, che per poter assolvere i propri compiti consultoriali e preventivi ogni C.M.P.P. doveva poter operare come “servizio di territorio”, in un contesto ambientale ristretto e definito e su tutto l’arco dell’età evolutiva dal periodo perinatale alla prima adolescenza. Venivano quindi avanzate proposte per un decentramento che anticipavano lo stesso decentramento amministrativo, ma che avrebbero potuto realizzarsi proprio con la suddivisione in “zone” della città. Quando lascerà il suo impegno organizzativo e di direzione, le grandi e affollate Scuole Speciali che all’inizio avevano schiacciato il piccolo e diverso C.M.P.P. saranno ormai chiuse e ridimensionate.

Nella prima metà degli anni ’70 M. Berrini sarà riuscita a organizzare e coordinare quattro C.M.P.P., operanti in maniera autonoma in altrettante zone della città e solo in esse. I Centri si chiameranno successivamente SIMEE, ma manterranno le loro finalità e caratteristiche, collaborando in senso preventivo anche con i nidi e con quella rete di servizi consultoriali di zona, pediatrici e familiari che la riforma sanitaria aiuterà a far nascere.

Sulle problematiche relative ai bisogni primari di contenimento e di contatto del neonato e alle angosce che possono accompagnare in casi limite la nascita ed i primi rapporti madre-figlio, M. Berrini, anche dopo aver lasciato la direzione dei suoi centri nel 1978, ritornerà, chiamata da F. Fornari, a seguire il lavoro delle sue allieve, all’interno dell’Ospedale Buzzi.

Vi è un filo, dunque, che dai primi inizi fino alla fine dell’impegno di lavoro di M. Berrini passa dalla Pediatria alla Psicoanalisi e viceversa, dall’attenzione al mondo interno, anche agli albori della vita, alla realtà sociale e alla “preoccupazione” perché si offrano cure e sostegno affinché la vita di un individuo possa iniziare, evolversi e compiersi nel modo più favorevole.

Con l’andata in pensione M. Berrini ha potuto dedicarsi con maggiore respiro al suo lavoro di psicoanalista di bambini e, negli ultimi anni, solo di adulti. Le piaceva ancora, alla soglia degli ottanta anni, lavorare intorno alla “consultazione psicoterapica con genitori e bambino” con un gruppo di giovani psichiatre e psicoterapeute di bambini impegnate nei servizi pubblici.

testo raccolto da Pietro Roberto Goisis nel 1998

Bi-logica
Giuseppe Pulvirenti, 2017

Giuseppe Pulvirenti, 2017

A cura di Alessandra Ginzburg

Inconscio, emozioni e strutture bi-logiche nel pensiero di Matte Blanco

Nella sua opera meno conosciuta, Pensare, sentire, essere, uscita postuma in italiano nel 1995, Matte Blanco propone due nuovi concetti rispetto a quelli presentati in precedenza ne L’inconscio come insiemi infiniti, veri e propri strumenti che si rivelano di grande attualità nell’esperienza clinica: l’antinomia fondamentale e le strutture bi-logiche.

Per quanto riguarda l’antinomia fondamentale, Matte Blanco ritiene che vi sia nella struttura dell’essere umano un’antinomia che deriva dalla co-presenza di due modi di essere fra loro incompatibili, l’uno emanazione del pensiero, in quanto istanza per eccellenza dividente, e l’altro emanazione dell’emozione, che tende invece all’unificazione e alla indivisibilità. Questi modi sono mutuamente anaclitici, vale a dire che svolgono la loro azione soltanto appoggiandosi l’uno sull’altro. Tenere conto di questa ipotesi aiuta l’analista a mantenere una costante attenzione al sostrato emotivo di tutte le affermazioni dell’analizzato e alla loro influenza nella formulazione di tutti i pensieri.

Le strutture bi-logiche sono il risultato più evidente di questa singolare co-presenza. Matte Blanco propone che ci troviamo di fronte ad una struttura bi-logica ( che afferisce contemporaneamente al modo asimmetrico e a quello simmetrico dell’uomo), quando scopriamo che la stessa realtà viene trattata simultaneamente da un lato come divisibile e formata da parti, dall’altro come se fosse una e indivisibile.

Inconscio e in buona parte anche l’emozione sono entrambi strutture bi-logiche, con il risultato che nella maggior parte dei casi ci esprimiamo utilizzando un intreccio più o meno rilevante della logica simmetrica con quella classica, un intreccio che Matte Blanco ha denominato bi-logica. Fa eccezione il pensiero matematico che, ad eccezione dell’infinito (anch’esso considerato da lui una struttura bi-logica), attinge unicamente alla logica basata sul principio di non contraddizione.

É necessario considerare che l’aspetto simmetrico, presente nelle strutture bi-logiche, opera, in virtù delle sue peculiari caratteristiche, in uno spazio di dimensioni maggiori rispetto a quello accessibile alla coscienza, che deve fare i conti con la propria tridimensionalità. Da questa limitazione deriva la necessità del linguaggio onirico di utilizzare i più svariati stratagemmi per evocare la multidimensionalità e l’infinito. Un infinito, da questo punto di vista, concepito come l’espressione del tentativo della modalità asimmetrica e dividente di trattare con l’indivisibile, rendendolo infinitamente divisibile.

Matte Blanco elenca diverse tipologie di strutture bi-logiche, fra cui la Alassi, in cui vi è un’alternanza di simmetria e di asimmetria, o la Simassi, in cui vi è simultaneità di simmetria e di asimmetria, entrambe rintracciabili soprattutto nei funzionamenti psicotici della mente. Ma le due strutture più significative ed immediate dal punto di vista dell’applicazione clinica e che quindi verranno qui trattate in maniera più estesa sono la struttura bi-logica stratificata e la struttura bi-logica tridimensionalizzata.

  1. La struttura bi-logica stratificata costitutiva

Tenendo presente una mente concepita come una sorta di cilindro composto di infinite stratificazioni che vanno da un massimo di asimmetria ad un grado crescente di simmetria, si può comunque, per semplificazione, limitare a cinque livelli il suo funzionamento.

Nel primo livello ogni oggetto, cosa o situazione è ben distinto da ogni altro. A questo livello esistono le più svariate relazioni di somiglianza e di differenza rispetto ad un gran numero di oggetti.

Nel secondo livello sono presenti emozioni più o meno coscienti, e quindi compaiono forme incipienti di simmetrizzazione, che possono avere le caratteristiche di una similitudine. Se dico che un tale è come una tigre, non intendo che lo sia concretamente.

Nel terzo livello abbondano le simmetrizzazioni che sostituiscono le classi di equivalenza: ogni individuo diventa a tutti gli effetti identico alla classe di appartenenza e ne acquisisce le potenzialità al massimo grado. Qui l’intensità dell’odio, ad esempio, tende a valori infiniti, e la temporalità viene meno. È questo il livello descritto ampiamente dalla Klein, che lo considerava il più profondo in assoluto. In genere è a quest’area che corrispondono i funzionamenti patologici più diffusi.

Nel quarto livello le classi diventano sempre più ampie ed onnicomprensive (ad esempio essere uomo diventa identico all’essere donna o bambino) e si attuano perciò simmetrizzazioni estese che comportano assenza di contraddizione e identità fra realtà psichica e realtà esterna. L’aggressività viene meno, il livello di patologia è considerevole.

Nel quinto livello il limite é l’indivisibilità, e la simmetrizzazione assoluta rende impossibile il pensiero che richiede perlomeno alcune relazioni asimmetriche. Ogni cosa diventa identica a qualunque altra, fino a divenire una sola cosa indivisibile.

Anche se i livelli sono ben differenziati fra loro, ogni strato è tuttavia presente in tutti gli altri che si avvicinano alla superficie. In particolare l’indivisibilità è sempre attiva anche se non sempre riconoscibile. Vale la pena di ricordare che sono sufficienti pochi anelli di simmetria in un ragionamento normale per determinare pericolosi pregiudizi. Negli stati confusionali, invece, ogni cosa tende ad identificarsi con un’altra fino ad impedire ogni forma di pensiero ordinato.

Ogni individuo ha le proprie simmetrizzazioni, determinate dalla storia delle proprie emozioni, che finiscono con l’essere un aspetto delle strutture mentali individuali. In un ragionamento o addirittura a livello percettivo, è possibile constatare che gli stessi anelli simmetrici sono funzione della storia dell’individuo, e che, sia a livello inconscio che nelle emozioni più intense, ognuno riferisce a sé stesso qualunque evento.

  1. La struttura bi-logica tridimensionalizzata

Questa struttura possiede un funzionamento visibile nei sogni o anche nella veglia, là dove predominano la condensazione e lo spostamento. Lo spostamento, infatti, implica la scissione di un individuo in due in cui l’aspetto spostato è contemporaneamente dentro e fuori della persona. In questo caso l’individuo è isomorfo ad uno spazio di più dimensioni che però deve essere tradotto in uno spazio di dimensioni inferiori, attraverso un’operazione di tridimensionalizzazione. Accade nei sogni, ad esempio che il soggetto sia rappresentato, di conseguenza, da più individui, che tutti si riferiscono a lui. Vi è simmetrizzazione perché più persone ne rappresentano una sola, ma non c’è identificazione apparente fra i diversi rappresentanti. Si tratta di una struttura bi-logica dissimulata, in cui attraverso la scissione-spostamento si ha una moltiplicazione dei soggetti. Nella condensazione accade l’opposto: quella che appare come una singola persona possiede in realtà le caratteristiche di più individui. Ancora una volta un essere isomorfo a più dimensioni viene trattato come se ne avesse soltanto tre.

Di fatto, osserva Matte Blanco, «emozione ed inconscio presentano le stesse violazioni della logica classica. Nessuno dei due è una pura espressione del modo indivisibile, ma entrambi ne sono altamente saturi». Ambedue, inconscio ed emozione, costituiscono la base generatrice della creatività e del pensiero.

Bibliografia

Matte Blanco(1988) Pensare, sentire, essere, Einaudi Torino 1995.

Bon De Matte Luciana
Bon De Matte Luciana

Luciana Bon De Matte

Maestri della psicoanalisi

A cura di Alessandro Grignolio

Foto d’archivio

Bon De Matte, Luciana ( Santiago del Cile  25. 5. 1931 – Roma,  02.5.2012 )

Luciana Bon De Matte, Psicoanalista con funzioni di training, trasferitasi dal Cile in Italia negli anni ‘60 insieme al marito, Professor Ignacio Matte Blanco ed alla sua famiglia, si era dedicata al lavoro con pazienti adulti, con bambini e con adolescenti mostrando notevole sensibilità e capacità di  ascolto, tema quest’ ultimo su cui ha formato intere generazioni di allievi ed analisti.

Donna di grande cultura, appassionata di musica e capace di lasciare un segno in chi la frequentava, ha lavorato molto sia per la Società Psicoanalitica Italiana sia al Centro Di Psicoanalisi Romano (CdPR), dove è stata Segretario Scientifico dall’82 all’86.

La contraddistingueva la passione autentica per la psicoanalisi nelle sue varie declinazioni: i pazienti, l’insegnamento, le supervisioni.

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La vita

Luciana Bon De Matte si laurea in Medicina e Chirurgia nel 1956 presso l’Università del Cile, si specializza in Psichiatria nel 1961 e nel 1965 entra nella Società Cilena di Psicoanalisi. Giunta in Italia, è Membro Associato della SPI dal 1967  e Membro Ordinario dal 1979,  Analista con Funzioni di Training dal 1984. Svolge la sua attività in istituzioni pubbliche e private, è professore a contratto di Psicoterapia dal 1995 presso la Scuola di Specializzazione in Psichiatria – Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università Cattolica del “Sacro Cuore” di Roma. E’ stata didatta e Membro Onorario dell’ Associazione Psicoanalitica Infantile (AIPPI).

Il contributo alla Psicoanalisi

Luciana Bon De Matte propone un vivace ripensamento personale dell’impianto psicoanalitico, lungo la direttiva Freud, Klein, Bion, alla luce di una vasta esperienza clinica e della propria sensibilità personale, con una costante apertura al nuovo e una profonda fedeltà agli stimoli, ai dati, alle intuizioni e alle riflessioni emergenti dal contatto con pazienti, allievi, colleghi. I frutti di questa elaborazione si sono riversati in intuizioni originali e stimolanti nel campo della tecnica con bambini, adolescenti  e adulti.

Fare lo psicoanalista, essere psicoanalista: questa è una distinzione significativa che Luciana Bon De Matte propone in una delle sue conversazioni e che sembra condensare molto del suo pensiero – più che mai attuale – sulla tecnica analitica. Una spiccata peculiarità di fare sentire l’altro unico, capace di alimentare e sostenere il piacere dello stare insieme e della relazione. La personalità è pensata come complessa e a livelli multipli, compresenti e simultaneamente funzionanti e più o meno integrati tra loro.

La cosa che più colpiva, si può leggere nell’intervista a cura di Carla Busato Barbaglio , era il suo andare sempre in modo originale al cuore del problema senza perdersi in aspetti non essenziali. Puntuale, mai scontata. In profondo ascolto emozionale e intuitivo, libera da paludamenti teorici vincolanti pur avendo una solida fondazione. Tutto era studiato, pensato, teorizzato e ripensato nuovamente divenendo così un gesto. La sua fonte permanente di studio e riflessione era la vita. Per Luciana Bon de Matte ogni evento che si produce fuori o dentro la stanza di analisi viene inevitabilmente attribuito al significato o agli effetti della relazione analitica. Il passato viene utilizzato per comprendere il presente ed il transfert viene perciò vissuto intensamente dall’analista e non necessariamente interpretato. La funzione analitica si esprime nell’accompagnamento della persona verso la comprensione progressiva del proprio funzionamento mentale operando con ritmi che il paziente è disposto a darsi, lavorando nel transfert attraverso un collegamento emozionale con l’altro teso a salvaguardare gli aspetti del paziente che funzionano per non aggravare ulteriormente la persona sofferente.

La persona è vista nella sua totalità con un’attenzione particolare alla valorizzazione di una corporeità fatta di sensazioni e di emozioni prima ancora che di pensieri. Una spiccata attenzione alle potenzialità ed alle risorse psicologiche che restano inespresse che la colloca a pieno titolo nel panorama clinico-teorico contemporaneo senza per questo tralasciare quegli aspetti della personalità rimasti inesplorati che attraverso l’indagine psicoanalitica potranno essere portati alla luce aprendo un dialogo ricco e fruttuoso all’interno di sé.

Il suo pensiero suggerisce il passaggio da una tecnica basata su una teoria del conflitto, che prevedeva un osservatore il più possibile neutrale, a una pratica clinica di valorizzazione delle esperienze vissute dalla coppia analitica, modello questo che ha comportato un ampliamento degli orizzonti clinicio-teorici in molte direzioni.

Bibliografia

1)Bon De Matte L. 1970. Introduzione allo studio della identificazione proiettiva. Psiche 7, I: 37-48.

2)Bon De Matte L. 1988. An account of Melanie Klein’s conception of projective identification. In Matte Blanco I. Thinking Feeling and Being. Routledge, London. Traduzione in Italiano: Einaudi Editore, Torino 1995.

3)Bon De Matte L. 1989. Una forma di scissione nella situazioni arcaiche della psicoanalisi clinica. In Bazzi C., Belletti F., Panzini V. Editors: Alla ricerca del bambino perduto. Come , dove, perché . Edizioni Unicopoli.

4)Bon De Matte L., Durst M. 1991. Melanie Klein. In Novecento filosofico e Scientifico, volume quarto, Marzorati Editore, Milano.

5)Bon De Matte L. 1994 pp. 9-15. In Ferrari A.B. Adolescenza la seconda sfida. Borla, Roma. Traduzione in Portoghese.

6)Bon De Matte l. 1996. Considerazioni sull’analista al lavoro. In Candelori C., Dolore mentale e conoscenza. Edizioni Cosmopoli, Roma.

7)Bon De Matte L. 1998. Anorexia Syndrome in Adolescence and Anorexia. In Bria P., Ciocca A., De Risio S. Editors, Psychotherapeutic Issues on Eading Disorders. Società Editrice Universo, Roma.

8)Bon De Matte L. 1998. Felicità, una difficile conquista. In Psyche 2,6: 89-95, Borla, Roma.

9)Bon De Matte 1998. L’idea dell’inquietudine. In Cent’anni di Psicoanalisi. Micromega, 3 pp. 209-217.

10)Bon De Matte L. 1999. Elementi di bi-logica nel lavoro clinico con bambini e adolescenti. In Bria P., Oneroso F. Editors, L’inconscio Antinomico, Sviluppi e prospettive dell’opera di Matte Blanco. Franco Angeli, Milano.

11)Bon De Matte L. 2004. Mito e gioco nella psicoanalisi infantile, in: Bria P., Oneroso F.

Collegamenti in rete:

Intervista a Luciana Bon de Matte (di Carla Busato Barbaglio – 2009)

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Bon De Matte, Luciana

Psychoanalyst with training function, Luciana Bon de Matte moved to Italy in the 60s from Chile with her husband, professor Ignacio Matte Blanco and his family.  She worked with adult patients, children and adolescents showing high feeling and ability to listen, the latter being a subject on which she trained generations of students and analysts.
A woman of great culture, with a strong passion for music and able to leave a mark in audience’s mind. She has worked extensively for the Italian Psychoanalytical Society and the Center for Psychoanalysis Romano (CDPR), where she was Scientific Secretary from ’82 to’86. She was characterized by a genuine passion for psychoanalysis in its various forms, towards patients, teaching, and supervision.

Life

She graduated in Medicine and Surgery in 1956 at the University of Chile before specializing in Psychiatry in 1961, becoming member of the Chilean Society of Psychoanalysis in 1965. In Italy she was Associate Member of the SPI since 1967 and Ordinary Member from 1979, obtaining the Training functions in 1984. She currently carries out her activities in public and private institutions being Visiting Professor of Psychotherapy (1995) at the School of Specialization in Psychiatry – Faculty of Medicine, Catholic University “Sacro Cuore” of Rome. She has been both Teaching and Honorary Member of the Child Psychoanalytic Association (AIPPI).

The contribution to psychoanalysis.

Luciana Bon de Matte offers a helpful rethinking psychoanalytic theory, along the tradition of Freud, Klein and Bion.  A woman of great clinical experience and personal sensitivity, with a constant openness to new and emerging insights from contact with patients, students, colleagues. Her elaboration has produced original and stimulating insights in the field of practice with children, adolescents and adults. Making the psychoanalyst, being a psychoanalyst: this is a significant distinction that Luciana Bon de Matte offers in one of her conversations and that seems to condense much of her thought – more relevant than ever – on the analytical technique.

She always shows a remarkable peculiarity to make feel the other relevant, able to feed and sustain the pleasure of being together and of the relationship itself. Personality is thought as complex and of multiple levels, coexisting and simultaneously functioning, more or less integrated. The most striking thing, you can read in the interview by Carla Busato Barbaglio (link to the interview: From the center of Psychoanalysis Romano an interview to Luciana Bon de Matte), it was her strong attempt to find  an original way to reach the heart of the problem, without getting lost in non-essential details.

Creative but at the same time with a solid theoretical and clinical training, everything was studied, thought, and theorized, thus becoming a gesture.

Her permanent source of study and reflection was life. For Bon de Matte each event that occurs inside or outside the room of analysis is inevitably attributed to the meaning or effect of the analytic relationship. The past is used to understand the present and the transference is then intensely experienced by the analyst, without being necessarily interpreted.

The analytic function is expressed in the accompaniment of the person towards the progressive understanding of its mental functioning, working with rhythms that patient is ready to give himself, working in the transference and looking for an emotional connection with the patient’s mind.

The person is seen in its totality and in its potential and the aspects of personality that remained unexplored by the psychoanalytic investigation can be brought to light by opening up a rich and fruitful dialogue within himself.

Her thinking suggests the shifting from a technique based on a theory of conflict, which included an observer as neutral as possible, to a practice of enhancing the experiences lived by the analytic pair, a model that favoured an extension of the clinical and theoretical horizons in many directions.

Borderline

A cura di Gabriella Giustino

Il disturbo borderline è il più comune tra i disturbi di personalità ed è caratterizzato da un notevole impoverimento del funzionamento psicosociale e da un ampio utilizzo di trattamenti psichiatrici e/o psicoterapeutici. Il termine borderline inizialmente indicava una patologia che si colloca “al confine”  tra nevrosi e psicosi. Più recentemente tale termine  è apparso meno adeguato per la descrizione di questa complessa psicopatologia.  A tale proposito A. Correale (2012) ha proposto il termine “borderless” per sottolineare maggiormente  “ l’assenza di confine”  che si esprime con la ben nota disforia ed impulsività dei soggetti affetti da questo disturbo.

Secondo la diagnosi del DSM-IV il disturbo borderline è caratterizzato da una pervasiva instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’umore, da sentimenti cronici di  vuoto e di abbandono, sintomi dissociativi e rabbia immotivata ed intensa.

Altri criteri importanti per la diagnosi sono: la facilità agli agiti (spesso secondaria ad impulsività ed umore disforico), l’intolleranza alle frustrazioni, lo scarso controllo e consapevolezza delle emozioni, la difficoltà a percepire emotivamente l’altro e l’incapacità di identificarsi con esso,  la tendenza a sviluppare manifestazioni transferali burrascose.

Oltre alle configurazioni sopra menzionate va aggiunta la propensione, in forme e gradi diversi, dell’uso della sofferenza in senso vittimistico e vendicativo/rivendicativo in vista di un ipotetico risarcimento.

E’ utile affiancare a questi parametri l’individuazione  di specifici aspetti di carattere processuale che, a partire da situazioni traumatiche intese come fattori dinamico-etiologici fondamentali, strutturano la personalità del paziente colonizzando la sua mente con specifiche organizzazioni psicopatologiche (così come descritte da  vari autori tra cui Rosenfeld,  Meltzer e Steiner).

La ricostruzione della storia emotiva del paziente mostra spesso come queste organizzazioni mentali siano il risultato d’antiche situazioni d’intollerabile scacco evolutivo che, trasformandosi da situazioni traumatiche in stabili tratti di personalità, mantengono inalterate le condizioni di sofferenza del paziente in una posizione di estrema confusione interna determinando l’impossibilità di raggiungere ed utilizzare la posizione depressiva.

Da questo punto di vista è importante evidenziare che il trauma  si manifesta prevalentemente sotto  la forma d’assenza di risonanza e ricettività emozionale (o in alternativa  intrusività)  da parte degli oggetti primari di relazione. Il deficit di sviluppo dell’inconscio inteso come funzione che permette di comprendere le emozioni proprie e degli altri è  dovuto spesso nei borderline, a tali traumi precoci e ripetuti. In questi pazienti sono inoltre frequentemente osservabili stati di “dissociazione” mentale. Tali stati potrebbero essere definiti come un meccanismo di disintegrazione parziale del Sé (Winnicott, 1986),   una fuga  verso la fantasia dissociata ad occhi aperti.

Infine, per quanto concerne  la comprensione del disturbo (e la sua cura) è centrale nei pazienti borderline anche la condizione di deficit di sviluppo della mentalizzazione.

Il termine mentalizzazione è stato usato per la prima volta da P. Fonagy nel 1989 proprio per la comprensione della psicopatologia dello sviluppo della personalità borderline.

La mentalizzazione è una forma di attività mentale immaginativa che riguarda sé stessi e gli altri e che permette di comprendere e spiegare il comportamento in termini di stati mentali intenzionali (per es. bisogni, desideri, emozioni, credenze e motivazioni).

Nello sviluppo normale, la madre e il bambino sono coinvolti in un processo intersoggettivo che implica la comunicazione di stati affettivi  in cui la madre ha un ruolo vitale nel regolare,  modulare e rispecchiare adeguatamente gli stati emotivi del figlio. Da qui la necessità che il terapeuta si ponga come nuovo oggetto trasformativo per il paziente borderline che può riuscire  a trovare se stesso nella mente dell’analista inteso come essere pensante e capace di sentimento. Una rappresentazione che non si è mai totalmente sviluppata nella prima infanzia e che, probabilmente è stata in seguito ulteriormente danneggiata da esperienze interpersonali dolorose.

Bibliografia

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Winnicott DW (1986)  Il bambino deprivato Cortina Editore, Milano.

Approfondimenti

REPORT: 2° seminario di ricerca sulle patologie borderline, 24 novembre 2012 MILANO

Bordi Sergio

Maestri della psicoanalisi

A cura di Pier Christian Verde

Bordi, Sergio (Roma, 1929 – Roma, 2006)

Sergio Bordi nasce l’8 gennaio 1929 a Roma, dove muore nel 2006, all’età di 77 anni.

E’ considerato uno dei più autorevoli membri della Società Psicoanalitica Italiana per il contributo da lui portato, sul piano della clinica e della teoria, al rinnovamento della psicoanalisi italiana. Il suo interesse, nell’esaminare e nel discutere il variegato panorama teorico offerto dalla psicoanalisi, è sempre stato rivolto a sviluppare una visione ampia e attenta dell’insieme del pensiero analitico, indagando lo sviluppo e la storia della psicoanalisi a livello internazionale. Bordi può essere considerato un pioniere nell’aver indirizzato la ricerca, rigorosa sul piano teorico e clinico, verso l’approfondimento degli elementi di contatto tra i diversi orientamenti analitici.

La vita

Dopo aver svolto gli studi classici, si laurea nel 1952, a 23 anni,  in Medicina e Chirurgia presso l’Università “La Sapienza”, dove si specializza in neuropsichiatria all’età di 27 anni.

Negli anni universitari nutre un vivo interesse per la politica, si iscrive al Partito Socialista; è membro del comitato scientifico dell’Istituto Gramsci per circa 15 anni.

Comincia la professione di psichiatra, lavorando con passione nell’ambito pubblico all’ospedale “Santa Maria della Pietà” e contemporaneamente inizia un’analisi personale e successivamente didattica con Nicola Perrotti.

Bordi si dedica alla professione di psicoanalista, lasciando dopo otto anni l’esperienza istituzionale.

La traccia della sua formazione giovanile si manterrà nel corso di tutta la sua vita di studioso e di psicoanalista: il forte impegno nell’ambito analitico, caratterizzato dalla passione per la clinica e dal fervido interesse nel lavoro scientifico all’interno della Società Psicoanalitica Italiana (SPI), è stato infatti  accompagnato con continuità  dal contatto con il lavoro istituzionale.

All’interno della SPI Bordi svolge le funzioni di analista di training e partecipa a molte iniziative in ambito nazionale e internazionale; favorisce nella SPI il disporsi al dialogo e all’apertura scientifica, contribuendo a mettere in contatto la psicoanalisi italiana con la cultura internazionale, psicoanalitica e non. Collabora, all’inizio degli anni ‘70, alla traduzione italiana e alla presentazione degli scritti di W. Bion e partecipa attivamente allo scambio teorico e clinico con psicoanalisti della società psicoanalitica anglosassone, tra i quali E. Brenman, M. Harris, D. Meltzer, H. Segal. In particolare, l’attività di supervisione svolta da Herbert Rosenfeld sarà da lui riconosciuta come decisiva per la sua formazione clinica.

Con il Servizio Pubblico, Bordi collabora dagli inizi degli anni ‘80 come consulente per la formazione e supervisore. E’ uno degli psicoanalisti che, con l’apertura dei Centri di Igiene Mentale, in seguito all’applicazione la legge Basaglia, intuisce la potenzialità dello scambio tra pubblico e privato, per l’approfondimento teorico e clinico del modello psicoanalitico. Nell’analizzare i rapporti che intercorrono tra psicoanalisi e psicoterapia nel pubblico, Bordi è attento alla distinzione tra traguardo conoscitivo e traguardo terapeutico, e a come il metodo debba essere sperimentato con gli elementi distintivi dei singoli pazienti. Bordi sottolinea la  complessità della professione dell’analista, di colui che porta nel setting l’esperienza maturata in diversi contesti di formazione e cura.

Il contributo alla psicoanalisi

Bordi, nella sua teorizzazione, propone di esplorare i “common grounds”, i territori comuni, cercando di approfondire le connessioni della psicoanalisi con il contesto contemporaneo, teso al dissolvimento dei precedenti orizzonti culturali e ideologici. Bordi con il concetto di “common ground” evidenzia la necessità di riconoscersi uniti nei territori comuni della pratica e della teoria clinica, mettendo da parte tutte le teorie generali. “La vita odierna – dice Bordi – ha imposto la necessità di amalgamare una moltitudine di identità e di culture diverse, ha fatto cadere i preesistenti principi di coordinamento, di valori centrali e di autorità centrali” e quindi, con la sua indicazione di chi si orienta sul presente per coglierne le potenzialità ancora inespresse, invita a entrare in campo, in un confronto con “l’irriducibile fisionomia multidimensionale e pluralistica del mondo contemporaneo”.

Bordi sottolinea inoltre la contraddizione che intercorre nel rapporto tra la psicoanalisi e il clima circostante del contesto contemporaneo: da un lato la psicoanalisi ha aperto le porte al postmoderno attraverso la valorizzazione della libertà interiore, dall’altro è rientrata negli schemi della modernità, contribuendo a fissare l’identità del soggetto entro i confini del sistema di controllo. Il termine postmoderno sta a designare la posizione in cui si pone il mondo contemporaneo dopo aver giudicato irrealizzabile il progetto di progresso sociale e di emancipazione individuale portato avanti dalla modernità, in quanto i fondamenti della ragione “occidentale” al quale il progetto si affidava, hanno prodotto un sistema di controllo burocratico che contrariamente alle premesse, manipola e limita ogni espressione individuale legata alla creatività e all’immaginazione.

Questo stato di cose è stato condensato nel dualismo “postmodernizzare la psicoanalisi”, che vede proposte, come quella di G.Kelin, di abbandonare la metapsicologia o quella di R.Schafer, di usare il linguaggio d’azione e “psicoanalizzare la postmodernità”, caratterizzata dall’insieme delle risposte che la tradizione empirista cerca di dare alle tendenze di una visione della soggettività come “coltre rappresentazionale” di una trama intra- e intersoggettiva. Infatti, secondo Bordi, le risposte postmoderne ai problemi psicoanalitici, nel mettere in discussione il realismo del pensiero positivista, hanno sempre più sviluppato una concezione secondo cui le proprietà “oggettive” presenti nel mondo esterno riflettono due processi culturalmente fondati: il processo di costruzione soggettiva dell’esperienza e il processo di significazione dell’esperienza attraverso il linguaggio. Bordi sottolinea l’importanza di interrogarci entro quali condizioni, preferenze e credenze si svolge il nostro approccio alla conoscenza che costruiamo.

Alla luce di ciò la ricerca assume una funzione di primo piano per la teoria e la clinica psicoanalitica. In particolare la ricerca infantile, fondata sul metodo induttivo e condotta su dati osservabili (sui quali si fondano ipotesi destinate a ricevere conferma) si basa sul criterio di “corrispondenza”: i dati a disposizione dell’analista sono invece manifesti solo per la parte espressiva della comunicazione, fondandosi sul criterio di “coerenza”.

Bordi sottolinea la necessità di tenere viva la tensione tra il criterio della corrispondenza e quello della coerenza ed evidenzia come un tale accostamento, assai significativo per il metodo psicoanalitico, l’abbia spinto ad approfondire la “rappresentazione mentale inconscia”. In tal senso Bordi apre a un confronto tra la concezione tradizionale e quella che si profila alla luce delle scoperte del cognitivismo, della teoria dell’attaccamento, della psicologia dell’età evolutiva e della psicoanalisi relazionale. Bordi sottolinea diversi punti di convergenza: la regolazione, nell’interazione e nell’incontro; i momenti di fallimento e di recupero; i processi che intervengono a favorire l’integrazione tra momenti di riunione e di separazione.

E’ moderna, rigorosa e stimolante l’indagine che Bordi ha svolto nel campo del pensiero analitico per circa cinquanta anni, da studioso rigoroso e appassionato clinico, la sua azione è diretta a favorire l’apertura della psicoanalisi italiana al contatto con lo scenario internazionale e ad attivarne l’interesse e la curiosità verso le diverse concettualizzazioni prodotte da altre scuole,  in primis quella anglosassone e da diverse discipline, in particolare la filosofia, la biologia e le neuroscienze.

Un particolare approfondimento è sviluppato da Bordi sullo statuto epistemologico della psicoanalisi e dei cambiamenti intercorsi, a partire della fine degli anni ‘90, nella stessa epistemologia nel percorso di avvicinamento tra scienze della natura e scienze della cultura e nello sviluppo dell’intersoggettivismo e della cultura della ricerca.

Anche l’approfondimento dei rapporti tra psicoanalisi e psicoterapia Bordi ci riporta nel vivo del concetto del “common ground”, e rinvia all’importanza di sviluppare un territorio comune di condivisione e di approfondimento delle diverse teorie e tecniche e della loro possibile integrazione.

Sergio Bordi considera la psicoanalisi come uno strumento aperto alla curiosità della conoscenza, pur sottolineando con energia l’importanza di mantenere il senso del metodo psicoanalitico (in primo luogo il setting), adottando un atteggiamento analitico flessibile.

Sin dagli inizi degli anni ‘80 Bordi intuisce e sottolinea l’importanza teorica dei cambiamenti introdotti nel dibattito psicoanalitico (in primis con l’opera di autori come O.Fenichel, D.Winnicott, W.Bion e J.Bowlby) che da una visione teorica esclusivamente intrapsichica e internalista hanno portato a una visione più articolata e interpersonale, che prevedesse un vertice relazionale ed esternalista per la comprensione del funzionamento mentale.

E non sono mai mancati nella vita professionale di Sergio Bordi attività di formazione e di supervisione e come testimoniato da molti suoi allievi, riferimenti al mondo dell’arte, richiami al mondo musicale, cinematografico e teatrale; la passione con cui ha contribuito nel pubblico e nel privato, all’arricchimento del pensiero analitico è stata parte integrante e fondamentale della sua persona e della sua identità di scrupoloso psicoanalista e acuto uomo di scienza.

BIBLIOGRAFIA

Sergio Bordi ha lasciato pochi lavori scritti, mentre ha svolto numerosissime conferenze e molte lezioni e seminari. Gli scritti che seguono sono prevalentemente articoli tratti da riviste o interventi letti in conferenze e seminari.

Bordi S. (1956). “Osservazioni su un caso di demenza epilettica”. Rivista sperimentale di freniatria, 53, pp. 675-679.

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Bordi S. (1958). “Particolari aspetti di una sindrome delirante allucinatoria cronica”. Il lavoro neuropsichiatrico.

Bordi S. (1964). “Intervento sulla ‘responsabilità’ di Nicola Perrotti”. Psiche, 1, 2, pp.30-31.

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Bordi S. (1964). “Valutazione dell’Io all’inizio del trattamento psicoterapeutico”. Psiche, 1, 2, pp. 159-161.

Bordi S. (1964). “Intervento su ‘La personalità dello psicoanalista’ di Nicola Perrotti”. Psiche, 1, 2, pp. 264-265.

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COLLEGAMENTI

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Bordi S. (1998). “La specificità della psicoanalisi”. Presentato al Centro di Psicoanalisi Romano.
(Vedi in Area privata del sito del CdPR, http://www.centropsicoanalisiromano.it)

Bordi S. (1998). “La psicoanalisi alla fine del secolo: una rassegna”. Presentato al Centro di Psicoanalisi Romano.
(Vedi in Area privata del sito del CdPR, http://www.centropsicoanalisiromano.it)

Bordi S. (2004). L’interpretazione oggi. Come sono cambiate le interpretazioni dell’analista e come sono cambiati i nostri pazienti. Presentato al Centro Romano di Psicoanalisi, 4-5 giugno.
(Vedi in Area privata del sito del CdPR, http://www.centropsicoanalisiromano.it)

Intervista dr. S. Bordi (2004) a cura di Nicoletta Bonamone. Centro di Psicoanalisi Romano, dicembre.

Scritti – di Sergio Bordi

Bugia

A cura di Giorgio Mattana

La bugia è generalmente definita come un’affermazione contraria alla verità, spesso consapevole e motivata dall’interesse personale. Specie se occasionale, tale genere di menzogna, che potremmo definire “utilitaristica”, non riveste in quanto tale un particolare interesse psicoanalitico. Quando, invece, per contenuto, significato e funzione, oltre che, eventualmente, frequenza, la bugia viene a coinvolgere più direttamente la personalità, essa diviene un fenomeno psicoanalitico. Come tale, la bugia è oggetto di uno spettro di considerazioni diverse che riflettono differenti configurazioni cliniche, le quali, tanto dal punto di vista evolutivo che “strutturale”, come assetto relativamente stabile della personalità, si dispongono lungo un continuum che va dalla normalità o quasi normalità alla patologia.Freud (1913), prendendo in considerazione le menzogne di due bambine, l’una relativa all’occultamento di una piccola somma di denaro e l’altra allo status sociale della propria famiglia, chiaramente descrive delle bugie motivate esclusivamente dall’“interesse” emotivo. Le bugie in questione, che potrebbero essere definite “nevrotiche”, in quanto non costitutive della personalità e pregiudizievoli per il suo sviluppo, sono da Freud collegate al complesso edipico e al forte attaccamento ai genitori. A patto che non si crei “un malinteso fra il bambino e la persona che egli ama”, esse tendono, inoltre, a essere associate a una prognosi favorevole, che escluderebbe lo sviluppo di un carattere “immorale”. Autori come Tausk (1919), Ferenczi (1927) e Kohut (1977), spingendosi oltre le considerazioni freudiane, ritengono la bugia un passaggio evolutivo importante, fattore e testimonianza del costituirsi di uno spazio interno sottratto allo sguardo dell’altro. Non è più la dinamica edipica, in questo caso, a occupare il centro della scena, bensì il costituirsi di una “teoria della mente” e della relazione fra il proprio spazio mentale interno, individuale e separato, e quello altrui. La bugia e il segreto, che ne rappresenta spesso l’altra faccia, costituiscono, in questa prospettiva, un fattore essenziale di costruzione e tutela dell’identità personale .In linea con ciò, la bugia che sconfina nella diplomazia e nella dissimulazione può essere vista come l’espressione di un “sano falso sé” posto a protezione del vero sé, inteso come sfera più intima e coincidente con il nucleo autentico della personalità. Altri autori, tuttavia, hanno sottolineato manifestazioni della bugia che, allontanandosi progressivamente dal “sano falso sé”, si avvicinano a condizioni francamente patologiche, come la personalità “come se” e l’impostura. Nella prima, seguendo la Deutsch (1942), quella “dissimulazione onesta” che già Torquato Accetto (1641), scrittore napoletano del seicento, considerava essenziale alla convivenza umana, diviene affettazione conformistica a tal punto costitutiva della personalità da sostituire completamente il vero sé. Come osserva Goisis (2009), mettendo a confronto il concetto di personalità “come se” con quello di falso sé, non esiste, in questo caso, un nucleo della personalità che il falso sé protegge dalle intrusioni dell’altro, ma l’adattamento compiacente tende a costituire l’essenza stessa del soggetto. La “bugia” non riguarda più eventi o comportamenti specifici, ma investe l’identità stessa della persona, erodendo progressivamente le basi di un suo corretto sviluppo: siamo nell’ambito di ciò che Bion (1970) definisce “essere una bugia”. A tale ambito appartiene anche l’impostura, distinta dalla personalità “come se” in quanto priva di quelle caratteristiche di “trasparenza” e adattamento conformistico che ne costituiscono il tratto peculiare. Abraham (1923) descrive il caso di un impostore “di professione”, che edifica la propria carriera sulla menzogna e il millantato credito, in un crescendo di falsificazione che viene ricondotto all’investimento narcisistico del sé e all’odio e alla svalutazione dei genitori. Nella stessa linea, la Deutsch (1955) e la Greenacre (1958), tratteggiano l’impostura come caratterizzata dall’assunzione di identità fittizie con forti tratti antisociali, riconducendo le menzogne dell’impostore a un processo di alterazione dell’identità basato su identificazioni patologiche e riconducibile all’ambito del narcisismo .La possibilità che l’analista risulti esposto alla falsificazione del paziente induce a sollevare il problema dell’analizzabilità: essendo la sincerità considerata un prerequisito dell’analisi, la bugia sembrerebbe in linea di principio una controindicazione al trattamento. Eppure, come afferma Bion (1970), la bugia è in certo senso il “pane quotidiano” dell’analista, che deve imparare a riconoscerla e ancor prima a rispettarla, poiché le formulazioni false sono mantenute “come una barriera contro affermazioni che condurrebbero ad un tumulto psicologico”. O’ Schaughnessy (1990) rivendica alla psicoanalisi la capacità di risolvere il suo specifico “paradosso del mentitore”, di un soggetto, cioè , che per essere se stesso è “costretto” a mentire, essendo, come afferma Bollas (1987), la bugia del bugiardo un’ espressione della sua realtà psichica. Senza negare i gravi problemi transferali che possono nascere nel trattamento del bugiardo abituale, di colui che è “caratterologicamente” un mentitore, O’Schaughnessy (1990) sottolinea come la possibilità d’intendere l’origine e la natura di tale disposizione, da ricercare nella relazione e identificazione con i primi oggetti, sentiti come inaffidabili e bugiardi, rappresenti spesso la chiave di volta del trattamento. Come ogni altro sintomo, in ogni caso, la bugia, quando incide in maniera abnorme e patologica, andrebbe intesa come una manifestazione di sofferenza, come la copertura di lacune dell’identità riconducibili al carattere fallimentare delle prime relazioni.

2013 

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O’Shaughnessy E. (1990). Can a liar be psychoanalysed? Int. J. Psycho-Anal., 71, 187-195.

Tausk V. (1919). Scritti di psicoanalisi. Roma, Astrolabio, 1979.

Bullismo e società
Bullismo e società

Simpson_ Tre bulli

A cura di Tito Baldini

Il bullismo è una forma di comportamento violento, di natura fisica ma anche psicologica, attuato nei confronti di soggetti identificati dalla Società e dallo stesso “bullo” come deboli e incapaci di difendersi. Il termine è principalmente utilizzato per riferirsi a fenomeni di maltrattamento tipici di ambienti scolastici e più in generale di contesti sociali riservati agli adolescenti.
Spesso il “bullo” è sostenuto un gruppo che gli infonde la forza che da solo egli non avrebbe. Frequentemente è un soggetto affettivamente deprivato che vive ai margini della società e che dalla cultura di provenienza apprende come unica via di riscatto quella della supremazia del forte sul debole, illudendosi, così, di essere vincente. Un modo di pensare e fare primitivi, animaleschi, ove il più forte si ‘nutre’ anche sessualmente del più debole appropriandosi dei suoi diritti e dei suoi beni, e traendone facoltà dalla “legge naturale della sopravvivenza”, mentre il gruppo, spietato, batte il ritmo assordante della propria eccitazione.
E’ per questo che tale gruppo viene definito ‘branco’. Quando è riunito, come pure accade nel caso dei cani o dei lupi, il ‘branco umano’ esprime al massimo la sua primitività violenta: è esaltato dalla sua presunta supremazia, dalla capacità di togliere la vita all’altro per rinforzare la propria. Non vi è pietà per il presunto debole e questi non è tanto chi nella società ha difficoltà a realizzarsi quanto chi mostra più paura della legge del branco fondata sulla violenza.Il branco, infatti, odia la debolezza fisica e psicologica e soprattutto la paura, perché è in realtà composto da individui deboli e impauriti i quali si difendono illudendosi di condurre una vita da superuomini, fatta di azioni gagliarde frutto di pensieri veloci e risolutivi (i tifosi che applaudono il ‘fratello’ presunto omicida al suo processo). E’ come se il branco fosse un gruppo animalesco e non umano: quando è riunito non ragiona più. Tuttavia il singolo “bullo” può agire anche da solo perché si porta dentro il pensiero del proprio branco, anche se in solitudine la sua azione può risultare meno incisiva.
Il fenomeno del bullismo, studiato negli USA fin dagli anni ’50 del secolo scorso, dopo alti e bassi si è andato negli ultimi decenni incrementando nel mondo cosiddetto “occidentale” ed in modo tangibile in Italia, ma va anche detto che parallelamente si è acuita la sensibilità sociale verso tali condotte un tempo meno percepite e assunte quasi come una ‘fisiologia sociale’ (vedi ad esempio il “nonnismo” in caserma). Occorre inoltre sottolineare che tale fenomeno, ormai da tempo, è traversale rispetto alle diverse fasce sociali.
Il suo rafforzamento viene collegato a processi di decadimento dei valori sociali stessi, con indebolimento delle Istituzioni democratiche e del loro riconoscimento da parte dei cittadini.
Viene percepito quindi come segnale del lento declinare di una Società in parte mutilata dei suoi valori fondativi, e, di conseguenza, del parallelo prender piede di un pensiero rudimentale, arrogante, mirante a un benessere effimero e individualista.
Si presuppone che nel clima in cui le nuove generazioni si formano, la “legge del branco” abbia buone possibilità porsi come alternativa a quella della civiltà e i più deboli, facilmente illudibili, se ne possano appropriare.
Per quanto riguarda l’adolescenza, essa, come tutti sappiamo è un’età critica. Infatti, il raggiungimento della maturità sessuale fa spesso sentire i ragazzi, di fronte alle sfide della nuova condizione, fragili e con un sentimento di sé insicuro. Per questo motivo essi, difensivamente, possono assumere identità rassicuranti, prese a prestito dalla cultura del momento e dall’ambiente d’origine. La percezione di una società litigiosa e indebolita nei suoi valori, non in grado di assicurare un futuro certo, individualista e poco convincente nella sua capacità di accoglienza dall’altro da sé, pensiero o persona che sia, non favorisce né aiuta la crescita personale dei giovani. In altri termini, viene a mancare uno “Stato virtuoso” in cui identificarsi, esponendo le nuove generazioni al rischio di divenire facili prede di modelli che rispondono al paradigma del primitivo sopra accennato.
Che fare? Possiamo fare qualcosa direttamente quando si tratta di fenomeni di così ampia portata sociale? Un’ipotesi percorribile è realizzare o rinforzare condizioni aggregative per le famiglie e per gli adolescenti: pensiamo alle nuove Realtà di aiuto che il privato sociale ispirato a un metodo psicoanalitico sta già mettendo a disposizione degli adolescenti e delle loro famiglie. I centri di aggregazione giovanile, ad esempio, realizzano molteplici percorsi che vanno dall’aiuto in strada, o in casa con i compiti, fino all’invitare a “venire da noi che si sta bene” e trovare in ambienti protetti la possibilità di giocare, studiare, stare in gruppo misto, e di avere “psi” capaci di coniugare psicoanalisi e aiuto sociale, in grado di portare i ragazzi a lavorare psicoanaliticamente, dal gruppo alle terapie individuali. Tali nuove opportunità di sostegno dovrebbero entrare in un rapporto collaborativo intenso, detto “rete”, con le altre Agenzie e Istituzioni educative e curative dei giovani: la Scuola per prima, e il Servizio sociale, il Tribunale per i minorenni, il Dipartimento Minorile del Ministero della Giustizia, la RAI, le Associazioni per il tempo libero (sport, musica, teatro), quelle cosiddette “laboratoriali” e così via. Tanti punti di vista su una stessa realtà adolescente  permettono di meglio inquadrarla ma se i punti poi non convergono ne risulta una condizione ancora più frammentata. La psicoanalisi ha modo di legare le varie articolazioni della proposta di aiuto intorno ai suoi modelli teorici e operativi e gli effetti che essa è in grado di produrre risultano straordinariamente incrementati.

Maggio 2015

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Senza paura, senza pietà. Valutazione e trattamento degli adolescenti antisociali. Recensione di Cristina Saottini

Bullismo: la relazione con la vittima e con gli adulti

Bullismo: la relazione con la vittima e con gli adulti

A cura di Jones De Luca e Galvano Pizzol

Il termine bullismo rimanda a situazioni nelle quali singoli individui o gruppi di individui aggrediscono coscientemente dei compagni con l’intenzione di far male (e ripetutamente). Il bullo imposta una relazione di potere caratterizzata da violenza fisica o da pressione psicologica tale da creare delle vittime predestinate. Il bullismo nasce in particolare in adolescenza, in situazioni in cui gli adulti significativi di riferimento hanno perso qualsiasi autorevolezza e di conseguenza si verifica una pervasiva sfiducia rispetto alla loro capacità di far fronte a tali situazioni. Il fenomeno si manifesta in ambiti di extraterritorialità dall’ autorità scolastica e familiare. In queste nicchie i comportamenti di aggressione possono trovare spazio e possibilità di ripetersi. Si tratta di una forma di sottrazione e misconoscimento dell’autorità che comporta l’instaurarsi di una “sub-cultura” della violenza. Parolacce, prese in giro, spintoni o botte, prevaricazioni e altri comportamenti riprovevoli, possono essere inquadrati nel loro insieme come bullismo, cioè azioni compiute intenzionalmente, ripetute e talora cronicizzate, con la presenza di ruoli definiti di vittime e di carnefici (il bullo il più delle volte si avvale di altri adolescenti quali gregari).

Il potere che sottende alla relazione di dominio-sottomissione determina una violenta asimmetria tra vittima e bullo, con impossibilità di negoziazione e di rispetto reciproco.

Viene meno il legame di fiducia tra adolescente e adolescente e soprattutto tra adolescente ed adulti, siano essi genitori, insegnanti, amministratori o personale ausiliario.

In situazioni di pericolo la fiducia negli adulti e la possibilità di chiedere loro aiuto, è determinante; infatti, di norma, la presenza di un adulto autorevole risolve immediatamente qualsiasi intenzione di bullismo ed è quindi la principale forma di prevenzione.

Va tuttavia sottolineato che il comportamento aggressivo tra adolescenti non sempre può essere definito come bullismo.

Il bullismo, infatti, va distinto dai comportamenti trasgressivi ed antisociali in adolescenza che possono essere inquadrati separatamente e come episodi singoli. In quest’ultimo caso si tratta di angherie, litigi e discussioni tra pari che non creano necessariamente un’ asimmetria nella relazione ed un vuoto di autorevolezza degli adulti; si può trattare di comportamenti legati alla difficoltà di apprendere e/o trovare un ruolo sociale, oppure di un tentativo d’individuare le modalità per prendere le misure tra sé e gli altri in un momento, qual è l’adolescenza, di grandi cambiamenti personali e sociali. In questa prospettiva l’aggressione verbale o anche fisica può essere inquadrata nell’ambito di episodi di conflitto tra coetanei, e quindi solo tra pari.

Quando il comportamento aggressivo è legato all’impulsività tipica della fase adolescenziale non si può dunque parlare di bullismo .

La specificità del bullismo, come abbiamo detto in precedenza, consiste invece in una relazione particolare tra una vittima ed un carnefice. Ciò che in primo luogo unisce la vittima al carnefice è una comune sfiducia nella possibilità degli adulti di capire i loro problemi e comporta di conseguenza un distanziamento da loro.

Il bullo non si fida del genitore perché teme di diventare a sua volta oggetto di derisione o di aggressività verbale o fisica. Rivolgersi al genitore è infatti impossibile in quanto il bullo si aspetta che questi reagisca contro di lui non permettendogli di entrare in contatto con i propri aspetti di vulnerabilità (dei quali non riesce a farsi carico). Egli teme che le sue emozioni creino irritabilità nel genitore più che una vera preoccupazione finalizzata al bisogno di comprendere il senso di azioni che esprimono un grave disagio.

Il bullo manca di “mentalizzazione” cioè di capacità di capire se stessi e gli altri in termini di emozioni, sentimenti e intenzioni.

Durante il trattamento del bullo si può osservare quanto egli sia carente dal punto di vista della capacità di provare empatia.

Anche la vittima non si rivolge al genitore in quanto è animata dall’aspettativa che questi venga ferito dalla sua vulnerabilità (in questo modo oltre ad essere ferito egli stesso finirebbe con il ferire l’oggetto di cui ha bisogno). La ferita narcisistica del genitore potrebbe poi dar luogo ad ulteriori situazioni di umiliazione: se il genitore della vittima si rivolge direttamente al bullo (o ai suoi genitori o alle autorità scolastiche) finisce con lo svilirlo ulteriormente. Ciò confermerebbe nell’adolescente- vittima la sensazione di essere “sbagliato”, che non se la sa cavare da solo e che crea problemi ai genitori in quanto li fa sentire umiliati, feriti e delusi.

Nel colloquio clinico la vittima di prevaricazioni imputa agli adulti in generale disattenzione, incoerenza, incapacità di assumere posizioni chiare e una certa insensibilità ai suoi problemi; mostra una scarsa fiducia in se stesso e un basso livello di assertività.

Il bullo, invece, nel colloquio minimizza i fatti accaduti, ne nega la gravità, ne presenta una percezione distorta (“non è successo niente”). Qualora vengano ammessi e verbalizzati i fatti, il bullo tende a non manifestare le esperienze affettive collegate ad essi. Non mostra sensi di colpa o dispiacere o vergogna. Si accorge del dolore e della sofferenza provocati, e della gravità del proprio comportamento, solo in quanto vede i propri genitori star male. A livello più profondo per il bullo la vittima, attaccata con tanta determinazione, rappresenta la parte debole di sé, intollerabile, da umiliare ed eliminare dal mondo per lasciare il posto all’eroe nato dalle sue ceneri.

Nel rapporto tra bullo e vittima si crea, da parte di quest’ ultima, una situazione d’identificazione con l’aggressore. Cristiano Rocchi sostiene che la vittima, sovrastata da un potere schiacciante e fuori controllo, non attiva una reazione di rifiuto o difesa, ma, soggiogata da una paura impotente, si sottomette alla volontà dell’aggressore. Come unica possibilità di sopravvivenza, la vittima abdica, rinuncia alla propria persona, consegnandosi all’aggressore ed identificandosi esattamente con ciò che egli si aspetta. Tende a sentire da un lato ciò che l’aggressore stesso sente, dall’altro ciò che l’aggressore vuole che la vittima senta. Può arrivare così ad anticiparne le mosse, per minimizzare il danno ed avere maggiori possibilità di sopravvivenza. Si viene a creare nell’adolescente-vittima una personalità “come se”. Questo è ben spiegato da Senise che afferma che “ il “come se” ha sempre una connotazione patologica.

WhatsApp e di You tube sono spesso i contesti dove il bullo può pensare di esaltare il suo operato: il “bullo” ad esempio pubblica su questi “social media” un video registrato con il telefonino, dove vengono esibite le sue gesta, o quelle eseguite dal suo gregario, nei confronti della vittima, cercando una sua ulteriore umiliazione. A volte è proprio il media stesso che viene utilizzato per esercitare il bullismo : serve per escludere, umiliare, ferire ripetutamente una vittima.

I partecipanti al gruppo di WhatsApp (spesso i compagni di classe) o i visitatori di “you tube”, a volte denunciano l’opera agli adulti di riferimento facendo emergere il fenomeno. Gli adulti significativi di riferimento a loro volta fanno entrare in gioco la giustizia minorile: quello che era iniziato come uno “scherzo” per diventare poi un atto di bullismo, ora diventa un “reato” (o più reati allo stesso tempo) quale stalking, lesioni, violazione della privacy, dando luogo all’affermarsi di un iter giudiziario.

E’ in questi casi che si può innescare una ricerca di aiuto, diretta o sollecitata dagli operatori sociali coinvolti. Questa richiesta, se ben accolta e analizzata, può evitare un destino. Una terapia può evitare che ci si avvii ad una carriera psicopatologica. Una terapia efficace richiede anche il coinvolgimento dei genitori, e può far ripartire una genitorialità consapevole in entrambi i soggetti in gioco.

Il coinvolgimento dei mezzi di comunicazione di massa da parte degli adulti interessati (giornali locali o simili) a scopo “educativo” è invece molto pericoloso poiché espone i ragazzi coinvolti ad una situazione di vergogna pubblica intollerabile e senza via d’uscita.

Bibliografia

Fonagy P. e AA. VV. Regolazione affettiva, mentalizzazione e sviluppo del sé. Cortina editore, 2010 Milano.

Nicolò A. M. (a cura di) Adolescenza e violenza Il Pensiero Scientifico editore, 2009 Roma.

Pra Baldi A. Pizzol G. (a cura di) “Indagine sui comportamenti e gli atteggiamenti verso i pari e gli adulti degli studenti di scuola media” Spazio Adolescenti 2006 Ulss 1 Belluno .

giugno 2015

Campo analitico (Modello)
Campo analitico (Modello) 1

David Hockney,  North Yorkshire -  1996

A cura di Fulvio Mazzacane

Le origini del modello di campo si fanno risalire ai contributi di Kurt Lewin (1951) che definisce il campo, in ambito sociale e psicologico, come una totalità dinamica capace di creare all’interno di un gruppo un senso di coesione e appartenenza che si manifesta con l’emergere del sentimento del “noi” ed implica un’identità di gruppo, per cui il cambiamento di uno provoca il cambiamento anche degli altri (Neri, 2011).

Le ricerche sui funzionamenti gruppali di Foulkes (1964) che considera il gruppo un’entità psicologica e di Bion (1961) che studia gli assetti del gruppo di lavoro e in assunto di base, pur non esplicitando la nozione di campo ne costituiscono delle premesse.

Nella stessa direzione va la psicologia dell’uomo “in situazione” di Merlau Ponty (1945), un uomo che comprende i fatti psichici nel contesto di relazioni intersoggettive, in cui i pensieri di due persone sono un frutto comune e la conoscenza dell’altro è un fenomeno di accoppiamento.

Il concetto di campo analitico nasce negli anni sessanta dai lavori di W. e M. Baranger (1961-62), che immaginano la situazione analitica come un campo dinamico tra due persone ineluttabilmente connesse e complementari, per cui nessun membro della coppia può essere capito senza l’altro.

La loro teoria si basa sugli studi di Racker sul controtransfert e sul concetto di identificazione proiettiva della Klein, il campo si struttura con un gioco incrociato di identificazioni proiettive e introiettive, con un analista attento a limitare le proprie contro-identificazioni proiettive.

Nel loro modello un certo grado di impasse è fisiologico, c’è  una continua alternanza di momenti di processo e di non processo, un periodico ripresentarsi, per il sommarsi di identificazioni proiettive incrociate, di zone di “resistenza” della coppia che ostacolano il progresso analitico.

Il concetto di “bastione” è rappresentativo degli arresti del processo analitico. Il bastione rimanda ad un settore scisso della vita dell’analizzando che entra bruscamente nel campo dell’analisi, dapprima all’interno di un vissuto catastrofico e, in seguito, come occasione di un profondo arricchimento. Pur sottolineando la certezza sull’origine dei bastioni (il paziente), i Baranger sottolineano un elemento importante, l’inevitabilità della loro irruzione in ogni campo analitico. E’ un concetto collegato alla coazione a ripetere e alla pulsione di morte, che loro considerano analogo alla nevrosi di transfert in una prospettiva bi-personale. Il bastione è il sintomo di una patologia del campo e non del paziente, modellata dalla specificità dell’incontro con l’analista.

L’analista deve lasciarsi inglobare, fino ad un certo punto, in questo gioco. Il momento interpretativo arriverà quando l’attenzione fluttuante, grazie ad una sorta di personale repertorio controtransferale (esperienze corporee, fantasie di movimento, comparsa di certe immagini) lascerà il posto al “secondo sguardo”, consentendo all’analista di interrogarsi sugli avvenimenti del campo.

I Baranger derivano da Pichon Riviere un’idea del percorso analitico come di un processo a spirale in cui l’hic et nunc della seduta è una dimensione ineludibile della realtà analitica.

Quello di campo è un modello volutamente aperto all’incontro con saperi diversi, che naturalmente tende al “meticciato” (Neri, 2011) e nella psicoanalisi italiana è stato introdotto grazie all’opera di Corrao (1986). Nella sua teorizzazione il modello di campo è stato caratterizzato dal fecondo incontro con  tre saperi. Il primo è con la teoria delle funzioni di Bion, tale accoppiamento, nel suo sviluppo, consentirà a Ferro di ipotizzare una nosografia del campo analitico (Ferro, 2002). Il secondo è l’incontro con l’ermeneutica, Corrao (1987a) sottolinea l’importanza di considerare gli elementi analitici come risultato di osservazioni espresse da uno specifico punto di vista, non valutabili oggettivamente. I modelli analitici che prediligono l’insaturo per lui si inseriscono in un filone culturale che abbraccia tutti i campi del sapere, risultato di un’evoluzione etica dell’uomo che rinuncia alla sua hybris, alla sua arroganza cognitiva.

Il terzo è l’incontro con la narratologia (Corrao, 1987b). Narrativo per Corrao è uno stile, una delle dimensioni che assume ogni “costruzione di mondo”, che porta lo psicoanalista a immaginare una relazione bi-personale, costruita da due persone in circostanze dialogiche altamente specializzate, con caratteristiche di transitorietà e mutabilità tipiche delle attività narrative. Nella situazione analitica le versioni degli eventi significativi cambiano man mano che il lavoro progredisce e con esse cambia il vissuto degli eventi poiché versioni narrative e vissuti sono inseparabili. Anche le teorie analitiche si costituiscono come narrazioni che non possono mai considerarsi definitive.

Ferro e Bezoari (1992, 1997) hanno affrontato in due lavori importanti nodi del pensiero analitico, che successivamente Ferro svilupperà. Il primo riguarda il concetto di personaggio in seduta, che abbandona lo statuto storico-referenziale per assumere la caratteristica di “aggregato funzionale”, elemento proto-simbolico, frutto dei processi trasformativi della coppia analitica, che consente una visione condivisa di aspetti del campo emotivo non altrimenti rappresentabili: “Aggregati” in quanto sintesi di elementi eterogenei (verbali, emotivi, corporei), “funzionali” perché correlati al funzionamento mentale della coppia e alle necessità emotive del momento.

Collegato a questa prospettiva è il concetto di interpretazione “debole”, “insatura” che sottolinea la natura radicalmente dialogica e intersoggettiva del lavoro interpretativo e apre a sviluppi nella tecnica degli interventi dell’analista e al concetto di co-interpretazione narrativa e di oscillazione tra capacità negativa e fatto prescelto come matrice degli interventi dell’analista (Ferro, 2007).

Il terzo punto riguarda il sogno e sviluppa la prospettiva dei Baranger che parlano di “racconto del sogno”. Sogno che manda un messaggio che attiene alla storia dell’analizzando, al suo mondo interno ma soprattutto alla relazione analitica, che può essere commento agli interventi dell’analista.

Il sogno viene definito come opera narrativa aperta da sviluppare con la costruzione di nuove storie, come una metafora viva in grado di espandere il pensabile e il dicibile con la rinuncia a codici interpretativi forti, in un modello in cui non è centrale la ricostruzione ma l’alfabetizzazione.

Nei suoi lavori successivi Ferro definisce il campo come un luogo/tempo in cui si manifestano le turbolenze emotive attivate dall’incontro analitico, in cui vengono favorite narrazioni che sono il risultato di processi di alfabetizzazione delle proto emozioni della coppia. Attraverso la capacità negativa e l’attivarsi di rêverie, si ricercano situazioni di unisono che aumentano la funzione di contenitore della coppia, e quindi del paziente, e lo sviluppo della funzione alfa.

E’un modello che ridimensiona l’insight, decentra gli aspetti genetici, economici e dinamici e produce una sensazione di spaesamento nell’analista che deve riconoscere ampi margini di incompetenza nel seguire una rotta imprevedibile (Gaburri, 1997).

Vari autori italiani, oltre a quelli citati, hanno sviluppato temi inerenti al campo (Chianese, 1997; Di Chiara, 1997; Riolo, 1997), anche nei suoi aspetti legati al lavoro istituzionale (Correale, 1991).

L’evoluzione più recente del concetto di campo vede la convergenza di più autori su un modello di campo onirico, a partire dal concetto bioniano di pensiero onirico della veglia, che immagina una funzione continua della mente impegnata a trasformare gli stimoli esterni e interni, fisici e mentali in modo da renderli disponibili al pensiero. Campo onirico che si definisce come lo sviluppo delle capacità sognanti del campo che porteranno alla trasformazione e all’introiezione di funzioni (Ferro, 2013). Questa definizione trova consonanza nel concetto, centrale nel pensiero di Grotstein (2007), di “dreaming ensemble”, che così definisce l’insieme di tutte le funzioni sognanti della mente.

Nella teorizzazione di Ogden (1994, 1999), che converge con il modello di campo,  la disponibilità come analisti ad essere inconsciamente recettivi a essere usati per svolgere una varietà di ruoli nella vita inconscia dell’analizzando  porta a consegnare la propria individualità a un terzo soggetto, il “terzo analitico intersoggettivo”, generato inconsciamente dalla coppia analitica, risultato dello scambio di degli stati di rêverie dell’analista e dell’analizzando, in costante tensione con le loro individualità. Per Ogden ogni sintomo è il frutto di sogni non fatti o interrotti, che portano ad un accumulo di elementi beta, la finalità della cura è quella di riuscire a sognare col paziente i suoi sogni non sognati. Anche attraverso il “talking as dreaming” (Ogden, 2007) che definisce una modalità narrativa che la coppia analitica realizza in seduta in un clima in cui si allude al gioco, alla creatività libera simile all’improvvisazione musicale.

Nello stesso senso va lo strumento tecnico della “trasformazione in sogno” proposto da Ferro (2009, 2013). La seduta analitica è immaginata continuamente immersa in un’atmosfera onirica, un sogno delle menti, l’obiettivo della terapia è lo sviluppo delle capacità sognanti del campo che porteranno a nuove narrazioni e all’introiezione di funzioni.

Bibliografia

Baranger W., Baranger M. (1961-1962), La situazione analitica come campo bi personale, Cortina, Milano 1990.

Bezoari M., Ferro A. (1992), Percorsi bi personali dell’analisi. Dal gioco delle parti alle trasformazioni di coppia, in Nissim Momigliano L., Robutti A. (a cura di), L’esperienza condivisa, Cortina, Milano.

Bezoari M., Ferro A. (1997), Il sogno all’interno di una teoria del campo: aggregati funzionali e narrazioni, in Gaburri E. (a cura di) Emozione e interpretazione, Bollati Boringhieri, Torino.

Bion W.R. (1961), Esperienze nei gruppi, Armando, Roma (1971).

Chianese D. (1997) Costruzioni e campo analitico. Borla, Roma.

Corrao F. (1986), Il concetto di campo come modello teorico,  in Orme,  vol. II, Cortina, Milano (1998).

Corrao F. (1987a), L’interpretazione psicoanalitica come fondazione di un campo ermeneutico e dei suoi funtori, in Orme, Cortina, Milano (1998).

Corrao F. (1987b), Il narrativo come categoria psicoanalitica, in Orme, Cortina, Milano

Corrao F. (1991), Trasformazioni narrative, in Orme, Cortina, Milano.

Correale A. (1991) Il campo istituzionale. Borla, Roma.

Di Chiara F. (1997) La formazione e le evoluzioni del campo psicoanalitico, in Gaburri E. (a cura di) Emozione e interpretazione, Bollati Boringhieri, Torino.

Ferro A. (2002), Fattori di malattia, fattori di guarigione, Cortina, Milano.

Ferro A. (2007), Evitare le emozioni, vivere le emozioni, Cortina, Milano.

Ferro A. (2009), Transformations in dreaming and characters in the psychoanalytic field. Int.J. Psychoanal. 90:2009-2030

Ferro A. (2013), Modello onirico della mente. In Psicoanalisi Oggi. A cura di A. Ferro. Carocci, Roma

Foulkes S.H. (1964), Psicoanalisi e terapia di gruppo. Boringhieri, Torino (1967).

Gaburri E. (1997), Introduzione. In: Gaburri E. (a cura di) Emozione e interpretazione. Bollati Boringhieri, Torino

Grotstein J. (2007), Un raggio di intensa oscurità. Cortina, Milano

Lewin K. (1951), Teoria e sperimentazione in psicologia. Il Mulino, Bologna (1972).

Merleau Ponty M. (1945), Fenomenologia della percezione. Bompiani, Milano (2003)

Neri C. (2011), La nozione di campo allargato in psicoanalisi. In: Il campo analitico, Ferro A., Basile R. (a cura di), Borla, Roma.

Ogden T.H. (1994), Soggetti dell’analisi, Masson, Milano (1999).

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Ogden T.H. (1997), Rêverie  e interpretazione. Astrolabio, Roma (1999).

Riolo F. (1997), Il modello di campo in psicoanalisi. In Gaburri E. (a cura di) Emozione e interpretazione. Bollati Boringhieri, Torino

Novembre 2013

Capacità Negativa
Alexander Calder

Alexander Calder

A cura di Ersilia Cassani

Capacità Negativa (Negative Capability) è un concetto di tecnica psicoanalitica usato da Bion per riferirsi allo stato mentale che lo psicoanalista dovrebbe raggiungere per venire in contatto con la verità emotiva sconosciuta (che Bion chiama O) di quel momento – unico punto importante della seduta – e comunicarla al paziente con l’interpretazione.

L’analista deve stare in attesa senza dire né fare nulla. Non si tratta di un’attesa carica di aspettative, né semplicemente passiva: è un’attesa ricettiva ai diversi livelli di comunicazione, verbali e non verbali, consci ed inconsci, del paziente e personali; su questi l’analista compie un lavoro psicologico inconscio, chiamato anche il lavoro del sogno della veglia, il quale dà segno di sé attraverso le sue reverie e la sua intuizione della esperienza emotiva del momento.

Con un linguaggio chiaro ed insolitamente prescrittivo Bion esorta l’analista ad ascoltare il paziente per il tempo necessario ad intuire l’esperienza emotiva informe, tollerando di rimanere nel dubbio e nell’ansia, senza affrettarsi a trovare spiegazioni razionali e senza aggrapparsi al già noto sul paziente e sulle teorie.Cioè l’analista deve rinunciare alla memoria, al desiderio e alla comprensione razionale.

La razionalità, la memoria, e il desiderio sono strumenti psichici più adatti a conoscere la realtà esterna percepita; le emozioni sconosciute si colgono, invece, attraverso l’intuizione e la reverie, nel dialogo tra la coscienza e l’inconscio. Pertanto, se la razionalità, qualità della coscienza, è usata in modo esclusivo, il lavoro psichico inconscio è ostacolato. Per quanto riguarda la memoria, Bion distingue la memoria evocata – che affiora per intuizione o per associazione nell’ascoltare il paziente in seduta – dal tentativo deliberato e cosciente di richiamare i ricordi di sedute precedenti o di frammenti di teorie. La prima è un derivato cosciente del lavoro psichico inconscio compiuto in quel momento; il secondo ostacola la ricettività inconscia dell’analista all’inconscio del paziente (in termini bioniani limita lo sviluppo della funzione barriera contatto intersoggettiva) e può favorire la stasi della seduta. Ascoltare il paziente ogni volta come se fosse un nuovo paziente può, inoltre, acuire la sensibilità dell’analista alle piccole variazioni di un contenuto o di un modo di esprimerlo apparentemente sempre uguale. Bion invita l’analista ad interrogarsi sui suoi desideri in seduta: per esempio curare il paziente, concludere la seduta, trovare una nuova teoria che spieghi quanto sta avvenendo, eccetera. I desideri dell’analista possono interferire con la sua visione del paziente (rendendola confusa), determinare interpretazioni fuori bersaglio e contribuire a rendere le sedute sempre più vuote e all’impasse.

Un altro modo di definire la capacità negativa è l’indicazione bioniana di avvolgere la verità emotiva sconosciuta con un raggio di intensa oscurità.

Il rispetto di queste raccomandazioni è difficile: il contatto con l’esperienza emotiva informe è motivo di angoscia, lo psicoanalista è parassitato da emozioni che il paziente non vuole vivere e che a volte anche l’analista vorrebbe evitare. È dunque forte la tentazione di illuminare ciò che è oscuro con ciò che si conosce, l’illuminazione però, mette fuori uso l’intuito.

Quanto detto potrebbe far pensare che la capacità negativa sia uno stato mentale impossibile da raggiungere o posseduto solo da individui eccezionali. Si tratta, invece, di una potenzialità della mente (il termine inglese ha questa sfumatura di significato che si perde in italiano), che può essere sviluppata negli anni attraverso l’analisi personale e la disciplina. Queste non eliminano l’angoscia, la rendono più tollerabile, perché permettono allo psicoanalista di sviluppare la fiducia nel metodo prescritto.

Il concetto di capacità negativa interseca altri concetti bioniani, sia precedenti sia della successiva evoluzione del suo pensiero.

Un accenno all’origine del termine permette di mettere meglio a fuoco la relazione tra la capacità negativa e l’interpretazione intuita o sognata.

Bion cita un brano di una lettera del poeta John Keats (1817) ai fratelli. In questo, la capacità negativa è definita la qualità dell’artista creativo, posseduta in massimo grado da Shakespeare. Il Bardo è capace di parlare ai lettori e agli spettatori in modo da portarli a sperimentare emozioni, fantasie, tensioni in presa diretta, perché egli stesso è stato in contatto con questi stati d’animo e sentimenti anche molto contraddittori, senza sottoporli ad un giudizio morale, e li ha lasciati evolvere. Per Bion anche lo psicoanalista deve venire in contatto con le emozioni sconosciute, senza interferire con la mobilità della mente vivente (come fa il bambino che osserva le sculture mobili di Calder), per riuscire a parlare al paziente (interpretare) con parole che non spiegano l’emozione, ma permettono al paziente di viverla e conoscerla. Il linguaggio dell’analista che nasce dalla sua esperienza dell’emozione è chiamato linguaggio dell’effettività, il linguaggio efficace.

La relazione tra la capacità negativa e l’interpretazione è descritta anche dalla oscillazione tra la capacità negativa ed il fatto scelto della comunicazione del paziente, che è l’elemento invariante tra i diversi contenuti verbali e non verbali del paziente che dà loro coerenza. La capacità negativa permette di reperire intuitivamente il fatto scelto e di dare una forma comunicabile all’esperienza emotiva del momento. La relazione tra capacità negativa e fatto scelto è dialettica: ognuno dei due concetti nega l’altro e gli dà senso, l’uno non può esistere senza l’altro (nel filmato proposto la relazione è rappresentata dal bambino che osserva le sculture mobili e dall’artista che le crea). Nella stanza di analisi, se l’analista, dopo diverse sedute, non giungesse a reperire il fatto scelto, la sua attesa sarebbe espressione di un mal funzionamento della capacità di sognare le emozioni presenti. Se, invece, l’analista intervenisse di continuo, probabilmente starebbe cercando di arginare l’angoscia di non sapere e di limitare la possibilità del paziente di associare liberamente.

Da quanto detto finora la capacità negativa interseca le trasformazioni di O e K. Bion, come ho già detto, indica con il segno O l’emozione sconosciuta del momento e con la lettera K il legame di conoscenza con l’emozione sconosciuta. L’esercizio della capacità negativa permette all’analista di sperimentare O fino a quando per intuizione riesce a dargli una forma. Quando l’analista interpreta con il linguaggio dell’effettività fa, non solo conoscere, ma anche vivere al paziente l’emozione, ovvero cerca di aiutarlo a compiere la trasformazione da K ad O, da un legame di curiosità con l’emozione sconosciuta ad essere quella emozione o quella fantasia.

La capacità negativa dell’analista incontra il concetto di at-one-ment, la sintonizzazione con l’emozione sconosciuta del paziente (la sua O). Questa sintonizzazione con O sta alla base di ogni conoscenza, anche delle scoperte scientifiche.

Il suggerimento di Bion all’analista di decentrarsi dal proprio pensiero cosciente (rinunciando a memoria, desiderio e comprensione) e porsi in una condizione di tolleranza e ricettività alle produzioni dell’altro ed alle proprie, consce ed inconsce, corporee e psichiche, pone lo psicoanalista in transito tra sé e l’altro; si potrebbe dire che Bion adombri l’esortazione all’analista di attraversare la cesura. Il concetto di Capacità Negativa pone dunque le premesse alle riflessioni post-bioniane sullo spazio intersoggettivo e sul campo bipersonale come luogo mentale in cui si trova l’analista che esercita la capacità negativa e dal quale comunica.

Bibliografia

Aguayo J (2013), Bion’s ‘Notes on Memory and Desire’—Between Text and Lecture, IPA Congress, Prague

Bion W (1967), Notes On Memory And Desire, Psychoan Forum, Vol 2, N. 3

Bion W (1967a), Wilfred Bion’s Los Angeles Seminars. Lectures given at the Los Angeles Psychoanalytic Institute, April, 1967. (Forthcoming: Aguayo, J. and Malin, B. (eds.). Karnac Books.

Bion W (1970), Attenzione ed Interpretazione, trad it. Armando, Roma, 1973

Grinberg L, Sor D, Tabak de Bianchedi E (1991), Introduzione al pensiero di Bion, trad it. Raffaello Cortina, Milano, 1993

Neri C (2009), La capacità negativa dello psicoterapeuta come sostegno al pensiero di gruppo, Rivista Italiana Di Gruppoanalisi, vol. 22; p. 159-175, ISSN: 1721-6664

Matter R (1950), “Works of Calder”, www.youtube.com

Syminghton J, Syminghton N (1996), The Clinical Thinking Of Wilfred Bion, Routledge London

Dicembre 2015

Carloni Glauco
Carloni Glauco

Glauco Carloni

Maestri della psicoanalisi 

A cura di Laura Ravaioli

Carloni, Glauco (Cingoli, 1926- Bologna, 2000)

Psichiatra e psicoanalista, uomo di vasti interessi ed intellettuale attivo su più fronti: conferenziere, docente, pubblicista, viaggiatore, cinefilo, direttore editoriale, critico, polemista, rappresentante istituzionale. Ha introdotto in Italia il pensiero di Sandor Ferenczi curandone l’edizione italiana delle Opere, ma anche il pensiero di altri autori tra cui Michael Balint, Marie Bonaparte, Geza Roheim.
E’ stato Presidente della Società Psicoanalitica Italiana ed ha fondato con Egon Molinari il Centro Psicoanalitico di Bologna.

Ritratto ad opera di Leandro Cutti

Ritratto ad opera di Leandro Cutti

La vita.

Glauco Carloni è nato a Cingoli, in provincia di Macerata, il 23 luglio 1926. Trascorse qui l’infanzia e l’adolescenza e si trasferì a Bologna per gli studi liceali. Si iscrisse alla Facoltà di Medicina e si laureò all’Università di Bologna nel 1950, specializzandosi in Clinica delle malattie nervose e mentali, ma predilesse la psichiatria e la formazione psicoanalitica alla neurochirurgia.

Lavorò all’Ospedale psichiatrico “Lolli” di Imola e successivamente all’Ospedale “Roncati” di Bologna, qui come Primario della Sezione femminile, e divenne uno dei capiscuola di una psichiatria coscienziosa, empatica e responsabile, che si distinse sia dalla psichiatria classica che dall’antipsichiatria basagliana.

Fu Professore all’Università di Trento negli anni Settanta e poi a Bologna presso le Facoltà di Magistero e Scienze della Formazione; divenne Professore associato di psicologia dinamica all’Università di Bologna, nonché Fondatore e Presidente del Centro Psicoanalitico di Bologna.

Nel panorama psicoanalitico istituzionale ha assunto il ruolo di Presidente della Società Psicoanalitica Italiana dal 1982 al 1986, di Vicepresidente dal 1977 al 1982 e di Tesoriere dal 1969 al 1977 (due esecutivi).

Morì a Bologna il 16 giugno 2000.

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Glauco Carloni ed Egon Molinari (1963)

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Glauco Carloni, Luciana Nissim (settembre 1985)

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“Carloni visto da Zucchini” ad opera di Gino Zucchini

Egon Molinari, Alberto Spadoni, Glauco Carloni (giugno 1991)

Egon Molinari, Alberto Spadoni, Glauco Carloni (giugno 1991)

Giovanni Hautmann, Pier Mario Masciangelo, Egon Molinari, Glauco Carloni (giugno 1991).

Giovanni Hautmann, Pier Mario Masciangelo, Egon Molinari, Glauco Carloni (giugno 1991) 

 

 

 Il contributo alla psicoanalisi

Glauco Carloni ha assunto un ruolo centrale nella diffusione della cultura psicoanalitica in Italia. Oltre ad avere avuto il grande merito di aver fatto conoscere al pubblico italiano e agli addetti ai lavori autori ancora poco conosciuti in Italia come Balint, Rank, Roheim, Jones, Lewin, Bonaparte, Salomè e molti altri, ha soprattutto per primo diffuso e valorizzato qui da noi l’opera di Sandor Ferenczi, di cui ha curato insieme ad Egon Molinari la traduzione e l’edizione dei Fondamenti di Psicoanalisi, riportando le sue preziose intuizioni, arricchite da contributi del tutto personali (vedi “Tatto, contatto e tattica” e “Lo stile materno”), nel suo insegnamento e nella pratica clinica tanto da improntarne tutta la “scuola” bolognese. Nella sua attività di psicoanalista di training ha inoltre approfondito con numerosi lavori il tema della crescita dell’ identità psicoanalitica (“Identità personale e professionale dello psicoanalista”) e della vocazione terapeutica con le sue motivazioni patologiche, che rendono ineludibile la necessità di sottoporsi ad un’ analisi personale (vedi “Sofferenza psichica e vocazione terapeutica”).  Attento osservatore dei disagi della società moderna, ne fornì una chiave di lettura psicoanalitica profonda attraverso un linguaggio accessibile e diretto (La mamma cattiva, scritto con Daniela Nobili).
Si occupò di moltissimi argomenti “di confine” tra la psicoanalisi e le altre scienze o produzioni artistiche (fiaba, letteratura, cinema, teatro); tra le sue moltissime iniziative vi sono l’organizzazione di numerose collaborazioni e seminari, anche internazionali, il primo “cineforum psicoanalitico” stabile a Bologna e la creazione del terzo polo formativo in Italia:  la Sezione Veneto-Emiliana.

Gaddini english

Glauco Carloni

Psychiatrist, psychoanalyst, man of broad interests and intellectual active on several fronts: lecturer, professor, journalist, traveler, cinephile, editor, critic, polemicist, institutional representative. He introduced in Italy Sandor Ferenczi’s thought, editing the Italian version of his Works, but he also introduced the thought of other authors including Michael Balint, Marie Bonaparte, Geza Roheim.
He was President of the Italian Psychoanalytic Society and he founded with Egon Molinari the Psychoanalytic Center of Bologna.

Life.

Glauco Carloni was born in Cingoli, in the province of Macerata, on July 23, 1926. Here he spent his childhood and adolescence and moved to Bologna for his high school studies. He enrolled at the Faculty of Medicine and graduated from the University of Bologna in 1950, specializing in Clinic of Nervous and Mental Diseases, but he preferred Psychiatry and the psychoanalytic training to Neurosurgery.

He worked at the Psychiatric Hospital “Lolli” in Imola and later in the Hospital “Roncati” in Bologna, here as Head of the Women’s Section, and became one of the leaders of a new model in Psychiatry:  conscientious, empathic and responsible, different from the classical psychiatry as from  the “anti-psychiatry” model of Basaglia.

He was Professor at the University of Trento in the Seventies, and then in Bologna at the Faculty of Education and Science Education; became Associate Professor of Dynamic Psychology at the University of Bologna as well as Founder and President of the Psychoanalytic Center of Bologna.

Inside the psychoanalytic institutions, he assumed the role of President of the Italian Psychoanalytic Society from 1982 to 1986, Vice President from 1977 to 1982 and Treasurer from 1969 to 1977 (Two executives).  He died in Bologna on 16 June 2000.

The contribution to psychoanalysis.

Glauco Carloni has assumed a central role in the spread of psychoanalytic culture in Italy.  In addition to the great merit of having made known to the Italian public and to professionals authors little known in Italy as Balint, Rank, Roheim, Jones, Lewin, Bonaparte, Salomé and many others, he edited,  together with Egon Molinari, the first italian translation of the work of Sandor Ferenczi Foundations of Psychoanalysis,  bringing his valuable insights and enriching them with his personal contributions (see “Tatto, contatto e tattica” and “Lo stile materno”), in his teaching and clinical practice so to influence the whole “school” in Bologna. In his work as a Training Psychoanalyst he has also deepened with numerous works on the subject of growth of the ‘psychoanalytic identity (“Identità personale e professionale dello psicoanalista”) and therapeutic vocation, with its pathological motivations that make inevitable the need to undergo a personal analysis (see “Sofferenza psichica e vocazione terapeutica”).
Careful observer of the discomforts of modern society, he provided a key to understand it psychoanalytically through an accessible and immediate language (La mamma cattiva written with Daniela Nobili).

He dealt with many topics considered “borderline” between psychoanalysis and other sciences or artistic productions (fairy tale, literature, cinema, theater). He organized many collaborations and seminars, also international,  the first ” Psychoanalytic Film Club” in Bologna. Moreover, he created the third training center in Italy, the Section Veneto- Emiliana.

Cronologia degli scritti

1.Carloni G., 1958. Contributo allo studio dell’alcoolismo. Rivista di Neuropsichiatria e Scienze Affini, 4: 47-67.

2.Carloni G., Spadoni A., 1959. Dell’opportunità di conservare e limitare l’uso del termine “schizomania”. Rivista Sperimentale di Freniatria, 83(3): 1070-1078.

3.Bosinelli M., Carloni G., 1960. I concetti di ansia e di angoscia. Criteri e limiti per una distinzione. Monografia di 249 pp. Supplemento alla Rivista Sperimentale di Freniatria, 84(5). Reggio Emilia, AGE.

4.Carloni G., Spadoni A., 1960. Tre anni di esperienze cliniche sull’impiego dell’iproniazide in sindromi depressive. Riv. Neuropsichiatria e scienze affini, anno VI, 2.

5.Carloni G., 1963. Traduzione di: Parin P., Morgenthaler F. e Parin-Matthèy G., Il complesso edipico nei Dogon dell’Africa Occidentale. Rivista di Psicoanalisi, 9: 143-150.

6.Carloni G., 1963. La fiaba al lume della psicoanalisi. Rivista di Psicoanalisi, 9: 169-186.

7.Carloni G., Di Giorgio A., Gozzi M.T., Vanzelli U., 1965. Bonifica dell’ambiente familiare in situazioni di disadattamento. La psicoterapia di gruppo alle madri di preadolescenti nevrotici. Rivista Italiana di Sicurezza Sociale, 3: 282-286.

8.Carloni G., 1965. Recensione a: G. Abraham, Psychodynamique essentielle, normale et pathologique. Parigi, Doin, 1964. Rivista Sperimentale di Freniatria, 83.

9.Carloni G., Spadoni M.G., 1965. Può l’assistente sociale svolgere un lavoro psicoterapico in ospedale psichiatrico? Istituto Italiano di Medicina Sociale, Roma.

10.Carloni G., Spadoni M.G., 1966. Psychothérapie de groupe de psychotiques à l’intérieur d’un hôpital psychiatrique. L’information Psychiatrique, 42: 235-240. (Traduzione francese di Carloni G. & Spadoni M.G., 1965).

11.Carloni G., 1967. I mostri delle fiabe. Atlante, 7: 70-77.

12.Balloni A., Carloni G., Montanini-Manfredi M., 1968. Considerazioni sui comportamenti sessuali devianti nella dissocialità minorile. Il Lavoro Neuropsichiatrico, 44: 1-4.

13.Carloni G., 1968. Motivazioni e meccanismi di adattamento. Assistenza Psichiatrica e Vita Sociale, 4: 9-25.

14.Carloni G., 1968. Erotomania, suicidio e riparazione. Rivista di Psicoanalisi, 14: 133-153.

15.Carloni G., 1968. Ernst Kris: Ricerche psicoanalitiche sull’arte, Einaudi, Torino, 1967. Il Verri, 28: 105-108.

16.Carloni G., 1968. Rivalutazione psicoanalitica della fiaba. Contributi dell’Istituto di Psicologia dell’Università di Bologna, pp.1-12.

17.Carloni G., 1968. Indagine sul gradimento dei più popolari tipi di fiaba e interpretazione di una singolare censura. Aggiornamenti di Psicologia dell’Istituto di Psicologia dell’Università di Bologna, pp.1-19.

18.Carloni G., 1968. Biancaneve e Rosaspina. Il motivo della catatonia nella fiaba. Aggiornamenti di Psicologia dell’Istituto di Psicologia dell’Università di Bologna, pp.1-24.

19.Carloni G., Spadoni A., Zucchini G., 1968. Su un’esperienza di psicoterapia con psicotici all’interno dell’ospedale psichiatrico. Rivista di Neuropsichiatria e Scienze Affini, 14: 303-326.

20.Campiani C., Carloni G., Pasquali L., Pasquali M., Spadoni M.G., Volterra V., 1970. Condizioni esistenti per lo svolgimento di un’attività psicoterapica nelle istituzioni psichiatriche. Rivista di Psichiatria, 5: 1-12.

21.Carloni G., 1971. Introduzione e cura di: M. Bonaparte, Psicoanalisi e antropologia, Guaraldi, Firenze.

22.Carloni G., Nobili D., 1971. Le condotte perverse come espressione di una condizione confusionale. Rivista Sperimentale di Freniatria, 95: 3-17.

23.Carloni G., 1972. Introduzione a: G. Róheim, Gli eterni del sogno, Guaraldi, Firenze, pp.11-21.

24.Carloni G., 1972. Sole, fiabe e Freud. In tema di, febbraio: 10-13.

25.Carloni G., 1972. Fiaba come sonnifero. In tema di, settembre: 14-17.

26.Carloni G., Molinari E., 1972. Introduzione e cura di: S. Ferenczi, Fondamenti di psicoanalisi, vol. I, Le parole oscene e altri saggi, Guaraldi, Firenze, pp.7-13.

27.Carloni G., Nobili D., 1972. Il Figlicidio. Parte I. Rivista Sperimentale di Freniatria, 96: 1093-1131.

28.Carloni G., Nobili D., 1972. Il Figlicidio. Parte II. Rivista Sperimentale di Freniatria, 96: 1337-1380.

29.Carloni G., Nobili D., 1972. Il Figlicidio. Parte III. Rivista Sperimentale di Freniatria, 96: 1593-1612.

30.Carloni G., 1973. Introduzione e cura di: G. Róheim, Le porte del sogno. Il ventre materno, Guaraldi, Firenze, pp.7-10.

31.Carloni G., 1973. La sana criminalità infantile. In: S. Manes, Racconti della Rustica. Guaraldi, Firenze.

32.Carloni G., 1973. Introduzione e cura di: G. Róheim, Le porte del sogno. La discesa agl’inferi, Guaraldi, Firenze, pp.3-4.

33.Carloni G., 1973. Introduzione e cura di: S. Ferenczi, Fondamenti di psicoanalisi, vol. II, Scritti sulla terapia attiva, Guaraldi, Firenze, pp.11-15. (In collaborazione con E. Molinari)

34.Carloni G., Molinari E., 1973. Introduzione e cura di: S. Ferenczi, Fondamenti di psicoanalisi, vol. III, Psicoanalisi delle abitudini sessuali e altri saggi, Guaraldi, Firenze, pp.11-15.

35.Carloni G., 1974. Introduzione e cura di: G. Róheim, L’enigma della sfinge, Guaraldi, Firenze, pp.7-11.

36.Carloni G., 1974. Introduzione e cura di: S. Ferenczi, Fondamenti di psicoanalisi, vol. IV, Articoli commemorativi, recensioni e presentazioni, Guaraldi, Firenze, pp.7-8.

37.Carloni G., Molinari E., 1975. Cura di: S. Ferenczi, Fondamenti di psicoanalisi, vol. V, Indice analitico, Guaraldi, Firenze.

38.Carloni G., Nobili D., 1975. La mamma cattiva. Guaraldi, Firenze, 208 pagg.

39.Carloni G., Nobili D., 1975. Madri cattive e cattive madri. Rivista Sperimentale di Freniatria, 99: 3-39.

40.Carloni G., 1976. Le nevrosi. In: L. Visconti, Professore sono malato?, I Quaderni del Carlino, pp.70-76.

41.Carloni G., 1976. Profumi e psicologia. Imagine, 2: 22-25.

42.Carloni G., 1976. Introduzione a: Mussolini contro Freud, a cura di P. Meldini, pp. 7-12. Guaraldi, Firenze.

43.Carloni G., 1976. Intervento al panel: L’aborto come vissuto nella realtà psichica e nel mondo esterno. Rivista di Psicoanalisi, 22: 291-294.

44.Carloni G., 1977. Psicoanalisi di sinistra e sinistra della psicoanalisi. Psicologia contemporanea, 4: 50-51.

45.Carloni G., 1977. Madre e figlio. In: Psicosomatica, il medico e la donna, a cura di R. Speziale Bagliacca, pp. 41-66. Serono Symposia, Genova, Rivarolo.

46.Carloni G., 1977. L’invidia per lo psicoanalista nelle istituzioni. In: Psicoanalisi e istituzioni, Atti del Convegno internazionale tenuto all’Università di Milano, 30 ottobre–1 novembre 1976, a cura di F. Fornari, pp.83-88. Le Monnier, Firenze.

47.Carloni G., Nobili D., 1977. La mauvaise mère. Payot, Paris. Prima delle due edizioni della traduzione francese di “La mamma cattiva”.

48.Carloni G., 1978. Il trattamento sanitario obbligatorio è sostanzialmente più illiberale della precedente coazione per pericolosità. I Martedì, 5: 13-14 e 23-24.

49.Carloni G., 1978. In memoria di Fabio Zambonelli. Rivista di Psicoanalisi, 24: 179-180.

50.Carloni G., 1979. La malattia mentale esiste. (Intervista di C. Bianchi.) Bologna incontri, 10(2): 16-20.

51.Carloni G., 1980. Introduzione a: G. Trombi, Psicoanalisi e comportamento criminale, Patron, Bologna.

52.Carloni G., 1981. Identità personale e professionale dello psicoanalista. Rivista di Psicoanalisi, 27: 123-126.

53.Carloni G., 1981. L’identità professionale dello psicoanalista. Rivista di Psicoanalisi, 27: 154-164.

54.Carloni G., 1981. Introduzione a: G. Fara e P. Cundo, Psicoanalisi, romanzo borghese, Martinelli, Firenze.

55.Carloni G., 1981. Aspetti psicologici e psicoanalitici dei racconti di fiabe. Quaderni di Libri e Riviste d’Italia, 15: 15-54.

56.Carloni G., 1982. Sofferenza psichica e vocazione terapeutica. In: Itinerari della psicoanalisi, a cura di G. Di Chiara, pp.13-48, Loescher, Torino.

57.Carloni G., 1982. L’identità dello psichiatra. Recenti progressi in Medicina, 72: 558-561.

58.Carloni G., 1982. Lo spazio della psicoterapia e il posto degli psicoterapeuti. Giornale Italiano di Psicologia, 98: 191-195.

59.Carloni G., 1982. Evoluzione del concetto di malattia mentale e i suoi risvolti in riferimento alla legge 180. Tavola Rotonda, Roma, 1982. Atti e Memorie dell’Accademia di Storia dell’Arte sanitaria, 1: 38-42.

60.Carloni G., 1982. Il concetto di abuso. In: Abusi e violenze all’infanzia, a cura di V. Caffo, pp. 107-111 e 119-120. Unicopli, Milano.

61.Carloni G., 1982. Prefazione a: F. Giberti, L’identità dello psichiatra. Problemi e prospettive. Il Pensiero Scientifico, Roma.

62.Carloni G., 1983. Con Melanie Klein e Anna Freud. Rivista di Psicoanalisi, 29(4): 429-434.

63.Carloni G., 1983. Siamo tornati al medioevo: accattonaggio per gli psicotici tranquilli, galera per gli agitati, suicidio per i disperati. Provincia (mensile dell’Amministrazione Provinciale di Bologna), 12(3): 14-15.

64.Carloni G., 1983. Il gioco dello psicoanalista. I Martedì, 7(3): 27-30.

65.Carloni G., 1984. Follia di sempre e pregiudizi nuovi. I Martedì, 8(9-10): 22-23.

66.Carloni G., 1984.Il trauma della nascita e la nascita di una rivista. Rivista di Psicoanalisi, 30(4): 494-508.

67.Carloni G., 1984. La depressione come sofferenza psichica fondamentale. In: Medicina psicosomatica e depressione: Nuove Diagnostiche, a cura di G. Trombini, pp. 55-64, Patron, Bologna.

68.Carloni G., 1984. La divergenza nell’ortodossia: Sándor Ferenczi e la sua Scuola. Il Piccolo Hans, 44: 121-133.

69.Carloni G., 1984. Otto Rank a sessant’anni dal “Trauma della nascita”. In: Il trauma della nascita e la nascita del trauma, a cura di E. Orlandelli et al., pp. 152-155, IES Mercury, Roma.

70.Carloni G., 1984. L’inflazione delle psicoterapie. Crescita, 11: 38-41.

71.Carloni G., 1984. Il gioco dello psicoterapeuta. In: Psicologia, Psicoanalisi e Istituti Socio-Sanitari, a cura di G. Pagliaro, pp. 189-194, Cluep, Padova.

72.Carloni G., 1984. Tatto, contatto e tattica. Rivista di Psicoanalisi, 30: 191-205.

73.Carloni G., 1984. Editoriale. Rivista di Psicoanalisi, 30: 491-493.

74.Carloni G., 1984. L’ultima Bonaparte di Celia Bertin. Rivista di Psicoanalisi, 30: 637-642.

75.Carloni G., 1985. Il sogno. In: Dieci psicoanalisti spiegano i temi centrali della vita, a cura di S. Rossini, pp. 127-150, Rizzoli, Milano.

76.Carloni G., 1985. Alla ricerca della chiarezza. I Martedì, 9(5): 19-20.

77.Carloni G., 1985. Franco Fornari 1921-1985. Rivista di Psicoanalisi, 31: 595-597.

78.Carloni G., 1985. La fuga dalla realtà. I Martedì, 9(5): 48-50.

79.Carloni G., 1985. Miopia e lungimiranza. In: Alla fine del buio, a cura di F. Verzella, pp. 51-55, Sugarco, Milano.

80.Carloni G., 1985. Il Laboratorio Psicoanalitico. Atti del Corso di aggiornamento clinico terapeutico 1984-85 per i medici di medicina generale e periatria, suppl. n.13(4). Bollettino Notiziario dell’Ordine dei Medici della Provincia di Bologna, 19: 85-87.

81.Carloni G., 1985. L’ansia come freno e come stimolo alla creatività. In: Psicologia e creatività, AA.VV., pp. 156-164, Selezione dal Reader’s Digest, Milano. (con dibattito pp. 170-173, Raccolta degli atti, convegno del 6 Febbraio 1985, MI)

82.Carloni G., 1985. Introduzione a: Psicosi e Arte. In: Atti del Convegno “Le psicosi e la Maschera”, a cura di E. Orlandelli, pp.120-121, IES Mercury, Roma.

83.Carloni G., 1985. Cinema e psicoanalisi. Cineteca, Perizoma, 3 maggio.

84.Bertini M., Cancrini L., Carloni G., Ossicini A., 1986. Psicoterapia la legge difficile. Tavola rotonda. Rinascita, 43, 15 (19 aprile): 12-14.

85.Carloni G., 1986. Le responsabilità di uno psicoanalista. Psicologia Clinica, 4: 115-121.

86.Carloni G., 1986. Gattini ciechi. Giornale Italiano di Psicologia, 13(3): 343-348.

87.Carloni G., 1986. Le nostalgie di Freud. Il Piccolo Hans, 50: 51-58.

88.Carloni G., 1986. Prefazione a: A. Freud, Conferenze per insegnanti e genitori. Boringhieri, Torino.

89.Carloni G., 1986. Presentazione di: M. Spira, Creatività e libertà psichica, Borla, Roma.

90.Carloni G., 1986. Cinema e psicoanalisi: 2° incontro. Cineteca, Bologna, 2: 3.

91.Carloni G., 1986. Alle sorgenti della creatività e della sterilità. In: La Sterilizzazione Volontaria. Atti del Congresso Internazionale sulla sterilizzazione, a cura di F. Bottiglioni e E. Guerresi, pp. 167-174, Monduzzi, Bologna.

92.Carloni G., 1987. La psicoanalisi torna a Trieste. In: La cultura psicoanalitica, a cura di A.M. Accerboni, pp. 11-21, Studio Tesi, Pordenone.

93.Carloni G., 1987. Mistero, magia e meraviglia. In: La cultura psicoanalitica, a cura di A.M. Accerboni, pp. 735-746, Studio Tesi, Pordenone.

94.Carloni G., 1987. La fiaba nella psicoanalisi, la psicoanalisi nella fiaba. In: Psicoanalisi e narrazione, a cura di E. Morpurgo, pp. 23-32, Il Lavoro Editoriale, Ancona.

95.Carloni G., 1988. Psicoanalisi. In: Quale psicoterapia?, a cura di S. Marhaba e M. Armezzani, pp.85-91, Liviana, Padova.

96.Carloni G., 1988. La psicoanalisi del cambiamento. In: Psicoterapia psicoanalitica, a cura di A. Arena e M. Casonato, pp. 29-44, Comune di Massa, Carrara.

97.Carloni G., 1988. La scuola ungherese. Un profilo storico-critico. In. Trattato di Psicoanalisi, Vol.1, a cura di A.A. Semi, pp.147-174 e 210-212, Cortina, Milano.

98.Carloni G., 1988. Presentazione e cura di: S. Ferenczi, Diario Clinico, Cortina, Milano.

99.Carloni G., 1988. History of the Italian Psychoanalytical Society. (I parte) News Letter, International Psychoanalytical Association, 20(3): 5-6.

100.Carloni G., 1988. Presentazione a: A.M. Accerboni, La Cultura Psicoanalitica. Rassegna di Psicologia, 5(3): 61-63.

101.Carloni G., 1989. Continuation of the History of the Italian Psychoanalytical Society. (2°parte) News Letter, International Psychoanalytical Association, 21(1): 3-4.

102.Carloni G., 1989. Dal restauro medicale alla ricreazione psicoanalitica. Il Piccolo Hans, 61: 47-63.

103.Carloni G., 1989. Tra memoria e desiderio. In: 20 anni al cinema d’essai, a cura di P. Bonfiglioli, p.24, Grafis, Bologna.

104.Carloni G., 1989. Freud e Mussolini. In: L’Italia nella psicoanalisi, a cura di A. Novelletto, pp.51-60, Enciclopedia Italiana, Roma.

105.Carloni G., 1989. Prefazione a: S. Ferenczi, Opere Vol. I, Cortina, Milano.

106.Carloni G., 1989. Nostalgia e necrofilia. In: La donna e la psicoanalisi, a cura di A.M. Accerboni, pp. 53-68, Rebellato, Treviso.

107.Carloni G., 1989. Fiabe. In: Trattato Enciclopedico di Psicologia dell’Età Evolutiva, Vol. II, Tomo I, a cura di M.W. Battacchi, pp. 535-546, Piccin Nuova Libraria, Padova.

108.Carloni G., 1989. Sessuali (Concezioni). In: Trattato Enciclopedico di Psicologia dell’Età Evolutiva, Vol. II, Tomo II, a cura di M.W. Battacchi, pp.1297-1305, Piccin Nuova Libraria, Padova.

109.Carloni G., 1989. Tragitti della nostalgia. In: Nostalgia, a cura di S. Vecchio, pp.119-130, Pier Luigi Lubrina, Bergamo.

110.Carloni G., 1990. Prefazione a: L. Pavan, Psicoanalisi, Medicina, Psichiatria: quale relazione?, Cortina, Milano.

111.Carloni G., 1990. Prefazione all’edizione italiana di: A. Haynal, Freud, Ferenczi, Balint e la questione della tecnica, Centro Scientifico Torinese, Torino.

112.Carloni G., 1990. Il dono dell’Hilara. In: Il simbolo, a cura di A. Racalbuto e M.R. De Zordo, pp. 91-98, Pier Luigi Lubrina, Bergamo.

113.Carloni G., 1990. Quel sesso così facile. I Martedì, 14(84): 21-23.

114.Carloni G., 1990. Pietro Veltri 1904-1989. Rivista di Psicoanalisi, 35: 473-477.

115.Carloni G., 1990. Formazione psicoanalitica e formazione dello psicoterapeuta. In: Formazione e Supervisione in Psicoterapia, a cura di A. Pazzagli, pp.7-13, Centro Scientifico Editore, Torino.

116.Carloni G., 1991. Restauro maniacale e riparazione psicoanalitica. (Riassunto). XIII Congresso Nazionale della Società Italiana di Medicina Psicosomatica e III Convegno Nazionale di Psicometria, Bologna, 2-4 maggio 1991, p.24. O.S., Firenze.

117.Carloni G., 1991. La pulsione filiale, la sessualità e i suoi mutamenti. Il Piccolo Hans, 69: 187-202.

118.Carloni G., 1991. Prefazione a: A. Pagnoni, Assenze, tradimenti, pp.7-8, Prometheus Editrice, Milano.

119.Carloni G., 1991. Angoscia, colpa e depressione. In: Al di là del senso di colpa, a cura di A. Lambertino, pp.137-148, Città Nuova Editrice, Roma.

120.Carloni G., 1991. Cura di: S. Ferenczi, Opere Vol. II, Cortina, Milano.

121.Carloni G., 1991. Psicologia della vacanza. In: Freud e il Trentino. Otium e scrittura a Lavarone, a cura di A.M. Accerboni, pp. 53-58, U.C.T., Trento.

122.Carloni G., 1991. Il terzo orecchio dello psicoanalista. I Martedì, 96: 32-33.

123.Carloni G., 1991. Il sogno nella storia della psicoanalisi. In: Sogni: figli d’un cervello ozioso, a cura di M. Bosinelli e P. Cicogna, pp.79-90, Bollati Boringhieri, Torino.

124.Carloni G., 1991. Il sogno nella pratica psicoanalitica di oggidì. In: Sogni: figli d’un cervello ozioso, a cura di M. Bosinelli e P. Cicogna, pp.149-160, Bollati Boringhieri, Torino.

125.Carloni G., 1991. Interventi al 9° Congresso della Società Psicoanalitica Italiana (17 maggio 1990). In: Gli affetti nella Psicoanalisi, a cura di G. Hautmann e A. Vergine, pp. 463-464, 604, 618-620, Borla, Roma.

126.Carloni G., 1991. Prefazione a: S. Augelli, La cura del sogno. ES, Bologna.

127.Carloni G., 1992. Psicoanalisi e Antropologia. In: Origini e sviluppi della psicoanalisi applicata, a cura di A.M. Accerboni, pp. 37-45, Edizioni Centro Studi Gradiva, Lavarone.

128.Carloni G., 1992. Sigmund Freud medico, scienziato e psicoanalista. Il mare in luce 9: 9-10, Comune di Riccione.

129.Carloni G., 1992. Cura di: S. Ferenczi, Opere Vol. III, Cortina, Milano.

130.Carloni G., 1993. Dal latte alla psiche. Atti del convegno: Il latte e il bambino, 47-60. C.E.R.P.L., Bologna.

131.Carloni G., 1993. Il destino dell’adulto nelle vicissitudini del bambino. Il riconoscimento psicoanalitico della dignità del bambino. In: La medicina psicosomatica in età evolutiva, a cura di V. Rossolini, pp.34-41, Graphos, Fano. (Atti del Congresso 28 giugno – 1 luglio)

132.Carloni G., 1993. Il bipartito giogo. “Il dramma del bambino dotato” Giacomo Leopardi. Psiche, 1(2): 301-307.

133.Carloni G., 1993. La psicoanalisi nella cultura italiana. In: Freud e la ricerca psicologica, a cura di R. Canestrari e P.E. Ricci Bitti, pp.53-77, Il Mulino, Bologna.

134.Carloni G., 1994. Le divergenze parallele del potere e del sapere. Psiche, 2: 210-214.

135.Carloni G., 1994. Sándor Ferenczi, pioniere e contemporaneo. Rimini, Congresso nazionale di psicoanalisi, 6-9 ottobre 1994.

136.Carloni G., 1994. Il malato terminale e la fase terminale di ogni psicoterapia. Reggio Emilia, Convegno sul malato terminale, 2 dicembre 1994.

137.Carloni G., 1995. Due gemelli centenari: cinema e psicoanalisi. Cineteca, 11(8): 4.

138.Carloni G., 1995. Fornari amico e maestro. Milano, 11-11-1995, Convegno su Franco Fornari.

139.Carloni G., 1996. La creatività come autoterapia. Fellini e l’importanza di non prendersi troppo sul serio. In: Fellini e dintorni, a cura di F. Monti e E. Zanzi, pp. 41-61. Il Ponte Vecchio, Cesena.

140.Carloni G., 1996. Da Ferenczi a Winnicott, lo stile materno. Milano, 15-16 giugno 1996, Convegno di studi winnicottiani.

141.Carloni G., 1997. Fellini e il pataca. In: Le frontiere della psicoanalisi, a cura di A.M. Accerboni e A. Schön, pp. 179-194, Borla, Roma.

142.Carloni G., 1997. L’acqua nella psicologia del profondo e nel linguaggio simbolico. Il fisioterapista, 3, 37.

143.Carloni G., 1997. Il padre, eterno? In: Il Padre, mito e realtà nella psicoanalisi e cultura. Itinerari psicoanalitici, (Verona, 4 ottobre 1997),Associazione Itinerari Psicoanalitici, Verona, pp. 25-36.

144.Carloni G., 1997. Introduzione a: G. Di Chiara e N. Pirillo, Conversazioni sulla psicoanalisi, Liguori, Napoli.

145.Carloni G., 1998. L’indiscreta solitudine di Narciso. In: Le ragioni della psicologia, a cura di M.W. Battacchi e altri, Franco Angeli, Milano.

146.Carloni G., 1998. Vent’anni dopo. I martedì.

147.Carloni G., 1998. Fascino e rifiuto della psicoanalisi. Psiche, 6, 181-187.

148.Carloni G., 1998. Lo stile materno. Rivista di Psicoanalisi, XLIV(4): 753-767. Relazione presentata al Congresso Internazionale “Ferenczi and Contemporary Psychoanalysis”, Madrid, 7 marzo 1998.

149.Carloni G., 1998. Prefazione a R. Reichmann, Otto Rank tra psicoanalisi e arte. CUEM,Milano, pp. 9-12.

150.Carloni G., 1999. Senza il nome del padre. Cineteca, 15(1): 8.

151.Carloni G., 1999. Il tempo della fiaba. In: Lo spazio narrativo: la fiaba e il gioco, a cura di F. Monti e F. Crudeli, pp. 21-32. Società Editrice Il Ponte Vecchio, Cesena.

152.Carloni G., 1999. Prefazione a: Genitori e figli in consultazione, a cura di E. Trombini, QuattroVenti, Urbino.

153.Carloni G., 1999. Prefazione a: La partecipazione affettiva dell’analista. Il contributo di S. Ferenczi al pensiero psicoanalitico contemporaneo, a cura di F. Borgogno, Franco Angeli, Milano.

154.Carloni G., 2000. Due sogni di uno psicoanalista attempato. Rivista di Psicoanalisi, XLVI(1):141-148.

155.Carloni G., 2000. Inconsci suggerimenti di un drammaturgo a degli sconosciuti professionisti della psiche. In: Tra psicoanalisi e teatro, a cura di E. Zanzi e S. Spadoni, pp. 73-82. Bulzoni, Roma.

156.Carloni G., 2000. Inconscio e coscienza nella prospettiva psicoanalitica. In: Coscienza. Storia e percorsi di un concetto, a cura di L. Gabbi e V.U. Petruio, capitolo VIII, pp. 93-107. Donzelli Editore, Roma.

157.Carloni G., 2001. Lo stile materno. In: La catastrofe e i suoi simboli, a cura di C. Bonomi e F. Borgogno, capitolo 13: pp. 257-269. Utet, Torino. (ripubblicazione)

158.Carloni G., 2001. Tragitti della nostalgia. In: La nascita della rappresentazione fra lutto e nostalgia, a cura di A. Racalbuto, M. La Scala e M.V. Costantini, capitolo , pp. 161-173. Borla, Roma. (ripubblicazione)

159.Carloni G., 2003. Le illusioni della psicoanalisi. In: L’illusione una certezza, a cura di A. Saraval, cap. V, pp. 87-100. Raffaello Cortina ed., Milano.

160. Carloni G., 2005 “La meravigliosa avventura della psicoanalisi. Scritti scelti 1974- 2001”    Guaraldi.  (Introduzione di Stefano Bolognini. Selezione a cura di  Angelo Maria Crisci, Magda C. Mantovani, Filippo Marinelli, Daniela Nobili ed Irene Ruggiero che hanno curato le diverse sezioni del volume. Prefazione di Mariella Schepisi)

Bibliografia su Glauco Carloni

Gino Zucchini “L’ultimo saluto a Carloni” Rivista di Psicoanalisi, 2000- 2. Pag 409-410

Vedi anche:

La Meravigliosa avventura della psicoanalisi

Breve storia del Centro Psicoanalitico di Bologna

“Alcuni contributi dalla letteratura psicoanalitica” a cura di Gabriella Giustino

4 Dicembre 2010 – BOLOGNA – Giornata Glauco Carloni – Centro Psicoanalitico di Bologna

Complesso Edipico
Fulchran, 1798

Fulchran, 1798

Complesso Edipico 

A cura di Francesco Conrotto

Con la formula “Complesso Edipico” si designa la struttura fondamentale delle relazioni affettive e interpersonali nelle quali è immerso l’essere umano. Lo si può intendere come la totalità della strutturazione psicoaffettiva degli umani. Il termine, che deriva dal tema della tragedia di Sofocle, fu adottato da Freud a partire dall’esperienza della propria autoanalisi (Laplanche e Pontalis, 1967 pag. 84) e dall’analisi dei suoi pazienti. In base a queste esperienze, Freud ha ipotizzato che l’affettività dei bambini si organizza in questo modo intorno ai tre-cinque anni di età (Freud, 1905) e che, fisiologicamente, questa organizzazione debba declinare all’epoca della latenza per subire poi una parziale riacutizzazione all’epoca della pubertà.

Fisiologicamente, questa organizzazione psicoaffettiva si struttura in un sentimento di attrazione amorosa nei confronti del genitore dell’altro sesso e di una gelosia e ostilità verso il genitore del proprio sesso. Questa è la forma “positiva” del Complesso Edipico che però, a volte, si presenta in forma “negativa”, cioè attraverso un amore per il genitore del proprio sesso e una ostilità verso quello dell’altro sesso. Secondo Freud, il Complesso Edipico costituisce l’elemento fondante della strutturazione della personalità umana e, qualora esso non dovesse essere superato, costituirebbe il nucleo di base di tutte le psicopatologie.

La strutturazione triangolare dell’Edipo è, dunque, il fondamento universale della vita psichica degli umani (Freud,1912-13) e le strutture che compongono il mondo fantasmatico degli umani, i cosiddetti “Fantasmi Originari” – cioè la seduzione, la scena primaria e la castrazione, sono apparentate al Complesso Edipico che ne rappresenta lo sviluppo complessivo. Anche la formazione del Super-Io sarebbe il risultato della introiezione del divieto paterno di intrattenere relazioni sessuali con i genitori, i fratelli e i membri della famiglia in generale e così anche l’ “Ideale dell’Io”, inteso come espressione dell’ideale al quale il soggetto aspira di poter diventare.

Nella prospettiva freudiana esiste una fase precedente alla nascita del Complesso Edipico che può essere definita “fase preedipica”.  Questa sarebbe una situazione di tipo duale dominata da sentimenti ambivalenti di amore e ostilità del bambino, sia di sesso maschile che femminile, verso la madre (Freud,1931). Secondo M. Klein, il Complesso Edipico è presente sin dai primi mesi di vita dell’infante.

Dobbiamo a J Lacan (1960) un interessante sviluppo del concetto di Complesso Edipico. Secondo questo autore, il divieto paterno all’intimità sessuale verso i genitori si estende all’introiezione  di quelle che sono le leggi che regolano la convivenza umana in generale. In una serie di articoli, egli introduce la formula “Nome del Padre” che definisce l’accettazione della legge e segna il passaggio da una condizione potenzialmente psicotica e pre-umana a quella umana. Infatti, a suo parere gli psicotici non avrebbero interiorizzato la “legge del Padre” e quindi sarebbero al di fuori della sanità mentale. Questa posizione di Lacan si collega alla tesi di Lévi-Strauss secondo la quale il divieto dell’incesto costituisce una legge universale che differenzia lo stato della civiltà umana dallo stato di natura ( Laplanche Pontalis, 1967 pag.88).

Bibliografia 

Freud S. (1905) Tre saggi sulla teoria sessuale, OSF, 4

Freud S. (1912-13) Totem e tabu, OSF 7

Freud S. (1931) Sessualità femminile, OSF,11

Lacan J. (1960) Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio.  In Scritti, Einaudi, 1974.

Laplanche J Pontalis J.B (1967) Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, Roma,1968

Consultazione partecipata
Consultazione partecipata

Louise Bourgeois

A cura di Giovanna Maggioni

Con questo termine Dina Vallino ha voluto indicare un percorso di consultazione psicoanalitica, rivolto a genitori e figli in età evolutiva. E’ un lavoro che non esclude la psicoanalisi individuale del bambino, ma la amplia, perchè coinvolge i genitori nella responsabilità della cura dei figli, prima di qualsiasi percorso clinico. E’ un tipo di intervento che esplora le problematiche che emergono in consultazione, per come si presentano nell’hic et nunc della seduta, rimandando ad un momento successivo progetti di approfondimento a più lungo raggio. Il setting prevede alcuni incontri articolati nel modo seguente: 1 colloquio con i genitori, 1 seduta di entrambi i genitori con il figlio/a, 1 seduta della madre con il figlio/a, una seduta del padre con il figlio/a, 1 colloquio con i genitori in corso d’opera, una seduta di restituzione con il figlio/a. Sebbene tale modalità di consultazione si sia rivelata utile anche in adolescenza, tuttavia è stata prevalentemente proposta a genitori, i cui figli avevano un’età compresa tra la prima infanzia e la preadolescenza ( 0- 12 anni). E’ richiesta al terapeuta una formazione psicoanalitica al lavoro con gli adulti, con i bambini e con gli adolescenti, che preveda una personale esperienza di Infant-Observation.

La Consultazione partecipata è nata, infatti, da un lungo lavoro di ricerca che Dina Vallino ha svolto nel campo dell’Infant-Observation, a partire dagli anni 80, come una estensione dell’Infant- Observation stessa. La pratica dell’Infant- Observation, è una esperienza formativa fondante la consuetudine nell’osservatore di stare con i genitori e il loro bambino, tutti insieme, ed è importante per affrontare l’ignoto della famiglia, in quanto aiuta ad avere congetture semplificanti la complessità. Questo lavoro di ricerca permette di conoscere i genitori sul campo (nella loro relazione con il bambino) e il bambino sul campo (nella sua relazione coi genitori al variare della sua età) e insegna a cogliere l’atmosfera emotiva in una famiglia. Nel primo colloquio di consultazione col terapeuta, generalmente i genitori espongono spontaneamente le ragioni della loro richiesta d’aiuto, cioè il disagio del figlio e le difficoltà che incontrano nel relazionarsi a lui. Talvolta è la prima occasione che i genitori hanno di chiedere aiuto, in altri casi invece è già stato compiuto un percorso psicodiagnostico o terapeutico e i genitori vorrebbero essere aiutati a comprendere meglio il lavoro svolto, o iniziare una terapia. L’atteggiamento mentale del terapeuta in questo primo incontro, è volto principalmente a facilitare la comunicazione dei genitori intorno al disagio del figlio, sospendendo temporaneamente, per quanto possibile, ogni “pregiudizio di valutazione ”. Il terapeuta deve accogliere l’emotività dei genitori, che si svela nel racconto di semplici episodi della vita quotidiana, incoraggiando domande e osservazioni, cercando sì di intercettare la sofferenza nascosta dietro i sintomi, ma astenendosi da premature ipotesi diagnostiche e da interventi intrusivi o troppo saturi. Ciò che è importante nel primo colloquio è permettere ai genitori di vivere un sentimento di minore solitudine rispetto al loro problema. E’ proprio per favorire la speranza di una possibile condivisione che il terapeuta propone ai genitori il progetto della consultazione partecipata e quindi le sedute congiunte con il figlio. Il terapeuta può invitare i genitori, se lo desiderano, a scegliere con il figlio/a documenti familiari ( foto, disegni, oggetti particolarmente significativi) da portare all’incontro successivo. E’ anche importante informarsi dai genitori sui giochi preferiti dal figlio, per potere, per quanto è possibile, predisporre adeguatamente la stanza per la seduta familiare. Le sedute congiunte naturalmente differiscono tra loro a seconda del tipo di psicopatologia e dell’età: é possibile comunque individuare un minimo comune denominatore. Il terapeuta, dopo aver dato alcune spiegazioni su ciò che si può fare insieme nella stanza, e cioè giocare, disegnare raccontare piccole storie con mamma e papà, si lascerà permeare dall’atmosfera emotiva dell’incontro, esercitando per quanto possibile la sua capacità negativa. E’ opportuno astenersi dal parlare con i genitori “del figlio” in sua presenza, incoraggiando invece per quanto possibile l’interazione con lui, attraverso semplici commenti e domande che permettano di sviluppare il gioco, il racconto il disegno.  Una possibilità di avviare la seduta potrebbe essere per esempio quella di commentare insieme i documenti affettivi, ricostruendo momenti della storia familiare: nasce così una prima narrazione condivisa. Osservare, e giocare insieme a genitori e figli ci permette di intercettare il fraintendimento inconscio, cioè il disturbo della comunicazione familiare. Il fraintendimento deriva da un’attribuzione da parte dei genitori al figlio di qualcosa che non gli appartiene ed è pertanto un concetto strettamente collegato a quello di identificazione proiettiva patologica.  Attraverso le sedute congiunte, il disagio del figlio trova una nuova modalità per essere raccontato e rappresentato davanti ai genitori (ad esempio un bambino con angosce persecutorie ha raccontato la storia di un terribile formicone che distruggeva tutto senza lasciare scampo). Lo sviluppo di un nuovo linguaggio, quello delle rappresentazioni condivise in seduta, permette di dare ai sintomi nuovi significati e dunque di introdurre una novità nel funzionamento del pensiero gruppale.

Nel colloquio con i soli genitori il terapeuta può commentare ciò che è avvenuto nella stanza con il figlio ponendo delle domande. Per esempio ci si può interrogare sul perchè di un certo gioco, come è iniziato, perchè si è interrotto, favorendo così la capacità dei genitori di sviluppare una sorta di identificazione con il terapeuta, che possa permettere loro di non sentirsi estromessi dal rapporto con il loro figlio, e di comprendere cosa avviene nella consultazione. Durante il colloquio si valuta insieme la situazione e come proseguire. E’ possibile che dalla consultazione scaturisca la domanda di una terapia per i genitori e/o per il figlio. Può accadere però che la famiglia non sia ancora pronta ad accogliere il progetto di una psicoterapia, oppure che il disagio, non si sia ancora strutturato in una psicopatoplogia conclamata ma che mantenga una certa mobilità ( come per esempio nei disturbi reattivi). In tali casi è opportuno proporre di prolungare la consultazione partecipata e il terapeuta continuerà a lavorare alternando le sedute con figlio e i genitori alle sedute con i soli genitori e anche, se possibile, con il solo figlio. Quando la consultazione diviene dunque prolungata? La consultazione diviene una Consultazione partecipata prolungata per creare le condizioni di una successiva psicoterapia per il figlio e/ o per i genitori oppure per svolgere, attraverso il chiarimento del fraintendimento inconscio nella relazione genitori figli, un’azione preventiva nei confronti dello sviluppo di una più severa psicopatologia.

Per esempio il gioco del negozio delle scarpe “ scoppiate ” ripetutamente proposto da una bimba di 4 anni, in una sequenza di sedute in presenza della mamma, ha permesso di iniziare ad avvicinare un nucleo simbiotico nella relazione mamma figlia, che rendeva la coppia particolarmente tirannica e rabbiosa, preparando così la strada per una successiva psicoterapia). Fraintendimenti di vario genere da parte dei genitori, mancanza di reverie, identificazione proiettive intrusive, costituiscono l’ingrediente principale dell’incomprensione verso i figli, i quali a loro volta rispondono con rimozione, scissione, ricerca di una identità adesiva, identificazione introiettiva patologica e disturbi vari a livello del super-Io e dell’Io ideale.

Anche la seduta di restituzione al figlio, che conclude la prima serie di incontri della Consultazione partecipata avviene in presenza dei genitori.  Durante questa seduta sarà espresso il progetto terapeutico al figlio, naturalmente secondo modalità adeguate all’età e alla condizione psicologica, e si valuterà la risposta, rispettando la sua intenzionalità. ( Pedro un bimbo di 6 anni gravemente carenziato, nella seduta di restituzione, accompagna le parole della terapeuta, che propone di prolungare la consultazione con un gioco dove alcune macchinine che hanno subito gravi incidenti devono essere riparate. Coinvolge anche mamma, papà e terapeuta nel gioco, quasi ad indicare la necessità di un lavoro comune. E’ stato necessario lavorare per un certo periodo con mamma e papà e bambino, prima di pensare ad una psicoterapia ).

La Consultazione partecipata, ha suscitato interesse in alcuni colleghi della S.P.I che lavorano con bambini e in alcuni terapeuti esterni con formazione psicoanalitica, e ha trovato uno spazio di studio, ricerca e applicazione presso alcune sedi universitarie (Torino, Brescia, Venezia, Bologna) e presso alcune strutture per la prevenzione e la cura in età evolutiva. Nel Training S.P.I (sezione milanese ) dal 2010 Dina Vallino tiene per i candidati seminari sulla Consultazione partecipata. Durante il corso di Perfezionamento S.P.I. per l’Analisi di Bambini e Adolescenti, nel 2008, è stato possibile presentare e discutere casi riguardanti l’argomento. L’interesse di molti colleghi ha permesso di costituire un gruppo di ricerca e applicazione intorno a questo lavoro, di approfondire ed esplorare la metodologia stessa e il campo di applicazione.

BIBLIOGRAFIA

Vallino D. ( 1984), L’avvio della consultazione partecipata. In ( a cura di M.L.Algini) Sulla storia della psicoanalisi infantile ( 2007). Quaderni Psicoter.Inf. n55, Borla, Roma.

Vallino D.(1998) Raccontami una storia. Dalla consultazione all’analisi di un bambino. Borla. Roma

AA.VV. (1999) In ( a cura di A.Ferro e F. Borgogno) “ La storia ” e il Luogo Immaginario. Quad.Psicoter.Inf., 41.

Vallino D., Maccio’ M. (2004 b) Essere Neonati. Osservazioni psicoanalitiche. Borla. Roma

Vallino D. ( 2009) Fare Psicoanalisi con Genitori e Bambini. Borla. Roma

AA.VV.(2011) In ( a cura di M.Macciò e D.Vallino) Famiglie. Quad.Psicoterap.Inf, 63

ATTI-Convegno Osservatorio del C.M.P., Milano13 Aprile 2013. Psicoanalisti e genitori: come lavorare insieme. Dina Vallino. Incontrare l’inconscio di bambini e genitori con il gioco e con l’osservazione. Proposte della consultazione partecipata prolungata.

Controtransfert
Controtransfert

Dal film Prendimi l'anima di R. Faenza

A cura di Irene Ruggiero

La concezione “classica” del controtransfert.

Freud (1910, 1912) definisce il controtransfert, allora chiamato controtraslazione, una forza interna che si attiva per influsso del paziente sui sentimenti inconsci dell’analista, determinando delle “macchie cieche” che ostacolano le sue capacità di comprensione dell’inconscio del paziente. La contro traslazione si connota dunque come una resistenza inconscia dell’analista. Preoccupato che il controtransfert mini la credibilità della nascente psicoanalisi, esponendola a critiche di scarsa serietà e scientificità, Freud lo considera un inconveniente spiacevole, seppure inevitabile, come panni sporchi da lavare in famiglia (1911).

Freud raccomanda pertanto agli analisti di mantenere un’attenzione fluttuante nell’ascolto del paziente e di attenersi a quella neutralità che rappresenta a quel tempo il modello ideale di funzionamento analitico, di procedere durante il trattamento psicoanalitico come “il chirurgo, il quale mette da parte tutti i suoi affetti e perfino la sua umana pietà nell’imporre alle proprie forze intellettuali un’unica meta: eseguire l’operazione nel modo più corretto possibile” (1912, 536).   Tuttavia, poiché “ogni psicoanalista procede esattamente fin dove glielo consentono i suoi complessi e le sue resistenze interne” (1912, 201), per potersi servire “del suo inconscio come di uno strumento per l’analisi”, il medico deve sottoporsi a una “purificazione psicoanalitica”, che in un primo tempo Freud ritiene attuabile attraverso l’autoanalisi.  Successivamente, è proprio la constatazione dell’inevitabilità del controtransfert, la scoperta dei potenziali ostacoli rappresentati dalle rimozioni e dagli affetti non padroneggiati dell’analista, ad indurlo a porre l’analisi personale del futuro analista come la base della formazione: infatti, solo se “purificato”, l’analista potrà “come una lastra di specchio mostrare [al paziente] soltanto ciò che gli viene mostrato”.

L’idea che il controtransfert rappresenti un ostacolo nel processo di rendere conscio l’inconscio, considerato all’epoca lo scopo del trattamento psicoanalitico, si mantiene sostanzialmente immutata per molto tempo e rimane il nucleo di quella che Kernberg (1965) definisce la concezione “classica” del controtransfert. Essa presuppone coerente un modello del processo analitico in cui il paziente rappresenta l’oggetto da conoscere e l’analista l’osservatore tendenzialmente neutrale.  In questo modello, il controtransfert, che inquina questa distinzione di ruoli, non dovrebbe idealmente esistere (Albarella e Donadio, 1998).

Il controtransfert (e in generale il tema degli affetti dell’analista), la cui inevitabilità costituisce un’imbarazzante evidenza dei limiti dell’analisi personale – tema su cui Freud tornerà successivamente (1937) – viene così sostanzialmente trascurato per molti anni, con sparute eccezioni (il contributo di Ferenzci – pioniere nel riconoscimento del valore positivo degli affetti dell’analista e nella critica del mito della “neutralità analitica” – e dei Balint che, nel 1939, propongono di allargare il concetto di contro-transfert alla totalità dei sentimenti dell’analista verso il paziente).

Secondo Kernberg (1965), è l’ideale della neutralità analitica, agendo come istanza superegoica, a ritardare l’esplorazione delle potenzialità del controtransfert. Per poterle riconoscere, occorre che si modifichino la concezione dell’analisi e si sviluppi l’idea che essa costituisce una relazione tra due persone, che le coinvolge entrambe, sia pure con modalità e funzioni differenti.

La svolta degli anni ‘50.

E’ soprattutto il concetto di identificazione  proiettiva introdotto da Klein (1946) e sviluppato da Bion nei suoi aspetti più comunicativi, a modificare il clima e a creare le condizioni per la valorizzazione del controtransfert, che trova il suo fulcro all’inizio degli anni ‘50, con i lavori contemporanei ma indipendenti della Heimann (1950) in Inghilterra e di Racker (1953; 1957; 1958) in Argentina.

Partendo dalla critica all’ideale di un analista “distaccato”, Heimann sottolinea che la natura più profonda della situazione analitica è costituita dall’essere una relazione tra due persone e che ciò che la rende specifica non è l’assenza di sentimenti nell’analista, bensì la sua capacità di sostenerli ed elaborarli invece di scaricarli. Affermando che il controtransfert costituisce “una creazione del paziente della mente dell’analista”, e quindi una via di accesso ai suoi affetti inconsci, Heimann capovolge la concezione freudiana.  L’attenzione fluttuante va dunque integrata con risposte emotive fluttuanti.  Anche se non le sfugge il rischio che l’analista attribuisca al paziente ciò che invece gli appartiene, la Heimann ritiene che, essendo troppo arduo distinguere il transfert dell’analista sul paziente dal controtransfert vero proprio, sia opportuno includere nel controtransfert la totalità degli affetti che l’analista prova verso il paziente.

In grande consonanza con Heimann, Racker – partendo dalla critica del “mito della neutralità analitica” – attribuisce la prolungata sottovalutazione dell’importanza del contro-transfert all’”idea illusoria che l’analisi sia l’interazione tra una persona malata e una sana” (1957, 177). Anch’egli considera gli affetti dell’analista un prezioso strumento di lavoro: in un primo tempo, l’analista non può che sopportare il controtransfert (l’effetto degli affetti del paziente, che gli vengono “comunicati” senza la mediazione del linguaggio verbale); successivamente, sarà l’analisi del contro-transfert a rendere comprensibili e rappresentabili gli affetti e le emozioni, che formeranno la base di interpretazioni efficaci e vitali. Così, anche le reazioni controtransferali più patologiche possono essere utilizzate per comprendere il transfert del paziente e la natura del rapporto analitico.

Questa importante svolta nel modo di concepire la relazione tra analista e paziente contribuisce al superamento dei precedenti limiti di analizzabilità: la valorizzazione della dimensione preverbale nell’analisi (in quanto le emozioni dell’analista diventano un canale privilegiato per accedere a quanto il paziente non può rappresentare ed esprimere attraverso il linguaggio) consente l’estensione del trattamento psicoanalitico ai casi limite e ai pazienti con personalità narcisistica, e facilita la via all’allargamento dell’analisi ai bambini e agli adolescenti.

Il concetto di contro-transfert della Heimann e di Racker si fonda su quello di identificazione proiettiva (M. Klein, 1946); alla base di esso, è il modello della relazione madre-infante, che verrà ulteriormente sviluppato da Bion, con una specifica sottolineatura delle funzioni comunicative dell’identificazione proiettiva e della sua elaborazione attraverso la reverie materna, volta a contenere, trasformare e dare un senso alle proto-emozioni (elementi sensoriali grezzi) del bambino, in modo che egli non ne sia sommerso.

I loro scritti avviano ampie rivisitazioni del concetto di controtransfert, a partire dalla sua stessa definizione, e discussioni accese sulla sua origine, il suo significato, il modo di utilizzarlo. Molti autori ne estendono il significato ben oltre i confini della concezione freudiana, fino ad includervi tutte le fantasie e i sentimenti dell’analista nei confronti del paziente (concezione “globalista”), ne evidenziano il ruolo di strumento atto a favorire un accesso diretto ai livelli più primitivi e meno strutturati della mente del paziente, sottolineano ruolo cruciale che nell’esperienza analitica giocano elementi quali il silenzio, il preverbale, il gioco e l’illusione ed evidenziano il contributo del paziente nel produrre le risposte controtransferali dell’analista, valorizzando gli aspetta relazionali e simmetrici della relazione analitica.  Autori come Winnicott (1947; 1960), Searles (1958), la Little (1951) e la Tower (1956) contribuiscono alla comprensione delle emozioni controtransferali, ciascuno dal proprio punto di vista, accomunati però dalla concezione della situazione analitica come una relazione attraversata da continue e reciproche comunicazioni inconsce. Non tutti gli psicoanalisti, tuttavia, accettano questi nuovi punti di vista e sorgono vivaci controversie tra sostenitori della concezione “globalista” e rappresentanti della “concezione classica” del controtransfert (tra cui A. Reich, 1949, 1959; e R. Fliess, 1953).

Concezioni attuali.

Nel tempo, gli analisti sono diventati più avvertiti nel cogliere i pericoli insisti in un uso automatico del controtransfert, pur riconoscendone la fondamentale potenzialità euristiche. Già Racker, del resto, pur pure evidenziando magistralmente l’utilità del controtransfert come strumento di comprensione, non ne misconosce gli aspetti problematici di possibile contro-resistenza dell’analista.

Le posizioni degli analisti attuali sono molto variegate: alcuni, in linea con la concezione freudiana, propendono per una definizione del contro-transfert come evento delimitato e circoscritto e lo considerano la manifestazione di una resistenza (Semi, 1998, 2006), in quanto espressione dei bisogni e dei conflitti inconsci dell’analista; altri, sottolineando gli aspetti relazionali del processo analitico, evidenziano gli elementi di inevitabile interazione insiti nella dinamica transfert-contro-transfert, e optano per una concezione ampia del contro-transfert, concepito come una trama profonda del processo analitico piuttosto che come situazione acuta, come emergenza transitoria (Di Benedetto, 1991; 1998; Vallino Macciò, 1992). Molti di loro pensano che il controtransfert, pur rappresentando una preziosa via di accesso al non ancora rappresentato del paziente, non cessi per questo di essere un ostacolo e che, prima di poterlo utilizzare come base di un’interpretazione, vada elaborato attraverso l’autoanalisi dell’analista (Russo, 1998, 2003).  Personalmente penso che, nonostante sia innegabile che in molti casi il contro-transfert costituisca un importante via di accesso ad elementi non ancora rappresentabili operanti nella relazione analitica, e pertanto un irrinunciabile punto di partenza per un processo figurativo e elaborativo, esso non possa essere pensato come uno strumento tecnico utilizzabile in modo agevole o automatico, per molteplici ragioni: perché il contro-transfert è per definizione inconscio e l’idea che sia possibile monitorarlo continuamente per tenerlo sotto controllo appare illusoria (Little, 1951; Tower, 1956; Pick, 1985; Turillazzi, 1994); perché la difficoltà di distinguere il contro-transfert “normale” da quello “patologico” (Money Kyrle, 1956) rende troppo opinabile la sua utilizzazione automatica come indicatore del mondo interno del paziente (Riolo, 1998); perché gli affetti dell’analista non sono né programmabili né decidibili (Bolognini, 2002); per il fatto che l’analista deve compiere un profondo e impegnativo lavoro di elaborazione interiore prima di poter utilizzare il contro-transfert come un’utile risorsa (Ruggiero, 2011); e infine, perché il contro-transfert, qualunque sia l’uso conoscitivo che l’analista ne fa, interferisce inevitabilmente con il processo analitico in quanto il paziente lo percepisce e ne è influenzato (Racker, 1957; Searles, 1958; Rosenfeld, 1987). Direi che la concezione del controtransfert prevalente oggi è che esso rappresenti sia un ostacolo che una risorsa (Ferruta, 1998; Turillazzi Manfredi, 1989) e che costituisca una formazione di compromesso una entità complessa contenente le risposte dell’analista fuse e mescolate con gli aspetti proiettati dal mondo interno del paziente (Jacobs, 1999).

Quello di controtransfert rimane a tutt’oggi un concetto piuttosto ambiguo.   Grosso modo, le questioni più controverse riguardano: la possibilità o meno di distinguerlo dal transfert dell’analista; l’estensione del concetto di contro-transfert; la sua natura di ostacolo e/o di risorsa; il peso dell’analista nell’influenzare il transfert del paziente, e conseguentemente i livelli di simmetria e asimmetria presenti e auspicabili nel rapporto analitico.

Sebbene Gabbard (1993) lo ritenga il terreno comune emergente della psicoanalisi contemporanea, quello di contro-transfert permane a tutt’oggi un termine ambiguo e controverso, che designa una varietà di concetti teorico-clinici non facilmente sovrapponibili.

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Novembre 2013

Corpo in psicoanalisi (Il) 2
H.Bellmer, 1937

H.Bellmer, 1937

Il Corpo in Psicoanalisi

A cura di Marta Badoni

Il paradosso della coppia corpo mente

In diversi lavori, e, in particolare in un lavoro del 1997, Grotstein prospetta un possibile modo di pensare alla “strana coppia” costituita dalla mente e dal corpo come a una unità ‘stranamente accoppiata’, in qualche modo obbligata a convivere, ‘come una coppia di gemelli siamesi’.

Questa affermazione mi ha colpito, perché la coppia di gemelli siamesi è, di per sé, una coppia disfunzionale: la prima cosa che viene in mente pensando ai gemelli siamesi è se e come separarli :la separazione non è senza gravissimi rischi, l’unione obbligata è scomoda, tuttavia interroga.

Questo è stato anche il destino della coppia corpo mente.

L’interrogarsi si è fatto ancora più pressante, più stimolante, ma anche più scomodo, man mano che, con le ricerche delle neuroscienze, il cervello ha occupato nel corpo un posto di rilievo: si è aperto così, negli ultimi decenni, un ampio dibattito tra psicoanalisi e neuroscienze, dibattito che ha visto schierarsi, in entrambi gli ambiti, posizioni tendenti alla assimilazione o invece al dialogo.

Ne discute dettagliatamente Michele Bezoari (2007) immaginando ‘Cosa si prova a essere un cervello’. L’autore sostiene l’interesse di un dialogo con le neuroscienze, operazione peraltro continuamente perseguita da Freud, evidenziando tuttavia la peculiarità dell’oggetto di interesse della psicoanalisi, l’inconscio, e la specificità del modello di indagine psicoanalitico.

Dal proprio punto di vista Gallese (2014) sostiene una tesi analoga quando afferma che il cervello esprima la propria piena funzionalità solo ed esclusivamente perché legato a un corpo situato in un particolare mondo materiale, sottoposto ad una serie di leggi fisiche, popolato da altri individui.

Si sottolinea da un lato la difficoltà di slegare il cervello dal corpo o il corpo da altri corpi, dall’altro il rischio di appiattire un lavoro di indagine e un metodo (il metodo psicoanalitico) su un sistema di competenze.

Il dialogo tra neuroscienze e psicoanalisi è comunque apertissimo, legato in particolare e, non a caso, all’area del trauma (Manica, 2005) e a quelle del lavoro con i bambini e con gli adolescenti (Monniello, Quadrana,2010).

Anche la problematicità dei diversi livelli di simbolizzazione, di cui si è particolarmente occupato in Francia René Roussillon, è densa di conseguenze.

La ricchezza di questo dialogo è d’altronde testimoniata dai 204 dati bibliografici, alla voce ‘neuroscienze’, presenti sul PEP (Psychoanlytic Electronic  Publishing) relative alla sola Rivista di Psicoanalisi.

La questione del rapporto corpo mente/mente corpo, ci appare di fatto come una questione non affrontabile se non in termini di questione paradossale, come il paradosso proposto da Winnicott (1958), “essere solo in presenza”. Come ogni paradosso, anche questo della natura del rapporto corpo mente più che dare risposte a interrogativi, stimola un pensiero. Le scorciatoie, come la tentazione di rifondare la psicoanalisi sulle neuroscienze, potrebbe minacciare ‘l’autonomia epistemologica’ della psicoanalisi e lo statuto della psicoanalisi diventerebbe disfunzionale rispetto agli obiettivi che si propone. Psicoanalisi e neuroscienze sono discipline distinte, con metodi di indagine, sistemi linguistici e concettuali di codificazione delle conoscenze distinti (Mattana, 2017).

Se non vogliamo riproporre da un lato il dualismo cartesiano e dall’altro una confusione epistemologica, non possiamo che immergerci nel paradosso e vedere dove ci porta.

Per integrare il somato-psichico, Freud ha cercato di indicare possibili accordi: prima la teoria della seduzione (Freud, 1,1892-1895), poi la compiacenza somatica (Freud, 4,333), di seguito la pulsione, come misura delle operazioni che vengono richieste alla sfera psichica in forza della sua connessione con quella corporea (Freud, 8,17). Ancora più esplicita la nozione di un Io Corpo, non solo come entità superficiale, ma come proiezione di una superficie (Freud, 9, 488). Uno strumento, quello psichico, che non è affatto facile da suonare, scriverà Freud (4, 433).

Non è d’altronde infrequente che, traendo spunto dalla stessa affermazione di Freud, gli psicoanalisti arrivino a teorizzazioni affatto diverse, come ci mostra in un ben documentato lavoro sulla ‘clinica del corpo’ Fausta Ferraro (2011).

Tra i temi controversi il concetto di pulsione che viene da alcuni rivisitato (Imbasciati, 2010), e che non compare, come termine, nel dizionario di Bion (Lopez Corvo, 2005). Sarà comunque necessario immaginare una qualche risonanza tra psiche e corpo. Roussillon (2013), negli ultimi anni, ha proposto il concetto di “pulsione messaggera”.

Freud arriverà a due ipotesi per descrivere la ‘vita dell’anima’[1] , o apparato psichico.

Le due ipotesi sono tenute distinte, tratteggiate in punti diversi ne il Compendio (1938).

La prima ipotesi:

  1. La vita psichica è funzione di un apparato al quale ascriviamo estensione spaziale e struttura composita e che ci figuriamo dunque simile a un cannocchiale, a un microscopio e ad altri strumenti del genere ( 1938:572). Freud di seguito aggiunge che l’elaborazione coerente di un’idea come questa rappresenta, a prescindere da certe affermazioni già tentate in passato, una novità scientifica.

Più radicale la seconda ipotesi:

  1. La psicoanalisi reputa che i presunti processi concomitanti di natura somatica costituiscano il vero e proprio psichico, e che essi prescindano dalla qualità della coscienza (1938:585).

Cosa vuol dire l’ ‘elaborazione coerente’ della prima ipotesi? Gli strumenti scelti da Freud per figurare la ‘vita dell’anima’, non mi appaiono casuali. Il cannocchiale serve per avvicinare e poter descrivere paesaggi distanti, ‘province diverse’ altrimenti invisibili ad occhio nudo, mentre il microscopio esercita un focus in profondità, coglie dettagli che altrimenti sfuggono. Tuttavia, né il cannocchiale, né il microscopio si sovrappongono all’oggetto osservato. Gli strumenti menzionati descrivono un essere in contatto e una distanza. Quali sono poi le ‘affermazioni già tentate in passato’? Ci si può chiedere se, pensando alla prima ipotesi, Freud  non avesse in mente, pur senza averla pubblicata, la “funzione dell’Intendersi[2]” (1895:  223). L’adulto soccorrevole ‘si intende’, con l’infante -sprovvisto di parola-  attraverso ‘le vie della modificazione interna’.

È l’intesa a pilotare il soccorso, intesa che presume una tensione emotiva con le relative risonanze. Sia il cannocchiale come il microscopio chiedono di esercitare attenzione, verso un altro da sé e dentro di sé, una funzione fondante per Freud: la funzione dell’intendersi precede l’enunciato, è qualcosa che lo prepara, e l’accompagna; essa ha a che fare con la capacità di cogliere l’atmosfera emotiva nel divenire del soggetto come nella seduta analitica: accordare gli strumenti, prima di suonare. Questo è il soccorso dell’apparato psichico in ogni situazione di impotenza: hilflosigkeit è letteralmente ‘senza-aiuto’.

Bion (1962) svilupperà queste intuizioni con il concetto di reverie e di ‘pensieri in cerca di un pensatore’. Come intendiamo il concetto di reverie? Green (1990:402), sovrapponendola al concetto di libera associazione, scrive che la reverie è una attività psichica che vaga senza scopi precisi, senza rigore metodico, come un turacciolo che si lascia condurre dal moto delle onde, sotto l’influenza delle correnti che animano il mare. La libertà è legata al fatto di lasciarsi andare, rinunciando ‘liberamente’ a esercitare un controllo sugli avvenimenti. È interessante notare, come Green, lettore di Bion, ma fedele a Freud, sottolinei, nella metafora, un principio economico: il moto delle onde, e la temperatura degli affetti: le correnti possono essere calde, fredde, impetuose, calma piatta, lavoro del vento. La reverie, per come è descritta da Green, tende quindi a sovrapporsi al funzionamento delle libere associazioni.

Di diverso parere è Ferro (2014), che distinguendo nettamente le libere associazioni dalla reverie, sostiene come questa ultima sia in presa di contatto diretta con i pittogrammi che costituiscono il pensiero onirico della veglia (p. 40). Il pittogramma è un’immagine che segnala e condensa un punto di contatto e una trasformazione (nell’esempio di Ferro, l’analista che chiede un aumento di onorario e il paziente che risponde con la visione improvvisa, sulla parete di fronte, di un pollo spennato: affetto e rappresentazione convergono sul pollo spennato). Notiamo quanto, come nei sogni, l’evidenza del corpo venga a soccorso dell’immagine, impregnandola di contenuti emotivi. Di queste immagini condensate che chiamano in appoggio non solo il corpo, ma un corpo figurante, è colmo il linguaggio popolare. Ne cito alcuni esempi: salvare la pelle, essere tutt’orecchie, mangiar con gli occhi.

L’effetto di condensazione e, soprattutto, la paradossalità del pittogramma è bene illustrato da Piera Aulagnier (1975:48) nel descrivere il processo originario. Per l’autrice, le origini della vita psichica si fondano sul portato dell’esperienza di un incontro fondante tra un ‘organo sensoriale e un oggetto esterno che esercita sullo stesso un potere stimolante’[3]; la rappresentazione pittografica di questo incontro ha tuttavia la particolarità di ignorare la dualità che la compone.

Quello che invece questo incontro non può ignorare, pena una restrizione della vita psichica, è il tempo della attesa. Una attesa fondata su un ‘premio di piacere’, sul ritmo tra una esperienza di soddisfazione e la sua assenza; il compito dell’oggetto, secondo l’autrice, consiste nella capacità di sostenere il desiderio senza ridursi a far tacere il bisogno.

Mi sembra a questo punto importante sottolineare il clima emotivo di questo incontro e la necessaria partecipazione del corpo nel sostenerlo e definirlo: Winnicott sottolineava uno stato di rilassamento[4], Aulagnier la capacità di attendere, Bion, descrivendo la funzione di reverie, la capacità negativa: attesa e lavoro psichico. L’attenzione del corpo e al corpo sono entrambe fondanti.

Marion Milner (1974) è ancora più esplicita quando scrive che per anni era stata sempre sorpresa nel notare quanto scarsa fosse nella letteratura psicoanalitica l’attenzione alla funzione egoica consistente nell’imparare deliberatamente a rilassare il corpo intero, e, nello stesso tempo,  la scarsa attenzione alla capacità del paziente di sentire il peso del corpo sul divano, oppure ai modi in cui tale rilassamento può essere raggiunto dirigendo volutamente l’attenzione sulle varie parti del corpo a contatto del divano ( 1974:521).

Tornando alle due ipotesi del compendio, entrambe richiedono, come sottolineava recentemente Riolo (2017), trasformazioni bidirezionali tra somatico e psichico, inconscio e conscio, interno ed esterno, con i relativi piaceri, dispiaceri, assenza di piacere (calma piatta).

Uno dei paradossi della coppia mente corpo è che, le trasformazioni tra somatico e psichico, inconscio e conscio, interno e esterno lavorano, paradossalmente, in simultaneità, ma con tempistiche diverse e ritmi propri. A proposito di simultaneità rispetto a uno spazio e a un tempo, riprendevo, in un precedente scritto (Badoni, 2014), il problema della comunicazione telepatica che tanto ha interessato Freud, come pure il fatto che due concetti fondanti per il nostro lavoro, esperienza e comunicazione, contemplino, allo stesso tempo, sia uno stato del sé, sia un essere in rapporto con l’altro. Il fattore tempo e il fattore ritmo sono fondanti per gli accordi o le stonature nella coppia mente corpo: lo strumento è difficile da suonare.

Basti pensare alla ripetizione, oggi considerata sia come un non tempo, o fuori dal tempo, sia come un lavoro nel tempo, resilienza più che resistenza, lavoro dolente, ma anche a suo modo curioso di un soggetto che non demorde, in cerca di soluzioni attendibili, se non soddisfacenti. Cosa sarebbe, senza ripetizione, il giocare dei bambini?

Quali i tempi di queste trasformazioni? Mi sono apparse altrettanto vere affermazioni molto diverse, rispetto al tempo nel lavoro psichico: così Freud parlava di un ‘calmo pensare per rappresentazioni’, mentre Danielle Quinodoz (2012) sottolineava l’importanza della intensità e dei riverberi del tempo presente, quando un accadimento puntuale è così ricco di immediata intensità, da lavorare dentro di noi per l’intero arco della vita: ‘secondi di eternità’.

Macchia (2008) ricorre invece alla metafora del lampo e del tuono: essi appaiono all’osservatore come due fenomeni diversi e distanziati nel tempo, ma in realtà originano da un unico fenomeno fisico.

 

Immediatezza, continuità, ritmo. Una musicalità e una poetica dell’incontro analitico, quest’ultima sottolineata da Balsamo (2015) che rammentava l’importanza del ritmo come strumento regolatore in grado di promuovere scambio e continuità, nuovo e identico, creazione e riscoperta di una forma stabile.

Torniamo ora al paradosso e pensiamo al Winnicottiano (1958) -essere solo in presenza- che si realizza quando l’immaturità dell’Io è naturalmente equilibrata dal sostegno dell’Io fornito dalla madre. Con il passar del tempo, l’individuo introietta la madre che dà sostegno all’Io ed in questo modo diventa capace di essere solo senza aver bisogno di fare frequente riferimento alla madre e al simbolo materno. Possiamo pensare che uno dei possibili sostegni che la madre fornisce all’immaturità dell’infante, sia proprio l’acquisizione di un ritmo, di un fiducioso sentimento di attesa, con i suoi tempi cruciali.

Winnicott (1975) descrive inoltre una condizione particolare, la ‘relazionalità dell’Io’(ego relatedness). Di nuovo siamo in presenza di un individuo immaturo, di nuovo occorre un adulto soccorrevole; Winnicott  (1975, 36) afferma che quando è solo ( solo in presenza di qualcuno) e solamente quando è solo, l’infante è in grado di fare qualcosa di simile al rilassarsi dell’adulto, in grado quindi di diventare non- integrato, di agitarsi, di permanere in uno stato di disorientamento, di esistere per un po’ senza essere né qualcosa che reagisce a un urto dall’esterno, né una persona attiva con un’intenzione d’interesse o di movimento. È in tal modo che si costituisce la precondizione per un’esperienza dell’Id: secondo Winnicott grazie a questa precondizione e nel suo contesto, una sensazione o un impulso, quando arriveranno, sembreranno reali e costituiranno una esperienza personale autentica.

Quanto Winnicott c’è in Bion, ma mentre Bion ci cimenta attraverso concetti, Winnicott ci invita a   partecipare, in diretta, a questo esistere per un po’, senza essere né una cosa, né un cervello, né soma, né intelletto, ma corpo mente che convergono, solidali, a consentire il senso di esistere.  Winnicott è dentro la scena, ne ha fatto esperienza in vivo.

A partire da queste affermazioni, diventa indispensabile aprire e complicare il discorso a una relazionalità dove, i soggetti partecipanti, sono tutti espressione della coppia stranamente accoppiata costituita dal ‘corpo mente’ di ognuno. La clinica e la teoria del soggetto, allo stesso tempo, essere assoggettato e essere pensante, è una delle possibili declinazioni della capacità di essere solo in presenza. A questo serve l’oggetto ‘soggettualizzante’ (Cahn, 2006).

Oggi, dopo i pensieri di Winnicott e di Bion, consideriamo che la coppia ‘stranamente accoppiata’ prende forma e vive nel e del rapporto con un’altra coppia, anch’essa stranamente accoppiata: il corpo mente della madre, che, a sua volta, è intimamente a contatto col corpo mente del padre. Winnicott (ibid,32), in appoggio alla nozione di ‘essere solo in presenza’ considera anche la sessualità adulta. Egli afferma che dopo un rapporto sessuale soddisfacente ciascun partner è solo ed è contento di essere solo…di godere del condividere la solitudine, una solitudine che non è ritiro. In analogia, la turbolenza della coppia analitica al lavoro, gode di intimi silenzi che, lungi da essere momenti di ritiro, sono momenti di pensosa e goduta libertà.

Il recente congresso internazionale di psicoanalisi (Buenos Aires, 2017) ha tentato di esplorare questi eventi a partire dalla nozione di Intimità. Anche l’intimità è una questione paradossale, in quanto non è data senza portare in sé le tracce di un rapporto fidabile con un altro da sé, e, nello stesso tempo presume il ‘godere di condividere la solitudine’, una solitudine quindi che porta le tracce di un incontro e di un incontro godibile.

Wallon  (1949), accennava a un ‘intimo sdoppiamento’ per descrivere la capacità del bambino di passare da un tempo in cui dà spettacolo di sé, a un tempo in cui può tollerare la ‘tristezza’ di intrattenersi da solo. La parola spettacolo ci immerge nella atmosfera emotiva dei teatri del corpo. Dare spettacolo è diverso dal proiettare, è più fiducioso nella presenza dello spettatore e di uno spettatore che provi emozioni: paura, rabbia, ma anche piacevole divertimento.

Anche il bambino, osservato e pensato così, non solo proietta, ma prova anche un qualche piacere nel dare spettacolo, tant’è che, se cala il sipario e il bambino resta solo, intimamente sdoppiato, dovendosi accontentare degli echi che lo spettacolo ha suscitato, proverà tristezza. L’intimità dovrà quindi comprendere, oltre alla esperienza del godimento, anche il senso del limite, a meno di affidarsi alla eccitazione, a un piacere masturbatorio.

In questo caso la parola tristezza, usata da Wallon, sta per essere solo in presenza o, osando un riferimento a Melanie Klein, come un sostare in una posizione depressiva. L’intimità è uno stato che richiede tempo e lavoro per essere raggiunto: si tratta infatti, contemporaneamente, di solitudine che non è ritiro e di un legame che si sviluppa nel tempo. Tensione e rilassamento regolano, in un unico movimento, la condivisione e il ritirarsi (Jullien, 2014). La dimensione del piacere non è assente in questa dimensione, ma la promuove e la trasforma.

La clinica

Dopo questa esposizione necessariamente condensata, riferirò elementi della mia esperienza di lavoro con la ‘coppia stranamente accoppiata’, una esperienza, fortunatamente, in continua trasformazione.

Molti anni fa, per caso e per curiosità, mi è capitato di fare esperienza, in presenza di un analista a questo formato, di quanto Marion Milner ipotizza nella breve citazione riportata precedentemente: portare attenzione al proprio corpo, portarla in presenza di un’altra persona, sentire il peso del proprio corpo quando si concede di potersi appoggiare: appoggiare non vuol dire arrendersi, neppure è ritirarsi, mentre avere un peso, metaforicamente e non solo, sta a significare il sentimento di esistere. L’infante è senza peso fin che è immerso nel liquido amniotico e sono le braccia pensanti della madre che lo convincono che il peso non solo può essere sostenuto, ma può essere la sorgente di un fiducioso sentimento di abbandono, di un lasciarsi andare al sonno e al sogno, portando dentro di sé l’attesa fiduciosa di un dopo, per aver sperimentato piacevolmente il ‘prima’. Ho così sperimentato le trasformazioni possibili legate al fatto di essere solo in presenza dell’altro. L’analisi mi ha successivamente permesso di approfondire questa breve esperienza, di assaggiarne il senso, di capire su che basi profonde si regge e soprattutto si mantiene.

Scandalosa e paradossale, questa esperienza contempla l’essere toccati dal terapeuta, scandalo perché gli analisti non toccano, paradosso perché il tatto, segnando contemporaneamente l’essere con e l’essere altro, rappresenta l’essere solo in presenza. Scriveva Carloni (1984) che Il tatto, ultimo per dignità, in quanto esteso anche alle parti meno nobili della persona, è il primo filogeneticamente dei nostri sensi ed è così elementare la sua funzione per la difesa della vita, che della possibilità di una sopravvivenza non puramente vegetativa rappresenta l’ultima prova. Continua l’autore affermando che, per traslato, s’indica con lo stesso termine l’arte di trattare il prossimo, fatta di accortezza, tempestività, opportunità, prudenza, garbo e misura: richiede elasticità e intelligenza, cioè, di continuo, adattabilità e inventiva per cogliere e risolvere ogni problema nuovo. Il traslato vuole evidentemente indicare l’acquisita consapevolezza che non si possa trattare con gli altri utilmente e senza danno se non facendo uso delle anzidette qualità alla ricerca del contatto migliore: il che non esclude che a volte migliore possa riuscire anche il contatto più risoluto e repentino. Si tratta di affermazioni lontane, ma molto attuali.

Solo recentemente si è iniziato a parlare di queste tematiche, non solo tra analisti addetti ai lavori, come da lungo tempo è pratica soprattutto tra gli psicoanalisti di lingua francese (Dechaud-Ferbus, 2011), ma dentro la quotidiana pratica analitica. Si segnala ad esempio, come l’attenzione del terapeuta e la sua responsività a comunicazioni non verbali, come pure a attività spontanee del corpo, compreso il toccare, possano consentire l’accesso alla intenzionalità dell’inconscio e a stati dissociati della mente (Cornell, 2016).

Forse potremmo ricordarcene non solo in presenza di quei pazienti che la Mac Dougall (1972) chiamava gli anti- analizzandi in analisi, ma anche imparando a intervenire con approcci più cauti e allo stesso tempo più incisivi, in quanto più vicini al funzionamento mentale dei pazienti. Si tratta di intercettare il livello della richiesta di aiuto e, come scriveva recentemente Virginia Ungar (2015), di poter disporre di una cassetta degli attrezzi, duttile e ben fornita.

Riflessioni su questo approccio terapeutico e sulla sua rilevanza nella situazione analitica, sono state da me riportate nel lavoro già citato (Badoni, 2014).

Quello che negli anni ‘70 ancora non sapevo, facendo la mia personale esperienza di “psicoterapia di rilassamento secondo de Ajuriaguerra”, era la mole di pensieri, di rapporti interculturali, di esperienza psicoanalitica che faceva e fa da sfondo a questa psicoterapia. Rimando, per approfondire queste tematiche, a un lavoro di prossima pubblicazione (Badoni, 2018) di cui riporto qualche concetto.

Riprendo, nel testo, il concetto di base proposto da Ajuriaguerra, quello di “Dialogo Tonico”, come sistema di comunicazione, iniziatico, tra infante e madre; prospetto la messa in forma di una “struttura dialogante” che vede agli inizi, madre e infante, comunicare per il tramite di stati tonici continuamente modulati” (Badoni, ibid.). Sottolineo l’importanza che, in questo dialogo, di natura non verbale, ma significante, l’infante possa ‘dire la sua’ e che la madre sappia porre attenzione, attendere, rispettare la qualità di queste comunicazioni.

Piera Aulagnier sottolinea questa capacità di attesa: su di essa si fonda la possibilità, per l’infante, di credere al suo sentire prima, ai suoi sentimenti poi, consentendo così una trasformazione continua dal sensoriale al sensuale.

La modulazione dell’affetto d’ansia sembra essere il messaggio privilegiato per i dialoghi della ‘coppia stranamente accoppiata’. Esso ha, anche nello stato tonico, il suo modo di espressione, dalla paralisi – angoscia automatica, ai pre-sentimenti, di cui l’affetto angoscia-segnale è il precursore.  Freud ci ha reso attenti alle potenzialità trasformative di questo affetto: dall’angoscia che paralizza ogni attività mentale, all’angoscia che segnala uno stato di fatto e, per il solo fatto di segnalarlo, cerca di promuovere un lavoro mentale: la coppia stranamente accoppiata è obbligata a lavorare per trasformazioni. Tuttavia, molte di queste trasformazioni avvengono ‘a nostra insaputa’, come le neuroscienze ci insegnano, basti pensare al funzionamento dei neuroni specchio. Questo dovrebbe renderci curiosi, ma anche umilmente cauti nel nostro dialogo senza trarre giudizi affrettati sulla non rappresentabilità. Su questo concetto ha richiamato l’attenzione Roussillon (2015) riferendosi a diversi modi di simbolizzazione, un concetto di simbolizzazione quindi che contempli regimi diversi: simbolizzazioni primarie e secondarie. L’autore ritiene che la presenza di un affetto di spavento o terrore indica di per sé la presenza di una certa rappresentazione della scena traumatica, almeno in quanto segnala l’assenza di una rappresentazione accettabile.

‘Voir c’est recevoir, recevoir c’est donner à voir’, ripeteva Ajuriaguerra citando il poeta Eluard. Non a caso, nel descrivere il funzionamento del dialogo tonico, Ajuriaguerra parlava di ‘risonanze ansiose’. Perché vi sia risonanza occorre la presenza di un oggetto che risuoni, di un ‘ostacolo accogliente’, questo sottolinea la nozione di dialogo tonico. Il lavoro dell’ansia gioca qui la sua parte. Il tono del dialogo suggerisce non solo il tono muscolare, ma il grado di vitalità (su di tono, giù di tono, atonico) e la tensione emotiva.

Dovremmo non liquidare frettolosamente anche i minimi accenni di allerta, o anche di piacevole tensione emotiva, così come i lievi moti di contrarietà rispetto al modo e al contenuto delle comunicazioni dei pazienti. Se poi “ci sentiamo dire qualche cosa”, abbiamo altre risorse: risuonare non vuol dire colludere. Trattando di simbolizzazioni primarie e secondarie, Roussillon sottolinea la possibilità di rappresentare senza avere coscienza di rappresentare e di tutte le trasformazioni che l’esperienza subisce nel suo processo di interiorizzazione e di iscrizione psichica.

Ho cercato di mettere in luce le potenzialità degli attrezzi del nostro lavoro, al training analitico, nelle sue diverse articolazioni, spetterebbe il compito di saperli utilizzare.

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[1] “Seelenleben”

[2] Inteso da Intendere : “Volgere i sensi e la mente a qualche oggetto…tendere a un fine, avere intenzione, volere…percepire e comprendere, che sono in un certo modo l’effetto del tendere l’attenzione”

[3] Nella teorizzazione della Aulagnier: bocca/seno materno

[4] Rilassamento non nel senso della distensione a ogni prezzo, ma del prendere quello che viene

Corpo nella psicoanalisi (Il)
Ives Klein, 1962

Ives Klein, 1962

A cura di Marisa Pola

L’interesse per il corpo e la relazione corpo-mente è presente nella psicoanalisi fin dalla sua nascita, ed è, oggi, tornato al centro del dibattito.

Freud attribuì un ruolo centrale al corpo a partire dagli Studi sull’isteria (1895), in cui osservò che alcune sue pazienti presentavano sintomi somatici associati a disturbi psichici. Ravvisò una connessione tra fisico e mentale in conseguenza della quale elaborò il concetto di pulsione (Pulsione e loro destini 1915) come «limite tra lo psichico e il somatico» .

Il significato psicoanalitico del corpo assume ancora maggior centralità nella seconda topica, nell’Io e l’Es, in cui il corpo svolge quella funzione dell’Io necessaria alla costituzione del senso d’identità. «L’Io è innanzitutto un’entità corporea» (Freud,1928:488) e Freud più tardi aggiungerà: «L’Io è in definitiva derivato da sensazioni corporee, soprattutto dalle sensazioni provenienti dalla superficie del corpo. Esso può dunque venire considerato come una proiezione psichica della superficie del corpo». Il corpo e i suoi affetti, nonostante ancora un certo dualismo corpo-mente presente in Freud, diventano prioritari nella costruzione dell’Io.

Successivamente, la psicoanalisi ha considerato il legame tra il corpo e la mente  fondamentale nella strutturazione dell’Io e nella relazione con la realtà. Winnicott e Bion svilupperanno una concezione più vasta rispetto a Freud, di maggiore continuità tra l’organico e lo psichico.

Winnicott (1949-1950) individua nella corporeità il punto di partenza e sviluppo dell’Io. Per l’autore, gradualmente arriviamo a vivere noi stessi come abitanti dei nostri corpi ed esiste una sola unità «psiche-soma». Quando la mente é legata al corpo, attraverso l’«holding materno»  si sviluppa il vero Sé. Isolata dal corpo, si potrà soltanto sviluppare il falso Sé.

Bion (1950) concentra la sua osservazione sugli organi di senso come strumento di accesso alla percezione della realtà e condensa nella “griglia” un modello secondo il quale il pensiero è una diretta evoluzione dei livelli sensoriali. Partendo dallo scritto di Freud Sui due principi dell’accadere psichico (1911), Bion amplia l’ipotesi di Freud e ritiene che pensiero ed emozione siano inseparabili e che il corpo sia il punto di avvio per i fenomeni di pensiero. La mente si sviluppa attraverso un continuo processo di apprendimento dall’esperienza emotiva (Apprendere dall’esperienza, 1962) ed è in continua trasformazione, attraverso un processo dinamico. La capacità di contenimento ed elaborazione delle emozioni è alla base del fare esperienza e del poter utilizzare la funzione della mente, che viene esperita dal bambino sin dalla nascita «attraverso la reverie materna».

Il ruolo delle emozioni vissute – punto cardine per Bion – dà in questo modo avvio ad una nuova psicoanalisi. L’analisi e la relazione analitica attivano un funzionamento mentale capace di reggere l’impatto con le emozioni e permettono il cambiamento. Il corpo concreto, nel qui e ora della seduta psicoanalitica, viene considerato da Bion come una potenzialità di pensiero in divenire, come un pensiero in attesa di essere pensato, laddove il ruolo dell’analista  può essere assimilato a quello della levatrice di un pensiero che sta per nascere (Lombardi 2016).

Sviluppi attuali

Attualmente il legame tra il corpo e la mente è considerato fondamentale dalla psicoanalisi e i numerosi contributi teorici sviluppano una concezione più ampia tra l’organico e lo psichico. Marty (1976-80) ipotizza la natura psicosomatica dell’inconscio e dell’emergere del corpo nella depressione essenziale. Mahler e McDevitt (1982) sviluppano osservazioni psicoanalitiche sulle fasi precoci dello sviluppo individuale, mettendo in evidenza l’importanza delle funzioni corporee e sensoriali nel bambino. Bick (1968) evidenzia come il ruolo della pelle influenzi l’interazione oggettuale precoce. Gaddini (1989), attraverso le sue osservazioni cliniche sui disturbi risalenti alle prime fasi dello sviluppo postnatale, descrive un’organizzazione mentale di base (OMB) che comprende fenomeni tanto elementari quanto complessi del primo organizzarsi della mente ai confini del corpo. McDougall (1982, 1995) mette in rilievo le implicazioni psicoanalitiche sulla corporeità dando voce al linguaggio del corpo, che trova espressione nella relazione analitica permettendo al corpo stesso di esprimersi in maniera simbolica. Didier Anzieu (1985) ritiene che la pelle serva come un modello di un Io primitivo, che definisce “Io pelle”. Assoun (1997), attraverso il suo lavoro sulla clinica del corpo, ripercorre le teorie di Freud ed evidenzia come nel pensiero freudiano non vi sia una categoria omogenea del corpo. Aron Anderson (1988) segnala come l’esperienza del corpo possa  nascere nell’esperienza analitica. Ogden (1989) individua nella modalità contiguo-autistica la base sensoriale dell’esperienza (il Sè si sviluppa a partire dalle sensazioni corporee, in particolare su sensazioni cutanee). Egle Laufer (1991, 2005) considera il corpo come «un oggetto interno» che si crea fin dalle prime esperienze con la madre e con il suo corpo. Resnick (2002) individua nel ruolo del corpo la nascita della persona ed evidenzia come nella psicosi la negazione del corpo determini la depersonalizzazione.

Più di recente la psicoanalisi si è dovuta anche confrontare con i progressi  nel campo psico-biologico e delle neuroscienze e ha dovuto recuperare la centralità del corpo sia nella teoria che nella clinica (Lombardi 2016), per rispondere, anche, alle nuove tipologie dei pazienti (Gaddini 1984, Lombardi 2016). Anche lo sviluppo dell’informatica e l’intelligenza artificiale hanno profondamente influenzato il funzionamento mentale (Lingiardi 2008, Lemma 2010), offrendo da una parte evidenti vantaggi, dall’altra rendendo ancora più problematica la relazione corpo-mente (Lombardi 2016). Già Freud (1929) nel Disagio della civiltà segnalava sia positivamente che in senso problematico quanto lo sviluppo della tecnica avesse ampliato il potere dell’uomo. Oggi siamo di fronte a una «mutazione antropologica», come disse Pasolini, e l’uomo, trasformato in macchina, si allontana dal corpo e quindi dal suo sentire-pensare e  dalla relazione con sé stesso. Il corpo e la mente sono come catturati e talvolta intrappolati: computer e smartphone sempre più sofisticati hanno creato nuove forme di comunicazione sociale (Lombardozzi, 1977) e sono diventati «oggetti-protesi», con cui viviamo in perfetta simbiosi, con cui dialoghiamo e da cui dipendiamo. Oggetti sé, «sempre più umanizzati e dotati di funzioni mentali» (Lingiardi 2017), con cui interagiamo in un cyberspace dove possiamo correre il rischio di perdere l’ancoraggio al corpo e diventare «macchina acefala». 

 

Una prospettiva clinica

Se l’identità in senso biologico – «Io sono corpo», scrive Merleau-Ponty (1945) – vacilla, siamo, come analisti, chiamati ad aiutare chi si rivolge a noi nel complesso cammino della soggettivazione. La soggettività, in accordo con Matte Blanco, ripreso da Grotstein (2004), è comprensiva dell’intera personalità e dei suoi sé componenti (Grotstein 2004)  ed «emerge quando la mente diviene consapevole di sé stessa nell’atto del percepire e di rispondere ad un oggetto». Grotstein (2004) aggiunge, sulla scia di Tausk (1919) e Federn (1952 ), che il bambino nasce «con una psiche che ancora deve essere incarnata e solo quando la mente accetta la responsabilità della sua soggettività diventa “soggetto dell’essere”» (Grotstein 2004, pag. 152), ossia persona al centro della sua storia come protagonista responsabile della sua vita. Al di fuori di questo processo c’è l’«indifferenziato Io vuoto», che la Tustin (1990), nel parlare dei nuclei autistici, chiama «buchi neri» (S.Vegetti Finzi, 2002). Per accedere ad un Io vivo, è necessario partire dalle sensazioni e dalle emozioni generate dal corpo-mente.

  1. Ferrari e R. Lombardi sviluppano una innovativa concezione sul corpo e sulla relazione corpo-mente e sul valore del corpo rispetto alla realtà psichica. Le loro osservazioni cliniche si rivelano particolarmente efficaci con i pazienti per i quali è compromessa sia la capacità di pensiero che il contatto con le emozioni, e le loro ricerche rivelano elementi di accordo con altre discipline. Per esempio, concordano con Damasio nel riconoscere la necessità di una continuità tra mente e corpo, e con la Bucci (1997) in riferimento alla teoria del codice multiplo e al concetto di subsimbolico riferito al corpo, che comprende l’unità mente-corpo.

Ferrari sviluppa e amplia il pensiero di Bion e individua nel corpo, oggetto originario concreto della mente (OOC), il punto da cui ha origine il funzionamento mentale. Il corpo, inteso in senso fisico, genera sensazioni, percezioni ed emozioni a partire dagli organi di senso, gli «organizzatori fisici», che hanno funzione di coordinamento delle sensazioni percepite. Tale funzione é equiparata ad una funzione psichica. Grazie alla reverie materna, si abbassa la pressione marasmatica, il corpo si «eclissa» e si avvia la nascita dei primi fenomeni mentali.

Dalla registrazione del dato sensoriale hanno origine due relazioni primarie: “verticale” (corpo-mente), riferita alla relazione che il soggetto intrattiene con sé stesso, e “orizzontale” (bambino-madre), che attiene alle relazioni interpersonali, laddove nella relazione analitica il primo interlocutore è l’analista.

La relazione verticale si andrà articolando attraverso la capacità di simbolizzazione, rappresentazione e astrazione. Le emozioni, originate dalle sensazioni corporee, vengono filtrate attraverso una funzione che Ferrari ha definito «rete di contatto» e si attiva a partire dal corpo nell’interscambio tra sensazione, emozione e pensiero.

Alla luce di questa ipotesi la relazione corpo-mente è vista in una continua dinamicità e movimento disorganizzante-organizzante, armonico-disarmonico. Nella condizione armonica corpo e mente sono integrati e in dialogo tra loro; in quella disarmonica, in cui predomina una sensorialità marasmatica che compromette le capacita riflessive e di pensiero, si sviluppa una conflittualità tra corpo e mente, come nelle psicosi. Se, all’opposto, c’è un’eccessiva prevalenza di astrazione intellettuale e uno scarso interesse per le sensazioni e le emozioni e i sentimenti , il corpo può essere attaccato concretamente fino a scomparire all’orizzonte della mente, come avviene in particolare nelle patologie alimentari (Lombardi 2016). La disarmonia corpo-mente è spesso legata a lacerazioni molto precoci della personalità a causa della mancata reverie.

Lombardi individua nel corpo e nella relazione corpo-mente, così come nella  conflittualità che si può generare tra queste due entità, il centro della sua ricerca clinico-teorica, il cui focus non è il corpo pulsionale, ma i limiti posti dal nostro stesso corpo, in grado  di «generare una conflittualità specifica che ci fa sentire schiavi nonché prigionieri della nostra natura concreta» (Lombardi 2016). La conseguenza di questo conflitto, come è stato segnalato da molti autori e come esperiamo nella clinica oggi, è l’irraggiungibilità di certi pazienti nel contesto delle relazioni interpersonali, in cui é il corpo del soggetto a diventare irraggiungibile dalla mente, e viceversa, tanto che essi si escludono a vicenda ingenerando una dissociazione corpo-mente.

La dissociazione di cui si parla si differenzia da quella comunemente studiata, frutto di un conflitto non  primario e legata a situazioni traumatiche non elaborate. Lombardi, in sintonia con Ferrari, si riferisce a forme disarmoniche in cui il conflitto corpo-mente diventa intollerabile e il corpo continua ad esistere concretamente, ma scompare all’orizzonte della mente. Se consideriamo che l’accoglimento e la considerazione che la mente ha del corpo è alla base di ogni operazione pensante, la conseguenza è che l’assenza di riferimento alla realtà del corpo implica l’assenza della mente.

La relazione e lo spazio analitico diventano il luogo dove il corpo reale del paziente e quello dell’analista sono in reciproca relazione, e in questa interrelazione si costruisce un ponte tra corpo, affetto e pensiero (Lombardi, 2000). Il  transfert e il contro-transfert si declinano come «transfert sul corpo», inteso come prima risposta alla necessità di creare un primo nucleo di funzionamento nel paziente, il quale, riconoscendosi nella sua essenza corporea, sperimenta una base di partenza per un Io funzionante. Successivamente potrà consentire al paziente stesso un lavoro ricostruttivo quando è in relazione con il suo corpo e le sue emozioni (Lombardi 2016).

Il controtransfert corporeo è riferito al transfert dell’analista sul proprio corpo «come condizione necessaria per accompagnare l’elaborazione di avvicinamento dell’analizzando al proprio corpo» (Lombardi 2016). Nel controtransfert somatico è l’analista nella sua globalità ad essere coinvolto per contenere prima di tutto nel proprio corpo le manifestazioni pre-simboliche e concrete, che anticipano la nascita di fenomeni emozionali e mentali (Bion1979), affinché si creino le condizioni per l’attivazione della funzione Alfa e quindi la generatività dei primi fenomeni consci e inconsci (Bion 1962; Lombardi – Pola 2010). 

BIBLIOGRAFIA

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Cutting -Tagliarsi

A cura di Maria Naccari Carlizzi

Definizione

Si chiama Cutting la diffusa e     attuale tendenza da parte dei     teenager, di solito ragazze, a     tagliare, incidere, ferire la superficie della propria pelle, soprattutto di gambe e braccia, con lamette, coltelli affilati, temperini, punte di vetro, lattine usate, o quant’altro. Può trattarsi di un singolo episodio o diventare abituale. Il cutting può diffondersi in modo epidemico in gruppi di amici, o di pari anche grazie alla rete, con un escalation di progressiva emulazione e autoemulazione.

Gli adolescenti di oggi, infatti, usano il corpo, la superficie della pelle e le sue modificazioni autoindotte come mezzo per reclamare il corpo e per comunicare con un segnale potente un potenziale disagio. In un crescendo variabile di concreti linguaggi lungo la linea che va dai tatuaggi, ai piercing, alle marchiature, alle bruciature, sino al self cutting, il cutting si colloca,  nella maggior parte dei casi, nell’ambito dell’autolesionismo “superficiale/moderato” (DSM-5).

Ma perchè la pelle, viene adoperata come superficie d’iscrizione, una tela, suggerisce A. Lemma (Lemma, 2005), su cui la sofferenza psichica viene esteriorizzata e lavorata?

Il corpo è l’interfaccia tra l’individuale ed il sociale. Dall’origine della vita la superficie della pelle svolge molteplici funzioni nello sviluppo della personalità: quella di involucro psichico, di mediatrice dell’attaccamento e delle relazioni attraverso le esperienze corporee primarie madre bambino, legate alla vista, allo sguardo e al contatto fisico e emotivo. La percezione del corpo è una costruzione progressiva che si realizza a livello intrapsichico, intersoggettivo, interpersonale e sociale. In adolescenza le trasformazioni psichiche e somatiche contribuiscono a determinare la riorganizzazione delle rappresentazioni di sè, l’integrazione del nuovo corpo sessuato, dei nuovi aspetti dell’aggressività, del narcisismo, dell’identità.

Ogni lesione cutanea autoindotta ed il selfcutting, in particolare in adolescenza, rappresenta, un fenomeno complesso da decodificare, che risponde a diversi bisogni psicodinamici e a organizzazioni mentali spesso differenti.

A livello gruppale può essere sotteso da molteplici variabili sociologiche e antropologiche (Le Breton, 2004) come le dinamiche psichiche che legano l’adolescente al gruppo dei pari, dove il cutting può essere usato per sancirne l’appartenenza e per definire l’identità comune.

Bisogna, quindi, valutare in modo specifico quale funzione, nell’economia psichica di un ragazzo, ad un particolare punto del suo sviluppo psichico, in una data famiglia e in una specifica cultura,  rappresenta l’uso del linguaggio del cutting.

Il cutting, di solito, costituisce un codice non verbale, per esprimere la sofferenza iconica, ancora non verbalizzabile ma proiettabile e rappresentabile  sulla propria pelle, un tentativo di tagliarla via per il fallimento del contenimento dell’ambiente e dei processi di simbolizzazione.

Soprattutto in questo caso C. Chabert (2000) parla di “tentativi di figurazione” … “tra l’intenzionalità conscia e inconscia”che funzionano quindi come “una difesa e un’elaborazione”. L’adolescente prova a comunicare, talvolta in modo impulsivo col cutting, attraverso la superficie della pelle, tentando di trovare in se stesso e/o nell’ambiente a cui implicitamente chiede aiuto, delle risorse per prendere tempo, poter cambiare e trasformarsi.

Più il cutting è diffuso a tutto il corpo e grave, più la psicopatologia sottostante è complessa e suggerisce vari gradi di compromissione del processo, specifico dell’adolescenza, di integrazione del nuovo corpo sessuato. Così il corpo da “involucro narcisistico”che garantisce la sicurezza del bambino diventa un “involucro di sofferenza” (Anzieu 1985). Il corpo può essere negato, odiato e sottoposto a scissione, attaccato come un oggetto esterno o estraneo, sino ad agire veri e propri tentativi di suicidio, anche se nella maggior parte dei casi chi si ferisce con il cutting non vuole uccidersi.

Lemma (Lemma 2005) descrive numerose fantasie inconsce, che possono sostenere la ricerca di modificazioni corporee e, quindi, del cutting:

– Negare “la separazione o la perdita, con la fantasia inconscia di fusione con l’oggetto ed il rifiuto di elaborare il lutto per il corpo perduto”, ed in adolescenza a mio avviso, il riferimento va al corpo dell’infanzia ed al legame con il corpo della madre.

– Tentare “la separazione con la fantasia inconscia di strappare, tagliar via l’altro alieno, sentito risiedere dentro il corpo” ed, in adolescenza, ritengo che si tratti spesso della difficolta di riconoscere come proprio il corpo sessuato.

– “Coprire un corpo vissuto con vergogna, con la fantasia inconscia di distrarre e controllare lo sguardo dell’altro” ed in adolescenza, oltre che alle già citate problematiche, ci si può riferire al campo delle dismorfofobie e della bruttezza immaginaria.

– “Risanare un senso interno di frammentazione, con la fantasia inconscia di identificazione con l’immagine dell’altro che ristabilirà un senso di coesione interna”ed in adolescenza possiamo chiamare in causa, per esempio, le difficoltà di integrazione delle nuove sensazioni generate dal corpo e le difficoltà identitarie in genere.

– “Attaccare l’oggetto, con la fantasia inconscia di infliggere un dolore e punirlo”, dove l’oggetto in adolescenza è il corpo dell’adolescente stesso e il legame con il corpo della madre.

Il cutting svolge per l’adolescente molteplici funzioni (cfr. voce SPIPEDIA Autolesionismo, Rossi Monti e D’Agostino 2009) volte a:

– “Concretizzare” (Rossi Monti e D’Agostino, 2009): -Voglio tagliarmi per far vedere che soffro! … col taglio tiro fuori il dolore, guarda mamma come soffro!- Il cutting serve a trasformare il dolore psichico in dolore agito, fisico, corporeo distribuito sulla superficie del corpo, per dare una forma a sentimenti incontrollabili nel tentativo di conoscerli,  o riempire il vuoto interno con il dolore, esterno, fisico, reale, quantificabile e controllabile, dato che è autoprodotto.

– “Punire, estirpare, modificare la parte cattiva di sé e purificarsi” (Haas, Popp, 2006).- Mi taglio quando sto troppo male e mi calmo solo quando inizia ad uscire il sangue!- Il cutting rappresenta un tentativo protoverbale di liberarsi da un passato traumatico, del nuovo corpo adolescenziale divenuto estraneo ed origine di sensazioni perturbanti per cui, diventa oggetto da attaccare, odiare, aggredire.

– “Regolare l’umore disforico” (Rossi Monti e D’Agostino, 2009) dell’adolescente borderline, impadronendosi del proprio dolore interiore. – Quando non cela faccio più vado al bagno a scuola e mi tagliuzzo un po’ con una lametta sul braccio, poi quando mi sento meglio, torno in aula!-.

– “Comunicare senza parole”e trovare un canale espressivo per qualcosa che le parole non riescono a dire perchè evocativo del trauma subito, come nei casi di abusi fisici e psichici, per controllare comportamenti ed emozioni altrui o per favorire risposte di accudimento come negli adolescenti deprivati che vivono in comunità o istituzioni – mi piace quando dopo che mi taglio vengo lavata, medicata e fasciata!-

– “Costruire una memoria di sé”, -Il mio corpo è un diario!- come si legge in “Quando la pelle parla” di Educazione siberiana, (Lilin, 2009) dove i tatuaggi rappresentano un linguaggio che aiuta le persone nella reciproca conoscenza. L’adolescente, o l’adolescente borderline, che ha difficoltà nell’integrazione della storia dei suoi eventi emotivi, usa il cutting per non dimenticarli, fissandoli sulla pelle con una cicatrice  e poter così ritrovarli in futuro.

– “Volgere in attivo, cambiare pelle” – Del mio corpo faccio quello che voglio!- Il cutting ribalta l’esperienza di passività tipica dell’adolescenza trovando un senso, consentendo una nuova figurazione, o infrange “l’esperienza di depersonalizzazione” (Rossi Monti, D’Agostino, pag 85) in cui l’adolescente  vive.
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Aprile 2015

Vedi anche in Eventi, Report/Materiali:

Anna Maria Nicolò – Organizzazione difensive nei breakdown

Vedi anche in Dibattiti:

Dibattito su: “L’Adolescente e il suo Corpo” a cura di F. Carnaroli e A. Nicolò

De Martis Dario
De Martis Dario

De Martis Dario

Dario DE MARTIS

(Milano, 14 dicembre 1926 – Pavia, 18 dicembre 1996)

A cura di Pierluigi Politi

 La vita

Figlio unico di un ingegnere di origine sarda e di una professoressa di radici venete, Dario De Martis nasce e cresce nella Milano inquieta ed effervescente del ventennio fascista. La professione del padre, ingegnere del genio civile, lo conduce spesso ad esplorare gli scenari lavorativi del genitore: l’arco alpino, dove in quegli anni nascevano le prime infrastrutture (dighe, canalizzazioni, centrali) idroelettriche. La professione della madre, insegnante di matematica e scienze naturali, facilita parallelamente la sua, altrettanto appassionata, vocazione al sapere. L’intreccio fra queste due componenti – amore per la natura, in particolare per la montagna, e interesse per la scienza – ne fanno presto uno studente brillante, ponendo le basi per un sapere vasto, curioso e critico. Le sue doti naturali, coniugate alla non facile situazione economica originata dalla perdita precoce del padre, lo stimolano inoltre a concludere rapidamente gli studi liceali ed universitari (Petrella 1997). La sua formazione avviene, in buona parte, negli anni della guerra, durante i quali trova il modo di aggregarsi alle formazioni partigiane della bassa Valsesia (Gattinara, Lozzolo, Sostegno, Serravalle Sesia sono i luoghi che lo vedono impegnato). Nel corso di questa esperienza egli matura una vocazione politica genuina ed intensa, che ne fa un medico schietto, dalla notevole attitudine al contatto clinico genuino, solidale, pur nella consapevolezza delle sue origini borghesi.

De Martis si laurea giovanissimo in medicina, si specializza in Clinica delle Malattie Nervose e Mentali, trascorrendo un anno accademico (1950/51) a Parigi e inizia a lavorare come neurologo a Crema e come psichiatra a Milano. In quegli anni (Galli 2004), la sola alternativa psichiatrica milanese al manicomio ottocentesco di Mombello e a quello, nuovissimo, di Affori, era rappresentata da due case di cura private: Ville Turro, a nord-est del centro, e Villa Fiorita, a Brugherio. A Turro, con il Prof. Carlo Brambilla, lavoravano molti giovani psicoanalisti in formazione: Franco Ciprandi, Elvio Fachinelli, Franco Fornari, Gaddo Treves. Più eterogeneo lo staff di Villafiorita, diretto dal Prof. Virginio Porta, che aveva con sé Edoardo Balduzzi, Evardo Codelupi, Berta Neumann e Mara Selvini Palazzoli; oltre a Dario De Martis, naturalmente, che lì incontrerà Anna Bogani, sua futura moglie, intelligente e supportiva collega e compagna di una vita. Dal privato, De Martis passa quindi al pubblico, succedendo al grande Alfredo Grossoni e divenendo responsabile di quel “Neurodeliri” di Niguarda, passato alla storia per “La forza dell’amore” di Enzo Jannacci.

Gli anni del boom economico hanno, nel frattempo, il loro impatto anche sulla psichiatria. Nel 1958, per iniziativa di Giuseppe Carlo Riquier, Direttore della Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università, grazie al supporto economico dell’Amministrazione Provinciale, Milano istituisce la prima Cattedra italiana di Psichiatria. Fino ad allora, infatti, il corso di laurea in medicina vedeva gli attuali insegnamenti di Neurologia e Psichiatria unificati nel corso di Clinica delle Malattie Nervose e Mentali, con la Psichiatria da sempre in posizione subordinata. Carlo Lorenzo Cazzullo, vincitore di un concorso a Cattedra per Malattie Nervose e Mentali viene così chiamato l’anno successivo dalla Facoltà meneghina come primo Professore di Ruolo di Psichiatria. In realtà bisognerà attendere ancora diversi anni (1976) perché l’insegnamento di Psichiatria entri a pieno titolo, e con pari grado rispetto alla Neurologia, nella formazione del giovane medico. Nel frattempo (novembre 1963), però, Cazzullo ottiene che il Policlinico di Milano apra un Padiglione di Psichiatria d’Urgenza (la cosiddetta Guardia II), sul modello di quanto istituito a Niguarda dodici anni prima ed offre a De Martis la posizione di aiuto ospedaliero. Nel giro di pochi anni, grazie alla robusta esperienza neurologica e psichiatrica maturata sul campo, ad una profonda cultura, ad una speciale dedizione lavorativa e alle sue grandi doti umane, De Martis è in grado di vincere un concorso nazionale a cattedra (1965). L’Università di Cagliari gli offre il posto di Professore di Psichiatria nel 1968. Egli si imbarca per la Sardegna, non ancora 42enne, insieme con Fausto Petrella, della cui tesi di laurea era stato alcuni anni prima tutor. Petrella diviene suo aiuto, sia nella direzione pro tempore dell’Ospedale Psichiatrico di Cagliari, sia per l’attività didattica e quella clinica, che “comprendeva persone di ogni estrazione sociale” (Petrella 1987)

La Rivoluzione Pavese

Dopo soli tre anni (1971), è l’Università di Pavia – per alcuni secoli la sola Università lombarda – ad offrire la cattedra di Psichiatria a Dario De Martis. Nell’antica capitale del Regno italico, si dipanerà tutta la sua successiva carriera. A Pavia egli insegnerà Psichiatria (indimenticabile, per gli studenti di allora, la sintesi critica della clinica psichiatrica realizzata in: De Martis 1978), dirigerà la scuola di specializzazione ma, soprattutto, ridurrà la distanza tra psicopatologia e quotidiano clinico, dapprima presso il nuovo Istituto universitario, realizzato accanto all’Ospedale Psichiatrico di Voghera, quindi nel capoluogo, dove, fin dai primi anni ‘70, nei locali della Provincia diede il via ad un’esperienza di psichiatria territoriale che anticipò notevolmente la legge di riforma psichiatrica. Sia che si trattasse di restituire una storia ai pazienti manicomiali che avevano smarrito la propria (De Martis et al 1980), sia che si trattasse di affrontare quadri di recente insorgenza attraverso il lavoro clinico quotidiano, l’organizzazione di servizi territoriali, la pratica di interventi domiciliari, tutto quanto nel segno della continuità terapeutica (De Martis & Bezoari 1978), De Martis si poneva controcorrente rispetto all’isolamento un po’ elitario della psichiatria universitaria italiana.

La Psicoanalisi

La formazione psicoanalitica di De Martis avviene parallelamente alla sua carriera accademica. Dario De Martis viene analizzato da Pietro Veltri, una tra le figure più riservate della psicoanalisi milanese delle origini. Apprezzato ed impegnato magistrato di Corte d’Appello (Sigurtà 2000), profondamente interessato anche alla psicologia dell’uomo che delinque e al suo trattamento (si veda la prefazione a: Alexander & Staub 1978), Veltri fu – insieme a Franco Fornari – uno dei primi analisti formatisi con Cesare Musatti a Milano. Il documento di fondazione del CMP vede infatti le firme congiunte di Cesare Musatti, che era allora presidente della SPI, di Franco Ciprandi, Renato Sigurtà e Pietro Veltri.

Nel quotidiano di De Martis l’attività psicoanalitica avveniva, in genere, “dopo” quella accademica ed istituzionale. Personalmente, ricordo bene – ad esempio – lo stupore di alcuni miei compagni di training, in supervisione con lui, ai quali veniva proposta la domenica mattina come momento formativo… Diviene presto analista didatta, ricopre diverse cariche istituzionali, tra cui quella di presidente del Centro Milanese di Psicoanalisi dal 1992 al 1994.

Insieme a Fausto Petrella, importa la “peste” a Pavia, senza dubbio il capoluogo italiano (e verosimilmente mondiale) con il più elevato rapporto tra analisti e popolazione (all’inizio del 2018 Pavia conta uno psicoanalista (27) ogni 2700 residenti nel capoluogo).

 

I contributi teorici

L’impasto di sapere psicopatologico, formazione psicoanalitica e lavoro psichiatrico impegnato trova la sua espressione in Sintomo psichiatrico e psicoanalisi (De Martis & Petrella 1972), piccolo ed intenso volume, che riscosse un meritato successo nel panorama scientifico letterario dell’epoca. All’altro estremo delle sue opere psicoanalitiche, Realtà e fantasma nella relazione terapeutica (1984) costituisce una ampia panoramica del suo pensiero. Il volume raccoglie diversi saggi, a partire da: Aspetti psicodinamici della corporeità (1968), fino agli sviluppi più recenti della sua riflessione, come: Lo stato attuale della prassi psicoterapica (1981)

I suoi lavori psicoanalitici più citati, sono però quelli che “leggono” in termini relazionali – la parola-chiave del suo operare (Petrella 1997) – il lavoro istituzionale e quello educativo/formativo al contatto con la sofferenza mentale (De Martis 1976). In essi emerge pressoché costantemente la sua grande capacità di “ascolto” della sofferenza mentale, in particolare quella psicotica.

Tale capacità di comprensione profonda della sofferenza mentale, a partire dagli anni ‘80 (la terza edizione del DSM è proprio del 1980), è andata sempre più scemando nella psichiatria contemporanea, a beneficio di istanze maggiormente oggettivanti e classificatorie da un lato, nonché alle pretese di razionalizzazione, economicità ed aziendalizzazione (Barale 2003) dall’altro.

In precedenza, Dario De Martis aveva ideato e coordinato la pubblicazione di diversi volumi collettanei, da Istituzione, famiglia, équipe curante (1978) a Il paese degli specchi (1980), resoconto di un impegno terapeutico con i cronici istituzionalizzati, sino al più recente Fare e pensare in psichiatria (1987), testimonianza viva della capacità di mobilitare, attorno alla sua impostazione, l’intero gruppo di lavoro (Petrella 1997).

Quanto alla qualità del suo operare, non può essere dimenticato come, nelle differenti articolazioni della sua attività, De Martis conservasse una piena interiorizzazione del setting, sia in aula universitaria, sia in reparto psichiatrico, come durante le consulenze negli altri reparti ospedalieri. Per scelta, egli non trattava in maniera sistematica la psicoanalisi durante le lezioni di psichiatria agli studenti di medicina (De Martis 1978), e neppure durante i seminari di specialità. Eppure, il procedere del suo discorso ex cathedra lasciava continuamente intuire l’importanza, se non la necessità, di un percorso personale di presa in carico degli aspetti motivazionali, disfunzionali, dei bisogni e dei punti ciechi di ogni persona che si confronti con la sofferenza mentale. Persino le sue proverbiali sfuriate con il gruppo di lavoro, apparentemente lontane dall’intervento terapeutico, a giochi fatti, consentivano quasi sempre di elaborare l’accaduto, apprendendo dall’esperienza. Questa sua attitudine psicoterapeutica, universalmente riconosciuta anche dai colleghi meno in sintonia con lui, lo portò a fondare, all’interno della Società Italiana di Psichiatria, la Società Italiana di Psicoterapia Medica, di cui fu il primo Presidente.

La politica

Ultimo aspetto, meno ricordato, ma non certo meno importante, fu la sua dimensione politica. De Martis, presentatosi come candidato indipendente nelle liste del PCI, fu eletto per due mandati come Consigliere comunale a Pavia, svolgendo tale compito in autentico spirito di collaborazione e servizio, in quegli anni “di piombo” in cui l’impegno civile non era certo facile.

A Dario De Martis sono state intitolate la Biblioteca del Centro Psicoanalitico di Pavia e l’Unità di Psichiatria del Dipartimento di Scienze del Sistema Nervoso e del Comportamento dell’Università di Pavia. Il Dipartimento di Scienze del Sistema Nervoso e del Comportamento bandisce periodicamente un premio di studio a lui dedicato.

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De Toffoli Carla
De Toffoli Carla

Carla De Toffoli

A cura di Francesca Izzo

Carla De Toffoli

PRESENTAZIONE

Carla De Toffoli, specialista di malattie nervose e mentali, psicoanalista con funzioni di training della Società  Psicoanalitica Italiana e dell’International Psychoanalytic Association si è occupata a lungo dello studio e del trattamento psicoanalitico delle patologie gravi. La sua concezione del tutto originale del rapporto corpo-mente è il nucleo della sua ricerca psicoanalitica.  Nonostante la complessità del suo lavoro, De Toffoli riesce a farsi ascoltare dal lettore, gli va incontro. Scrive “Ognuno di noi per imparare a passare dall’una all’altra parte senza perdere sé stesso ha bisogno di esservi accompagnato da qualcuno che conosce già il viaggio di andata e ritorno, il sonno, il sogno e il risveglio che sa stare nel paradosso senza tentare di risolverlo” (C. De Toffoli, 2009 in Transiti Corpo- Mente. L’esperienza della psicoanalisi, a cura di B. Bonfiglio, 2014, Franco Angeli, pag. 289 ).  Sin dal suo primo lavoro “Note sullo scorrere del tempo e prime esperienze di identità” pubblicato nel 1984, l’autrice volge la sua attenzione all’area  del preverbale della relazione analitica e ai funzionamenti primitivi della mente in cui “affondano le radici del lavoro psicoanalitico”, a  quel livello in cui “i fenomeni di fusione, identificazione e accadimenti somatici” intessono il legame analitico di elementi di entrambi i partecipanti, in modo tale “che il lavoro e la presa di coscienza sono possibili solo se bilaterali” (ib. pag.33). E’ in questa articolata comunicazione inconscia tra paziente e analista che si fonda la possibilità di un passaggio dall’area preverbale a quella simbolica e comunicabile.

Questa citazione, letta a posteriori, è al contempo l’enunciazione di un metodo, una presentazione di sé e la definizione del campo in cui Carla De Toffoli  promuove la sua ricerca.

La sua concezione della relazione analitica “almeno bipersonale”, che coinvolge non solo le menti ma anche i corpi del paziente e dell’analista, richiede un’espansione della coscienza e la concezione di una coscienza incarnata. In accordo con il pensiero dell’ultimo Bion, la riflessione  sulle condizioni di espansione della coscienza onirica e della veglia, la porterà nel tempo verso una teoria del funzionamento della mente che da campo psichico “almeno bipersonale”, evolve in  un campo psichico multidimensionale in cui è possibile includere fenomeni di comunicazione inconscia infrasensoriale. Come ben rappresentato nel suo lavoro clinico, in cui proposizioni teoriche e agire clinico non sono mai disgiunti,  quando nella relazione analitica si crea “ un luogo affettivo-mentale coincidente per il paziente e l’analista” esso diviene luogo d’incontro “a prescindere dagli usuali strumenti comunicativi” (ib., pag. 99)

Nel suo vibrante apporto alla psicoanalisi Carla De Toffoli può essere considerata una pioniera ed evoca alcuni tratti che Gerald Holton, fisico, storico della scienza della Harvard University, nel suo libro “L’immaginazione scientifica” ( Einaudi, 1983) osserva nell’opera di molti scienziati creativi: “l’adesione a pochi temi a cui sono legati da una grande fedeltà  esplicita o implicita; la trattazione di questi temi che sin dagli inizi  comunicano l’energia nascente delle grandi intuizioni scientifiche; la consapevolezza che ogni scoperta richiede un’espansione della coscienza umana.” (ib.,  pag. XII )

Il CONTRIBUTO ALLA PSICOANALISI

Il pensiero di Carla De Toffoli, per la sua ricchezza e  originalità è uno dei contributi più innovativi della  psicoanalisi italiana. La raccolta dei suoi scritti, tra cui alcuni inediti, pubblicata nel 2014 a cura di Basilio Bonfiglio, “Transiti corpo-mente. L’esperienza della psicoanalisi” ,   costituisce uno strumento prezioso per conoscere la proposta teorico-clinica di questa maestra della psicoanalisi. In ognuno dei lavori della raccolta, i riferimenti teorici ad autori psicoanalitici a lei vicini,- in primis Bion e Winnicott- così come le sue proprie teorizzazioni, sono intessuti  in intense sequenze di  interazioni psicoanalitiche. Si potrebbe dire che è proprio dal lavoro elaborativo dell’esperienza analitica che nascono interrogativi e intuizioni teoriche che poi tornano alla clinica in un andamento circolare. In questo ha molte similitudini al modo di procedere e teorizzare della Milner. (Illuminante sul suo metodo, oltre che commovente, la rilettura a pag. 249, del caso di Susan dal testo Le mani del Dio vivente che chiuderà questo lavoro).

Carla De Toffoli è sempre partecipe dell’esperienza, con la sua  mente e con il suo corpo inteso come materia pensante, depositario al pari del corpo del paziente, di memorie inconsce corporee e di un sapere inconscio anche transgenerazionale. Corpo e mente che, nella sua teorizzazione,  sono concettualmente inquadrati  in un  rapporto di tipo complementare e quindi secondo una modalità d’interazione  non gerarchica ma paritaria. Quando Bohr nel 1927, al Congresso Internazionale di fisica di fronte a scienziati del calibro di Fermi, Heisenberg, Planck, Lorentz, Pauli ed altri, presentò per la prima volta il suo concetto di complementarità, fu perché alla luce degli esperimenti era arrivato alla conclusione che in certi casi :”è possibile esprimere la totalità della natura soltanto attraverso forme di descrizione complementari.” ( G. Holton, L‘immaginazione scientifica, pag.100). Allo stesso modo per Carla De Toffoli, la totalità di psiche-soma richiede analoghe forme complementari di descrizione senza  dover risolvere artificialmente dicotomie e senza cadere in una posizione dualistica o in un monismo riduzionista.

Questi aspetti, che esprimono la ricchezza del suo percorso e delle sue intuizioni, sono anche ciò che rende la lettura dei suoi lavori complessa. Come accadeva a chi ha potuto ascoltare le sue relazioni ai convegni, nel lettore si produce lo stesso tipo di silenzio attento. Una forma di coinvolgimento  che lo avvicina al piano della dimensione inconscia, creando in lui a volte quasi un senso di spaesamento e perdita di coordinate abituali, perché ogni lavoro ha un’area che è anche un’immersione in una dimensione di cui non si vedono i confini. Si è portati vicini “all’ombelico del transfert”,  secondo una felice parafrasi dell’autrice, porta dell’ignoto, a cui in qualche modo è necessario “arrendersi”. Nelle vignette cliniche si è introdotti in un ‘area di complessità, in cui l’accadere psichico della coppia psicoanalitica non si può comprendere seguendo la logica della  sequenzialità lineare di causa-effetto. Quando il campo analitico si espande, il corpo e la mente del paziente e dell’analista comunicano inconsciamente a diversi gradi di consapevolezza; quando entrambi sono partecipi di un’esperienza di risonanza all’unisono, lo stesso lettore ne diviene partecipe. Per questo la suddivisione per temi che seguirà spero non sacrifichi troppo la ricchezza della tessitura con cui Carla De Toffoli espone il suo pensiero.

TRANSITI CORPO- MENTE

Il nucleo dell’originale contributo di Carla De Toffoli è incentrato intorno alla sua concezione del rapporto corpo-mente. La sua prima e fondante asserzione è che corpo e mente sono profondamente co-determinati e che “I processi per cui il soma viene dotato di vita psichica e la psiche si rappresenta nel corpo necessitano di una costante oscillazione tra l’essere uno e l’essere due” ( De Toffoli, 2009 in Transiti corpo-mente, pag. 292).  Dal lavoro somato-psichico della coppia materno-fetale nel “laboratorio perfetto” della gravidanza, alle prime fasi dello sviluppo, fino alla riattualizzazione nel processo analitico,  “la continuità tra gli inconsci è anche una continuità psicosomatica tra corpi e psiche della coppia “( ib., pag. 39). E’ solo nella cornice  di un modello bipersonale, “che si può comprendere come  l’individuo si formi e si costituisca fin da principio come unità psicosomatica all’interno di un unico sistema biologico implicante due esseri umani: due unità corporee e due avventure psichiche inestricabilmente connesse e che vicendevolmente si riverberano in un ininterrotto processo di trasformazioni dal somatico allo psichico e di nuovo al somatico” (ib., pag. 175). Da qui l’ affermazione “che la matrice psicosomatica dell’esperienza di sé si forma e può essere compresa solo all’interno di un contesto almeno duale” (ib.,  pag. 142)

In accordo con le concezioni di Winnicott, De Toffoli osserva che quando  irrompono eventi traumatici precoci che esitano in uno scollamento dell’unità psicosomatica del sé in formazione, l’analista può trovarsi a cercare il paziente nel luogo di quello scollamento  originario “ fino ad un transfert di tipo neonatale o placentare” (ib. pag. 45) A questo livello di funzionamento primitivo e non simbolico della mente, le tracce traumatiche “sono al contempo ineffabili e tangibilissime per i vissuti di non esistenza che generano” (D. Cinelli, 2015). Includere anche  gli  accadimenti somatici del paziente e dell’analista  tra i fenomeni di transfert, e prestare loro attenzione per capire a cosa si leghino o cosa essi esprimano nella relazione analitica, rende il corpo  “luogo concreto delle valenze transizionali, nel senso che l’esperienza incarnata può essere considerata l’inizio della creazione di uno spazio potenziale tra sé e l’altro, di uno spazio psicologico potenziale tra l’esperienza riflessiva e l’esperienza percettiva” ( P. Passi, 2015). Se in quest’ottica si riconosce anche al corpo un “conosciuto non pensato” (Bollas), è anche immaginabile arrivare a riconoscere nel linguaggio sintomatico del corpo, un altro “codice di elaborazione dell’esperienza” ( De Toffoli, 2001, in  Transiti Corpo-Mente pag. 154);  un altro modo di trascrivere le memorie implicite che l’affinamento del  metodo psicoanalitico e le ricerche scientifiche sulla memoria, comprese quelle che indagano gli esiti del loro recupero con il metodo psicoanalitico, dovrebbero nel tempo sempre più poter decifrare. (C. Alberini, 26 novembre 2016, relazione alla Giornata Nazionale del gruppo di Ricerca Psicoanalisi e Neuroscienze, Roma )

La seconda asserzione è che all’interno di questa visione non dualistica, corpo-mente sono un’unica realtà.  Lo psichico e il somatico non sarebbero quindi in un rapporto gerarchico con Mente che domina Corpo, (Bion, 1979 cit. pag. 288) in quanto il corporeo è esso stesso un evento psichico anche se in una forma a noi sconosciuta. (Freud, 1940, 585, cit. a p. 148), il modello bipersonale  apre spazi “ di significazione affettiva, o di incarnazione somatica dei reciproci vissuti, emotivi, psichici o corporei che siano.” (ib., pag. 143) e necessita per l’analista di “una dotazione ideo-affettiva capace di transitare in entrambe le direzioni”. La  tesi di Carla De Toffoli è che “questo sia possibile in particolari contesti relazionali utilizzando come veicolo e tramite, la risposta affettiva dell’analista, intendendo gli affetti come legame di elezione tra la psiche e il soma” (ib. pag. 72). Le illustrazioni cliniche offrono esempi di questa oscillazione tra l’Io e il Tu, tra Psiche e Soma,  descrivendo bene la possibilità di significare, in particolari condizioni, tracce traumatiche che si possono presentare anche sotto forma di sintomo sia nel paziente sia nell’analista, quando questi incarna nel suo corpo le memorie somatiche  ancora inaccessibili del paziente. La realizzazione di questi fenomeni  transferali in cui  la coscienza-corpo dell’analista entra in risonanza con le aree preverbali e prerappresentative del paziente, attiva nell’analista l’”immaginazione speculativa” (Bion)  e  crea  un ‘sogno della veglia’ che attraverso la voce del campo analitico può attribuire senso e parola alle esperienze traumatiche  precoci inscritte  nel corpo del paziente. Per questa via si può iniziare a tracciare un sentiero che  conduce dal segno al significato. Nell’altra direzione è altrettanto significativo, “di fronte ad un fatto psichico, riconoscere in quale corpo o in quale storia del soma si radica e si rappresenta” (ib., Winnicott, 1989, cit. pag. 143).  Ma se corpo e mente sono un’unica realtà viene meno non solo la posizione dualista propria del pensiero occidentale, ma anche quella concezione che interpreta il sintomo somatico come un difetto di mentalizzazione, o buco nella capacità di simbolizzazione o ancora come scarica di elementi mentalmente indigeribili nel corpo. “Il metodo analitico offre l’opportunità che un evento originario conosciuto come somatico da parte dell’uno, si riattualizzi e venga contestualmente conosciuto come psichico da parte dell’altro, rendendo visibili contemporaneamente le due facce della stessa realtà umana che denominiamo psiche-soma”(ib. Pag.152). Suggerisco in proposito la lettura di due casi clinici ( da pag. 78 a 83 e da pag.254  a pag. 256).

Se mente e corpo sono un’unica realtà, la terza asserzione è che corpo e mente sono fatti della stessa materia e questa materia assomiglia sempre più al pensiero (ib., pag. 249).  Questo significa ampliare la concezione della mente intendendola come “una mente estesa al corpo ed inerente ai processi somatici, una mente delle cellule, anche se la sua elaborazione come pensiero necessita del funzionamento cerebrale.”(De Toffoli, 2007a, ib, pag. 246) Questa posizione, nella linea del pensiero freudiano, (Freud 1922) è stata maturata nel corso degli anni. Nel 2007 scrive “chiamiamo corpo-mente l’esperienza di noi stessi in quanto oggettivamente pensabile, e psiche-soma la stessa esperienza nel suo essere percepita come soggettiva e vivente” (ib., pag. 246). Nel 2009  scrive “..chiamiamo soma ciò che può essere percepito attraverso i cinque sensi e sottoposto a valutazione oggettiva, chiamiamo psiche ciò a cui diamo soggettivamente significato.”  Quindi un unico processo del reale in cui corpo e psiche sono fenomeni complementari che sono sensorialmente diversi solo per il nostro intelletto. In cui la relazione causa-effetto con il fisico che causa lo psichico o viceversa, non è da considerarsi valida in quanto corpo e mente sono  governati dalla stessa legge fisica della complementarità di  Bohr, per la quale non possono manifestarsi contemporaneamente allo stesso modo in cui nel mondo della fisica sono complementari l’onda e la particella.  Quindi non si tratta della natura della realtà ma del modo in cui essa viene percepita. In quest’ottica psiche, corpo, mente, soma, sono categorie della coscienza e il lavoro che ci è richiesto non può riguardare questi processi in sé inconoscibili per le nostre attuali capacità percettive e cognitive ma piuttosto quello di portare l’attenzione sugli stati di coscienza.

Un bell’esempio di questo esercizio lo troviamo ne “Il sapere inconscio inscritto nel corpo” del 2007 in cui Carla De Toffoli si immerge nella rilettura del famoso caso, tratto da “La creatività e le sue origini”, in cui a Winnicott il paziente maschio disteso sul lettino appare come una ragazza. La riflessione di De Toffoli si focalizza sulla comprensione dei livelli di coscienza multipli  sperimentati da Winnicott in quella seduta. Con grande naturalezza l’ analisi dei 3 diversi livelli di coscienza viene esplicata  secondo categorie bioniane.

1. La coscienza sensoriale. Che si realizza nel percepire attraverso i sensi, la presenza  di un paziente di sesso maschile. ( Espansione   nel campo del senso).

2. La percezione attraverso la coscienza di ciò che viene “intuito” attraverso la comunicazione inconscia infrasensoriale. “Il vedere lo psichico (una femmina, cioè l’incarnazione della follia della madre) e insieme la prefigurazione di un significato nascente qualora la percezione sensoriale venga illuminata da ciò che è giunto intuitivamente dall’inconscio; l’accettazione del paradosso (Espansione nel campo del mito)” (ib. pag. 247)

3. La coscienza della presenza della passione, che attraverso il “registro dell’immaginario” introduce nel legame analitico un significato sconosciuto “che  consente a un sogno libero da spazio e tempo di muoversi tra le individualità e le generazioni   ( Espansione nel campo della passione)” ( ib. pag. 248)

L’INTELLIGENZA UNICA FONDANTE IL TESSUTO DELLA VITA.

Ma se la realtà della nostra esperienza umana è unitaria, allora è necessario  riferirsi ad un campo di conoscenza  unificato  che includa altri saperi  e allo studio di  quei principi che regolano la natura di cui l’umano è parte. Scrive il fisico Rovelli “..Non c’è nulla in noi che sfugge le regolarità della natura […] Non c’è nulla in noi che violi il comportamento naturale delle cose. Tutta la scienza moderna, dalla fisica alla chimica, dalla biologia alle neuroscienze, non fa che rafforzare questa osservazione… Non ci sono “io” e  “ i neuroni del mio cervello”. Si tratta della stessa cosa. Un individuo è un processo, complesso, ma strettamente integrato.”( C. Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi 2014, pag.79). Nella ricca  bibliografia di questa maestra della psicoanalisi troviamo molti riferimenti a importanti scienziati, biologi, fisici, chimici oltre che filosofi e letterati così come ai contributi di altre culture. Profonda conoscitrice dei lavori di Bion, apprezza la sua idea di cercare in altri linguaggi non solo psicoanalitici modelli di comprensione della mente.  Ma la conoscenza di questi linguaggi non la conduce ad innesti impropri tra discipline tanto diverse, quanto ad utilizzarli, in attesa di prove scientificamente sostenibili, alla stregua di miti scientifici con cui sostenere  la sua immaginazione speculativa. (Bion 1998 pag. 63) Nei suoi lavori troviamo ampi riferimenti alle concezioni della biologia evoluzionista di Maturana e Varela,  o a quelle dell’etologo Lorenz , ma è soprattutto l’ampliamento del suo interesse verso la fisica quantistica e al suo principale paradigma che orienta il suo pensiero negli ultimi lavori. Il paradigma quantistico afferma che non esiste nessun oggetto al mondo che sia isolato, e questo in tempi moderni, in un certo senso,  offre una base scientifica al concetto di sentimento oceanico che  Romain  Rolland intendeva come un essere partecipi ed immersi in un universo condiviso – concetto da cui il Freud psicoanalista era fortemente attratto nonostante la fede “positivista”,  come è riportato nel suo  lavoro del 1929  “ Il Disagio della civiltà”- per fondarlo  in  un nuovo olismo dinamico.  Nel suo lavoro De Toffoli si è ispirata  all’osservazione del fisico premio nobel  De Broglie che riteneva che la struttura dell’universo materiale avesse qualcosa in comune con le leggi che governano il lavorio della mente umana come oggi gli studi più attuali sembrano confermare. O a Pauli che nel 1946 scriveva a Jung come gli stessi concetti psicologici di coscienza e inconscio sembravano presentare molte analogie con “la situazione della “complementarità” nell’ambito della fisica” (Jung e Pauli  Il carteggio originale: l’incontro tra psiche e natura). O alle ipotesi di Bohr che osservava una relazione di complemetarità tra materia vivente e non vivente analoga a quella che esiste nella fisica tra posizione e velocità di una particella. Ipotesi quest’ultima, che ha  portato  C. De Toffoli a domandarsi se il metodo psicoanalitico non si dovesse accreditare tra gli strumenti più adatti  ad indagare la materia vivente della mente umana.  Come per lo stesso Bion, lo strumento psicoanalitico, per la sua capacità di oscillare dall’esperienza soggettiva alla comprensione oggettiva per ritornare nuovamente all’esperienza, le sembrava particolarmente prezioso per indagare la vita psichica. Certamente queste letture hanno costituito un background che ha informato il suo pensiero.

IL CONTRIBUTO CLINICO

Tratto distintivo dell’operare clinico di Carla De Toffoli è: la ricerca dell’unisono come luogo psichico da cui nasce e funziona l’intervento dell’analista.

Sia che si tratti del resoconto di un primo colloquio, o di una seduta particolarmente dolorosa per la paziente, o del lungo percorso che condurrà alla nascita psichica un paziente grave con un funzionamento primitivo della mente, Carla De Toffoli con grande sensibilità riesce a condurci nel punto d’incontro con il paziente che è anche il luogo della risonanza all’unisono. (nota 1)

Nel suo lavoro clinico questa maestra della psicoanalisi, non si occupa solo del transfert “ conoscibile e interpretabile”, ma di quei punti oscuri, che costituiscono la relazione analitica come un “campo psichico” da lei ridefinito “spazio transferale”, in cui l’analista è così implicato che una comprensione o una cura vengono trovate per entrambi o  per entrambi falliscono.

E’ un transfert che può dilatarsi in modo multidimensionale, che può spaventare lo stesso analista, “qualora non abbia facilmente accesso all’area della creatività. Qualora, sentendosi responsabile per la sua parte, non abbia fede sufficiente nel fatto che il gioco delle rappresentazioni di transfert è giocato dall’energia creatrice della vita stessa, che è appunto quell’ignoto in cui lo spazio transferale affonda le sue radici ” ( De Toffoli, 2007, pag. 229).

E’ un transfert dove la funzione generativa del legame analitico si esplica nella convinzione che “l’elaborazione del passato anche transgenerazionale, avviene attraverso il passaggio cruciale dell’assunzione di responsabilità dell’analista dei nuclei traumatici del paziente per il tramite dei suoi propri errori. (Winnicott, La paura del crollo, 1963, cit. in Izzo 2013)

Un lavoro clinico orientato quindi, alla “ ricerca di quel sapere sconosciuto che tesse incessantemente la trama del corpo e della mente di ognuno di noi” ( De Toffoli 2001, pag. 155) e che richiede all’analista la capacità di sostenere la sospensione della mente individuale e di accogliere la comunicazione inconscia infrasensoriale – la realtà a-sensoriale dell’ultimo Bion (Vermote 2011).

Su questo punto nel 2009  Carla De Toffoli scrive:“ Le comunicazioni inconsce senza base sensoriale a cui a volte assistiamo potrebbero essere interconnessioni mediate da scambi di energia ed informazioni a livello elettromagnetico e quantistico. La condizione perché questi fenomeni diano vita a trasformazioni evolutive (K- O), sembra essere uno stato mentale difficilmente definibile, che Bion ha descritto come “assenza di desiderio”, “fede”, “pazienza” e“risonanza in O”. Questi stati di coscienza consentono di sperimentare uno spazio della mente non concettuale, di osservare il flusso delle emozioni e dei pensieri senza giudicarli e senza perdersi in essi” ( De Toffoli 2002 cit. in Izzo 2013)

L’uso vivo della teoria di Bion attraversa tutti i lavori di Carla De Toffoli  e si sviluppa lungo linee di ricerca tanto rigorose quanto originali, trovando nel concetto di espansione della mente nel campo del mito, del senso e della passione ciò che è specifico della psicoanalisi e la differenzia dalla psicoterapia. Nella convinzione che l’espansione della mente e l’espansione della coscienza “siano funzioni della realtà e della mente umana, che l’analista può attivare e con cui può entrare in risonanza per dare coesione ad elementi sparsi e privi di significato, finora privi di legame e significato”, mantenendo tuttavia la consapevolezza della dualità fenomenica. ( ib. ).

L’espansione della coscienza verso orizzonti sempre più estesi,  espande il campo analitico  verso molteplici livelli della  realtà e  diversi momenti temporali, perché “Quando analista e paziente vibrano all’unisono essi entrano in risonanza con l’infinito” (ib.).

Da questo punto di vista, l’espansione della coscienza  può creare, in particolari condizioni, la scoperta di un significato che genera una sorta di  “messa in forma organizzatrice risonante”,  che allarga il campo significabile a piani plurimi dell’esperienza  dotando simultaneamente quegli “elementi sparsi “ di senso e coerenza. Una sorta di insight multidimensionale di cui, negli scritti di Carla De Toffoli,  troviamo diversi esempi. (Un esempio tra tutti, la  splendida rilettura del testo  di Bollas nel lavoro del 2011).

In questo, Carla De Toffoli ha Fede, fede nel sapere dell’inconscio. “Un inconscio che non deriva da negazione, rimozione o spostamento, e neppure da una collezione di programmi e procedure, ma che piuttosto (si lega) a un processo emergente dall’esperienza della vita, quando le sue componenti costitutive risuonano armoniosamente, come il suono di un’orchestra ben accordata, che non ha esistenza di per sé, e tuttavia ha un grande potere quando ci sintonizziamo nell’ascolto” (  De Toffoli, 2011 cit. in Izzo 2013)

Concludo questa presentazione con la rilettura del caso di Susan ascoltando dalla voce di Carla de Toffoli , il suo personale modo di essere una psicoanalista.

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“Al punto dell’analisi di cui ci stiamo occupando, la Milner era arrivata a supporre che nel lavoro con Susan ci fosse bisogno di attuare una completa attenzione corporea, una specie di riempimento deliberato di tutto il proprio corpo con la propria coscienza. (Milner, 1969,94) insieme ad uno stato mentale concentrato in cui uno crea la propria cornice interna, uno spazio in cui si “tiene”. Fu a questo punto che Susan portò in seduta un disegno fatto dieci anni prima, durante la notte precedente il loro primo incontro, e la Milner vedendolo comprese che una delle lontane radici di questa funzione psichica di cui Susan aveva bisogno potrebbe essere l’esperienza di essere tenuti tra le braccia della propria madre. Comprese anche che Susan aveva atteso dieci anni per portarlo al momento giusto, in cui non sarebbe andato perduto. Il disegno provocava “uno stato emotivo così complesso fatto di angoscia e di tragedia che non sapevo davvero cosa farne”. Una cosa però la fece- e a posteriori se lo rimprovera: lo ripassò tutto ad inchiostro allo scopo, pensava, di vederlo meglio.

Infatti vide, o forse creò incarnandosi nel disegno attraverso il gesto grafico di ripassarlo, anche un vago barlume di speranza: la speranza di riuscire in qualche modo l’equivalente psichico delle braccia; vide che non c’erano seni, ma piuttosto le curve di un braccio che avrebbe dovuto tenere il bambino, ma era lo stesso bambino, vide che la prima preoccupazione di Susan era quella di essere tenuta in maniera sicura, prima ancora di porsi il problema di essere affamata. Prefigurò uno stato in cui Susan sarebbe stata capace di tenere sé stessa e di trarre la vita dal centro del proprio corpo, nel quale sarebbe discesa dalla testa, rinunciando al tentativo di tenersi su dall’alto per mezzo della testa. Comprese quindi che quello che avrebbe potuto realizzare anche corporalmente in se stessa durante le sedute, per rispondere al bisogno della paziente. Perché forse la paziente l’avrebbe sperimentato soltanto se l’analista ci fosse riuscita per prima. Seppe anche che avrebbe dovuto fare tutto questo restituendo a Susan la sua conoscenza unica di se stessa e della sua storia, appena possibile,” senza strapparle il cuore del suo mistero”. Tutto questo vide nel disegno, e prese su di sé ripassandone ad inchiostro i contorni, per poter vivere con la paziente l’esperienza di ricreare simbolicamente il corpo, di ricreare il mondo e la propria storia. Il dio vivente per abbracciare il corpo della piccola Susan aveva bisogno di almeno quattro braccia.

Da una nota, una tra le tante, che mi era sfuggita alla prima lettura, veniamo a sapere che solo molti anni dopo Susan racconterà alla sua analista che quando la sua nonna materna, allora diciottenne, fu trovata morta per denutrizione, la madre di Susan fu trovata stretta tra le braccia del cadavere materno (Milner, 1969, 46).

Improvvisamente il campo si espande, è come essere trasportati su un’altura da cui vediamo le linee del tempo intersecarsi e una nuova trasparenza rivelare dimensioni nascoste negli strati sovrapposti della rappresentazione grafica. Vediamo ciò che la Milner non aveva visto: nella trama del disegno, in ogni suo tratto, vediamo il tessuto del corpo trasformarsi in informazione. Vediamo rappresentata nel corpo non solo l’esperienza attuale di Susan, così acutamente decifrata dalla Milner nel qui ed ora, ma possiamo vedere -in trasparenza- anche la madre di Susan, piccola di sei mesi, in braccio alla propria madre morta per denutrizione, e lì davvero non ci sono seni, e la bambina diventa il braccio morto  della madre con cui tiene se stessa. Vediamo l’esperienza originaria della propria madre passare come un fiume sotterraneo attraverso il cuore di ogni cellula del corpo della figlia, fino ad emergere in superficie in una rappresentazione da fuori del più intimo dentro dello psiche-soma transgenerazionale, il cuore del suo mistero sepolto vivo nel corpo di Susan”(De Toffoli, 2007, pag.249-251)

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Vermote R., On de value of late Bion to analytic theory and practice. Int. Journal of Psychoanalysis 2011, 92:1089-1098. Traduzione italiana Daniela Cinelli

Winnicott D. W., La paura del crollo, in Esplorazioni psicoanalitiche1989, Cortina 1995, Milano

( Nota 1) Propongo la lettura di 3 casi tratti  dal volume dei suoi scritti che in ordine alla loro brevità e al loro valore esemplificativo, possono aiutarci a comprendere meglio la complessità e la ricchezza del suo operare clinico. Nel primo caso (2008,  a pag. 281), troviamo descritte le emozioni e la sorpresa dell’analista di fronte a “fenomeni di sincronicità” e a “coincidenze” che allargano il campo psichico ad accadimenti “difficilmente contenibili negli abituali paradigmi conoscitivi” e che dall’analista , “vengono sentiti come un attacco all’io individuale che teme di perdersi nell’infinitamente grande” (ib., pag. 281). In cui l’interpretazione data alla paziente, qualcosa di più e qualcosa di meno di un pensiero, assomiglia ad un’invenzione che è insieme un atto creativo ed arbitrario allo stesso tempo. Nel secondo caso (2009 da pag. 298 a pag. 299), troviamo un esempio di come la risonanza all’unisono possa riguardare l’area somatica che viene così inclusa nel campo dei fenomeni significabili.
Attraverso l’uso della speculazione  immaginativa tanto cara a Bion, Carla De Toffoli riesce in questo resoconto clinico a dare senso e parola,  a elementi inscritti nella memoria somatica che trovano un punto di contatto comune al paziente e all’analista. Nel terzo caso (2009 da pag. 294 a pag. 295 ), la profonda risonanza emotiva  attiene invece  ad  uno stato primitivo della mente e si  realizza solo ai livelli primari di soggettivazione, senza essere oggetto di una trasformazione narrativa, o di messa in forma metaforica. ( A. Ferro, G. Civitarese “Il campo analitico e le sue trasformazioni”, 2015). In questo esempio,  “la consapevolezza dell’evento è sostenuta dall’analista e rimane nell’ambito delle sue responsabilità. Viene fruita e percepita inconsapevolmente dal paziente, attraverso canali  di comunicazione non verbali, in quanto partecipe dello stesso stato di coscienza.” (De Toffoli, 2002, pag. 168).

gennaio 2017

Delirio
Salvador Dalí, La persistenza della memoria - 1931

Salvador Dalí, La persistenza della memoria - 1931

A cura di Franco De Masi

L’esperienza delirante 

L’esperienza delirante può comparire in diverse sofferenze mentali anche di natura organica ma in questa nota parlerò unicamente del delirio psicotico. Solo nella psicosi il delirio assume un carattere strutturato e progressivo e, una volta formato, è molto difficile da trasformare. Al pari delle allucinazioni è un evento sensoriale reale e non un sogno o una fantasia.
L’esperienza delirante non riguarda la coscienza ma la consapevolezza. Il paziente è cosciente della sua vicenda delirante ma non è consapevole della sua natura. Il delirio si produce in uno stato alterato della mente quando l’immaginazione viene trasformata in percezione sensoriale. Non è un prodotto dell’inconscio come il sogno che normalmente usa simboli o narrazioni emotive per produrre la trama onirica. L’esperienza delirante si avvale, invece, della capacità della mente psicotica di rendere sensoriale un pensiero immaginativo. In questo stato mentale la psiche non viene usata come un mezzo capace di comprendere la realtà ma come uno strumento che produce sensazioni e percezioni, cioè come un organo sensoriale. La capacità di costruire un mondo immaginativo sensoriale, creato nel ritiro, sfugge al controllo del paziente ed egli non è più in grado di distinguere la realtà neocreata da quella che esiste fuori di lui.
Nello stato delirante il paziente non pensa, ma “vede” o “sente” come se stesse sognando da sveglio. Il delirio, tuttavia, non ha alcuna parentela con il sogno. Quando sogniamo consideriamo reale la vicenda sognata, ma al momento del risveglio capiamo che il sogno corrisponde a una narrazione emotiva diversa da quanto percepiamo nella realtà. Per questo motivo il sogno è un’esperienza simbolica perché rimanda a un significato emotivo inconscio, un desiderio, un conflitto o un’angoscia del sognatore. Dall’esperienza delirante, invece, non c’è risveglio né presa di distanza perché il delirio è una percezione concreta e non una narrazione simbolica. Anche quando la parte sana guadagna gradualmente prevalenza, l’esperienza delirante rimane “un fatto reale” a differenza di un sogno che viene dimenticato quando se ne è compreso il significato.

Un problema analogo a quello posto dal delirio riguarda le allucinazioni che nella psicosi si accompagnano al delirio e che interessano particolarmente la sfera auditiva. Analogamente a quanto accade nell’esperienza delirante il paziente conferisce un carattere di realtà a un fatto che, al di fuori di ogni possibilità, nasce dalla sua mente. La capacità di creare un mondo sensoriale svincolato dalla realtà rappresentato dallo stato allucinatorio e delirante deriva dallo stato dissociato che si crea nel ritiro psichico. Questo stato mentale compare già nella prima infanzia in bambini isolati che si ritirano in un loro mondo di fantasie dissociate dalla realtà relazionale. Spesso non è facile per i genitori distinguere il mondo del ritiro in cui questi bambini vivono dal normale mondo della fantasia infantile.
La psicosi che si sviluppa come un graduale processo di regressione in cui la persona si ritira in uno spazio completamente isolato può essere considerata come la continuità e la prosecuzione del ritiro infantile. Lo stato delirante testimonia lo sviluppo estremo di un ritiro in cui la realtà interna neocreata viene proiettata all’esterno con la perdita completa di separatezza tra interno ed esterno. La confusione non è solo tra mondo interno e mondo esterno ma soprattutto tra mondo sensoriale e mondo psichico. Nella esperienza delirante il mondo sensoriale creato attraverso un distorto uso dei canali percettivi prende il posto del mondo psichico. La realtà dell’esperienza delirante-allucinatoria è tale perché il paziente usa “gli occhi e le orecchie” della mente. La mente, in altre parole, costruisce l’immagine internamente e poi la “vede” proiettata esternamente.
Di solito l’esperienza delirante ha all’inizio un carattere positivo e seducente, in forma di voci carezzevoli ed affascinanti, ma si trasforma poi in voci accusatorie, sprezzanti o terrorizzanti. Gradualmente lo stato di grandiosità si muta in una condizione di persecuzione. E’ il primitivo carattere piacevole e gratificante del mondo della fantasia delirante che attrae il paziente che sarà poi confinato in una prigione da cui non sarà possibile uscire perché ha perduto il controllo della mente e l’uso del pensiero.

Depressione
Depressione 1

John William Waterhouse, Boreas - 1903

A cura di Stefano Tugnoli

Definizione

Quando si parla di depressione è utile distinguere un termine più generico che si riferisce ad un’ esperienza affettiva che può limitarsi ad uno stato d’animo di tristezza anche momentaneo da una vera e propria sindrome depressiva. Questa è una condizione psicopatologica caratterizzata da sintomi ben precisi che includono anche altri elementi del vissuto soggettivo e del comportamento (il concetto di “sindrome” rimanda alla presenza di un gruppo di sintomi che definiscono un quadro clinico specifico).

La condizione depressiva si descrive dunque come uno stato di sofferenza soggettiva che rimanda a specifiche modalità di funzionamento psichico in cui convergono, variamente intrecciati, sintomi emotivo-affettivi (umore depresso, perdita di interesse e delle possibilità di piacere, sentimenti di impotenza e disperazione, colpa , vergogna, inutilità, indegnità, inferiorità), sintomi cognitivi (pensieri a contenuto negativo su di sé, una visione negativa del mondo e della vita, aspettative negative sul futuro, idee di suicidio), rallentamento psicomotorio, sintomi neurovegetativi (come insonnia e riduzione dell’appetito) e fisici (soprattutto dolori, astenia, disturbi gastrointestinali). Siamo nell’ambito dei cosiddetti “disturbi dell’umore”, area della psicopatologia caratterizzata primariamente da una compromissione della qualità del vissuto affettivo: il termine “umore” rimanda, infatti, allo sfondo emotivo dell’esperienza, a quella dimensione della vita psichica che colora di segno positivo o negativo il senso che l’individuo attribuisce a se stesso e al proprio rapporto con la realtà.

Sul piano epidemiologico, la depressione ha una grossa rilevanza in tutto il mondo, è sempre più diffusa ed è il disturbo psichiatrico più comune: dal 10% al 20% della popolazione adulta viene colpito dal disturbo depressivo nel corso della vita (Gabrielli, 2009; Altamura et al., 2006). Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, oggi circa 300 milioni di persone soffrono di depressione, patologia che, in base alle stime, entro il 2020 sarà la seconda più comune causa di disabilità per malattia (Siracusano, Niolu, 2007).

Per quanto riguarda le cause della depressione, dobbiamo considerare una complessità di fattori che comprendono: la predisposizione genetica, gli eventi di vita e la dimensione psicologica della soggettività nelle sue varie articolazioni cognitive e affettive.
La psicoanalisi, che ha come specifico oggetto d’indagine la realtà psichica, individua le radici della depressione nelle profondità dell’inconscio e nel mondo interno.
Dal punto di vista della psicoanalisi dello sviluppo la depressione è intesa anche come dimensione dello psichico che attiene alle vicende evolutive di ogni individuo.
Dalla nascita in poi il bambino incontra molteplici momenti di dolore emotivo che, nel caso di uno sviluppo sufficientemente sano, sono funzionali alla crescita.
Quando le cose non vanno per il meglio, quando l’ambiente non è sufficientemente in grado di rispondere ai bisogni del bambino (che a sua volta può essere particolarmente vulnerabile o predisposto) le vicende depressive infantili possono assumere valenze patogenetiche, tracciando linee di fragilità strutturale nella psiche dell’individuo. In questi casi può svilupparsi una vera e propria depressione infantile, oppure tali fragilità possono rimanere silenti per molto tempo, rivelandosi solo nella vita adulta in occasione di particolari difficoltà.
Ciò che può rendere patologica questa situazione non è soltanto la presenza di uno stato d’animo depressivo, ma il fatto che questo vada a delinearsi con particolari qualità, intensità e durata nel tempo: la depressione diventa malattia quando finisce per occupare in modo pervasivo la vita psichica dell’individuo determinando importanti limitazioni, impedimenti o significative alterazioni a livello relazionale, lavorativo e sociale.
L’intensità del male depressivo può andare da livelli relativamente lievi o moderati, che fanno soffrire ma che non impediscono di lavorare e di avere una vita di relazione (sono le cosiddette “depressioni nevrotiche”), sino a situazioni cliniche molto gravi e disabilitanti, che determinano una frattura nella continuità del corso dell’esistenza, la compromissione del contatto con la realtà e la comparsa di pensieri deliranti di colpa, di rovina o ipocondriaci (in questi casi si parla di “depressione psicotica”).
La depressione in psicoanalisi

Freud in Lutto e Melanconia (1917) delinea con estrema precisione le dinamiche intrapsichiche inconsce che determinano l’insorgenza della depressione, confrontandole con quelle che caratterizzano l’esperienza del lutto.
Egli nota che il dolore del lutto permane per un certo tempo, almeno fino a quando il soggetto non è in grado di accettare realisticamente la perdita e di rivolgere la sua affettività ad altri oggetti, ad altre persone o cose, concrete o astratte che siano (questo processo è ciò che viene chiamato comunemente “elaborazione del lutto”) . In alcune persone il lavoro psichico del lutto si rivela impossibile: l’Io è pieno di colpa e senso d’ indegnità e s’instaura una depressione.
Freud intuisce che ciò che appare come autoaccusa e senso di colpa in realtà è un rimprovero colpevolizzante diretto all’oggetto (interiorizzato) d’amore perduto, rimprovero che si ritorce sull’Io del soggetto che è inconsciamente identificato con l’oggetto.
La manovra difensiva si rivela tuttavia perniciosa a causa dell’intensa ambivalenza che caratterizza la relazione oggettuale.
L’oggetto perduto, con cui l’Io del soggetto s’ identifica, fu tanto amato ma anche molto odiato, e quella ostilità che, insieme all’amore, inizialmente era orientata verso l’oggetto, ora investe quella parte dell’Io che si è identificata con esso: “l’ombra dell’oggetto ricade sull’Io”.
Il carico di odio ritorna quindi sull’Io come autoaccusa e senso di colpa in un circolo vizioso che, in casi estremi, può portare al suicidio.

L’affetto depressivo

Nella sua forma più elementare l’affetto depressivo corrisponde ad un vissuto d’impotenza (helplessness) cioè all’essere inermi e disperati di fronte ad una situazione che è intervenuta e che non si può cambiare (Bibring, 1953); un fatto compiuto e sentito come irrevocabile che ha introdotto un cambiamento negativo della propria condizione. L’evento “chiave” che può innescare l’affetto depressivo è la perdita, la perdita di qualcuno/qualcosa che si ritiene necessario per il mantenimento del benessere psichico. Allo stesso tempo questo cambiamento si denota anche come perdita di uno stato del Sé, come un venir meno della stabilità interiore e del sentimento del proprio valore, della propria capacità. L’affetto depressivo implica sempre quindi un calo dell’autostima e un impoverimento del Sé: chi è depresso si sente scarico, svuotato, non crede più in se stesso e può ritenersi un fallito.
Ma perché l’autostima sia compromessa, e si produca così l’affetto depressivo, è necessaria anche la presenza di altri fattori.
Bleichmar (1996, 1997), riprendendo Freud (1926), evidenzia come oltre alla perdita oggettuale, debba sussistere anche la mancata accettazione della perdita e il permanere del desiderio nei confronti dell’oggetto perduto, desiderio destinato a rimanere insoddisfatto per sempre perché la propria aspirazione al ricongiungimento con esso rimarrà sempre tale.
Infine, perché si determini una compromissione dell’autostima e si configuri un’esperienza depressiva, è necessaria la presenza dell’aggressività, un’aggressività diretta contro se stessi che, sia pur con rilievi e significati diversi, ritroviamo in tutte le forme di depressione (Bleichmar,1996, 1997). Questo aspetto, peraltro, è ciò che differenzia la depressione dalla semplice tristezza, condizione che non ferisce il sentimento di sé, non implica un calo di autostima e non toglie la speranza.

Fatte queste premesse sul nucleo costitutivo di ogni esperienza depressiva (l’affetto depressivo), va precisato che parlare di “depressione” non significa riferirsi ad un’unica condizione clinica: la psicoanalisi contemporanea affronta il problema considerando le eterogenee configurazioni del mondo interiore che sta dietro le quinte della sofferenza, i livelli di funzionamento mentale e di organizzazione strutturale della personalità che sottendono diverse espressioni cliniche della depressione.

Senso di colpa e senso di vergogna

La depressione può caratterizzarsi per la presenza di un senso di colpa che opprime la coscienza dell’individuo con autoaccuse, recriminazioni, rimorsi. E’ come se la persona depressa sente di aver fatto qualcosa di contrario ai propri princìpi o di lesivo del bene degli altri, soprattutto delle persone che gli sono affettivamente più vicine.
A volte nell’esperienza depressiva non vi è tanto il sentimento di colpa quanto piuttosto un animo mortificato, travolto da un senso di sconfitta e di fallimento: sono qui in primo piano la vergogna, l’umiliazione e l’autosvalutazione legati al non essersi dimostrati all’altezza delle proprie aspettative, incapaci di raggiungere o confermare ciò che da se stessi si pretendeva.
Sono circostanze nelle quali risulta centrale una fragilità narcisistica a causa della quale, ogni volta che la realtà non corrisponde alle aspettative, gli equilibri affettivi si dimostrano precari e vulnerabili, nel segno del fallimento e della delusione verso se stessi.
Il soggetto vede compromessa l’immagine di sé e sperimenta traumaticamente l’impossibilità di corrispondere ad un proprio ideale e di disporre sempre e comunque dell’attenzione, dell’approvazione e dell’ammirazione dell’altro (Battacchi, Codispoti, 1992; Chasseguet Smirgel, 1975; Lewin, 1971; Nathanson, 1987). A questo livello l’esperienza depressiva può essere vissuta come un insulto, come uno scarto intollerabile tra un concetto idealizzato di sé e l’evidenza delle cose che lo smentiscono. La rabbia narcisistica (Kohut, 1978) suscitata dalla vergogna e dall’umiliazione può dominare il campo e può anche tradursi in comportamenti autodistruttivi.

Altre volte le difficoltà narcisistiche sono alla base di depressioni croniche che opacizzano la vita di chi si sente sistematicamente incapace, inadeguato, inferiore, impossibilitato a realizzare ciò che desidera. L’individuo avverte un’insufficienza fondamentale nel suo essere, soggiogato da un ideale di sé eccessivamente pretenzioso che lo pone drammaticamente in rapporto con i suoi limiti (Pasche, 1963). Egli si sente schiacciato da uno scarto tra desiderio e realtà mai completamente colmabile, nell’incapacità di corrispondere a ideali infantili smisurati che non si sono mai ridimensionati con lo sviluppo, con il riconoscimento del limite umano, con l’accettazione delle inevitabili frustrazioni della vita.

La fragilità costitutiva del sentimento di sè può talvolta portare a cercare affannosamente i rifornimenti per l’autostima soprattutto nel mondo esterno, nelle situazioni di vita e nelle relazioni.
È questo il caso di individui che mostrano una difficoltà “strutturale” nel dare continuità al senso del proprio valore in assenza di conferme e di riconoscimenti provenienti dall’esterno. Si parla in questi casi di “depressione anaclitica” (Blatt, 1974) (il termine “anaclitico” fa riferimento all’appoggiarsi su qualcuno/qualcosa), caratterizzata prevalentemente da angoscia di abbandono e senso di isolamento, da un pervasivo bisogno di essere amati “nutriti” e protetti da persone o situazioni particolarmente investite sul piano affettivo.

Esistono infine forme depressive particolarmente radicate nel carattere degli individui.
Kernberg (1988), a questo proposito, parla di “disturbo di personalità depressivo-masochistico”, segnalando la stretta commistione tra depressione e aspetti del carattere che rimandano al “masochismo morale”, concetto introdotto da Freud (1924) per descrivere un assetto caratteriale centrato su un senso di colpa inconscio che porta l’individuo a ricercare situazioni punitive, procurandosi una sofferenza psicologica che, sia pur inconsciamente, gli appare come necessaria, mentre agli occhi degli altri risulta assurda e incomprensibile.
In questi soggetti prevale l’idea di poter essere amati solo mortificando se stessi, di riuscire ad evitare la perdita dell’amore con la sofferenza con il risultato di essere trascinati nella perdita di sé (Bieber, 1980). Il masochista morale “è un depresso che continua a sperare” (McWilliams, 1994) mantenendo a tutti i costi una relazione con l’oggetto, anche se a prezzo della propria infelicità.

Un ultimo aspetto da considerare, in questa breve e inevitabilmente parziale ricognizione della depressione, riguarda il fatto che non sempre l’affettività, il funzionamento cognitivo e il comportamento del soggetto presentano i tratti ben riconoscibili della “sindrome depressiva”.

Ci sono circostanze in cui l’affetto depressivo “non trova le parole” e si esprime nel corpo, con somatizzazioni di vario genere che rientrano nella configurazione della cosiddetta “depressione mascherata”: non si osserva il tipico abbassamento del tono dell’umore, mentre prevalgono i sintomi somatici, come dolori diffusi, disturbi gastrointestinali, cefalea, insonnia, stanchezza persistente o altri sintomi fisici. L’espressione nel corpo del disagio depressivo risulta particolarmente importante nei bambini – che ancora non dispongono di adeguati mezzi verbali e di capacità cognitive che consentano di dar voce alle loro emozioni – e negli adolescenti o negli anziani, per i quali il corpo, anche se per motivi molto diversi, assume nel vissuto soggettivo un’importanza centrale .

Talvolta è invece un ricorrente stato di agitazione a mascherare un sottostante assetto depressivo: il sentimento di incapacità e fragilità intrinseco alla depressione fa sì che ogni cosa, ogni impegno, scelta o relazione, possa diventare una minaccia al proprio equilibrio. L’allerta permanente che ne consegue si manifesta con una sintomatologia ansiosa, in apparente assenza di depressione; nella pratica clinica sono frequenti i casi di ansia che, ad un esame più approfondito, si precisano in realtà anche come disturbi depressivi (depressione agitata).

Infine la depressione può presentarsi insieme alla patofobia, con il convincimento angoscioso, più o meno tenace, di essere affetti da qualche malattia fisica, grave o mortale, in assenza di una corrispondente patologia organica riscontrabile nella realtà.
Spesso questa condizione si accompagna al corteo dei diversi sintomi che caratterizzano il quadro clinico tipico della depressione, ma a volte appare essenzialmente come angoscia ipocondriaca, come terrore di fronte alla malattia di cui ci si crede portatori, come una “depressione senza affetto depressivo” (Asch, 1966).

BIBLIOGRAFIA

Altamura A.C., Cattaneo E., Russo M. (2006) Disturbi dell’umore. In: G. Invernizzi, Manuale di psichiatria e psicologia clinica, McGraw-Hill Ed., Milano.
Asch S.S. (1966) Depression: three clinical variations, Psychoanal. St. Child, 21:150-171.
Battacchi M.W., Codispoti O. (1992) La vergogna, Il Mulino Ed., Bologna.
Bibring E. (1953) Il meccanismo della depressione. In: Il significato della disperazione (a cura di W. Gaylin), Astrolabio Ed., Roma, 1973.
Bieber I. (1980) The meaning of masochism in cognitive psychoanalysis, Jason Aronson, New York, London.
Blatt S.J. (1974) Levels of object representation in anaclitic and introjective depression, Psychoanal. St. Child, 29:107–157
Bleichmar H.B. (1996) Some subtypes of depression and their implications for psychoanalytic treatment, Int. J. Psycho-Anal., 77:935-961.
Bleichmar H.B. (1997) Psicoterapia Psicoanalitica, Astrolabio Ed., Roma, 2008
Chasseguet-Smirgel J. (1975) L’ideale dell’Io, Raffaello Cortina Ed., Milano, 1991
Freud S. (1917) Lutto e Melanconia. In: Opere di Sigmund Freud, Vol.8, Boringhieri Ed., Torino, 1976.
Freud S. (1924) Il problema economico del masochismo. In: Opere di Sigmund Freud, Vol. 10, Boringhieri Ed., Torino, 1978
Freud S. (1926) Inibizione, sintomo e angoscia. In: Opere di Sigmund Freud, Vol. 10, Boringhieri Ed., Torino, 1978
Gabrielli F. (2009) Disturbi dell’umore. In: F. Giberti¸ R. Rossi, Manuale di psichiatria, Piccin Ed., Padova, 2009
Kernberg O. F. (1988) Clinical dimensions of masochism, Journal of the American Psychoanalytic Association, 36: 1005-1029
Kohut H. (1978) La ricerca del Sé, Bollati Boringhieri Ed., Torino, 1982
Lewin S. (1971) The psychoanalysis of shame, Int. J. Psycho-Anal., 52:355-362
McWilliams N. (1994) La diagnosi psicoanalitica, Astrolabio Ed., Roma, 1999
Nathanson D.L. (1987) A timetable for shame. In: The many faces of shame (D. L. Nathanson ed.), The Guilford Press, Los Angeles
Pasche F. (1963) De la depression, Revue Francaise de Psychanalyse, XVII
Siracusano A., Niolu C. (2007) La depressione. In: Siracusano A. (coordinatore), Manuale di psichiatria, Il Pensiero Scientifico Ed., Roma, 2007
Tugnoli S., Tra le pieghe dell’ombra, Foschi Ed., Forlì, 2010

Giugno 2014

Desiderio
Jeff Koons, Hanging Heart – 1995

Jeff Koons, Hanging Heart – 1995

A cura di Sarantis Thanopulos

La definizione del desiderio è resa problematica dalla sua confusione semantica con il bisogno. Se la differenziazione tra i due termini è già difficile sul piano concettuale, la loro sovrapposizione nel linguaggio comune è quasi la prassi. Nondimeno, tra desiderio e bisogno esistono tre differenze fondamentali che riguardano: a) il tipo di piacere che procura il loro appagamento; b) il loro rapporto con il funzionamento dell’apparato psicocorporeo; c) la natura della relazione con l’altro che essi tendono a determinare.

L’appagamento del bisogno dà un piacere che è il sollievo derivante dalla diminuzione di una tensione psicocorporea spiacevole. Scarica la tensione in superficie, evita la sua propagazione in profondità. La soddisfazione del desiderio è un’esperienza complessa, profonda, che coinvolge sensualmente l’intera struttura psicocorporea. Produce un piacere che deriva dalla persistenza di una tensione piacevole.

Il bisogno implica il ritorno a uno stato precedente a quello di una tensione, una liquidazione degli stimoli che la provocano. Implica un funzionamento psicocorporeo omeostatico, centrato sulla stabilità e la costanza, che si oppone alle trasformazioni che vengono vissute come fonti di destabilizzazione. Insegue la prevedibilità, non ammette il fallimento, “ragiona” necessariamente in termini di quantità: calcola quantitativi di tensione e scarica.

Il desiderio crea una destabilizzazione, sbilanciamento della struttura psicocorporea, produce una sua trasformazione. Segue una visuale di qualità fondata sull’esperienza “gustativa”: insegue il piacere dei sensi, persiste nelle variazioni di intensità e di ritmo, nell’assaporare il mutare delle proprietà, nei cambiamenti di visuale e di prospettiva. Diffida del calcolo, della prevedibilità e della stabilità, che producono assuefazione, non disdegna l’incertezza e il rischio, tiene conto della possibilità di un suo fallimento. Dischiude la materia della soggettività alla realtà, crea l’interesse per il mondo.

Nel campo del bisogno puro l’altro funziona come protesi, si annette al soggetto bisognoso ed è assimilato alla sua materia. È trattato in modo impersonale:  può essere usato come oggetto strumentale di scarica o eliminato se crea tensione. Nel campo del desiderio l’altro si congiunge al soggetto. È riconosciuto e rispettato nel suo modo di essere e di desiderare.

Ne L’interpretazione dei sogni (1899) Freud ha concepito il desiderio, nella sua forma sorgente, nel lattante, come “moto psichico” teso alla riproduzione dell’immagine mnestica associata all’appagamento di un bisogno fisico (nell’esempio che egli ha fatto, la fame). È la riproduzione dell’immagine, che si realizza in modo allucinatorio, a rappresentare la soddisfazione del desiderio e non la reale esperienza di appagamento. Questa visuale di Freud, di cui sarebbe opportuno ricordare la stretta connessione con la definizione del sogno come appagamento allucinatorio di un desiderio infantile, è foriera di problemi. Se da una parte fa una chiara distinzione tra desiderio e bisogno, dall’altra rende il primo subalterno al secondo. Non solo perché l’immagine da riprodurre riguarda il bisogno, ma anche perché senza un tempestivo intervento dell’appagamento reale, l’edificio della riproduzione allucinatoria crollerebbe.

L’intenzione di Freud è quella di accordare il desiderio alla sua concezione di un’iniziale onnipotenza dell’apparato psichico, garantita dalla costanza delle cure materne che impediscono il distacco tra l’appagamento reale e la sua allucinazione. L’onnipotenza iniziale protegge l’apparato psichico da un precoce adattamento alla realtà, che avrebbe minato il suo sviluppo conferendogli un carattere compiacente, reattivo. Nondimeno, Freud limitando il dispiegamento del desiderio nel solo spazio psichico, lo dissocia dal movimento corporeo e dalla reale esperienza di piacere dei sensi verso la quale  tale movimento tende. L’apparato psichico che egli configura in questo modo è di natura omeostatica, conservativa: insegue il piacere sulla via dell’appagamento del bisogno, cerca il sollievo.

Ne Il problema economico del masochismo (1924), Freud riafferma con forza la centralità del principio del piacere non solo come “custode della nostra vita psichica, ma della nostra vita in genere”, dopo averla messa in discussione in Al di là del principio di piacere (1920). Costretto ad affrontare il problema del piacere associato al dolore, mette in discussione la sua concezione del piacere e del dispiacere come diminuzione  o incremento di una quantità di tensione provocata da uno stimolo. Partendo dall’incontestabile esistenza di rilassamenti spiacevoli e di tensioni piacevoli (in particolare quella sessuale) introduce, come strumento di spiegazione più adeguato della differenza tra dispiacere e piacere, un fattore qualitativo. Della natura di questo fattore, la cui conoscenza permetterebbe di fare “un grande passo avanti in psicologia”, non è certo. “Forse”, dice, è il ritmo: la sequenza temporale degli aumenti e delle diminuzioni della quantità dello stimolo.

Questa promettente trasformazione della visuale di Freud non è stata ulteriormente  elaborata ed è rimasta marginale nella sua teorizzazione. Egli ha lasciato in eredità una rigorosa definizione dell’apparato psichico in assetto difensivo, la cui descrizione migliore si trova in Inibizione, sintomo e angoscia (1925). Questo apparato è alla ricerca delle condizioni esterne più prevedibili e meno passibili di trasformazione.

Freud ha disincarnato, di fatto, il desiderio, separandolo dal piacere dei sensi e dal movimento, gesto del corpo  che accompagna il movimento psichico al godimento dell’oggetto desiderato. Lacan (1958) ha proseguito ulteriormente sulla strada della disincarnazione, definendo il desiderio come “metonimia della mancanza a essere”, una maniacalità perpetua dell’esistenza. L’infinito scorrere del desiderio da un oggetto all’altro, la fuga permanente dal lutto. Collocando il godimento dei sensi nel registro dell’animalità, dell’annientamento dell’oggetto di cui si gode, Lacan l’ha interpretato, di fatto, come appagamento del bisogno, consumo della cosa goduta. Al desiderio non ha riconosciuto altro destino che l’affannosa ricerca dell’oggetto piccolo a, residuo di carnalità sottratto alla sublimazione, umanizzazione del rapporto con la Cosa, il corpo materno: l’oggetto di un godimento originario supposto senza limiti, assoluto.

Il desiderio non passa da un oggetto all’altro nel tentativo senza fine di sottrarsi a una sua costitutiva mancanza, negandola. Ha una costituzione antinomica: insegue la permanenza del suo oggetto e, al tempo stesso, evita l’assuefazione. Deve ritrovarlo sempre nella sua riconoscibile identità e scoprirlo sempre in forme inconsuete, nuove. Lo allontana dal luogo di un legame assoluto, unico, ma cerca di non disperderlo in mille luoghi.  Lo colloca in una moltitudine di oggetti in cui vive e si dispiega, per perderlo e ritrovarlo in una o un’altra forma privilegiata. Abita la mancanza, tra assenza e presenza dell’oggetto, tra lontananza e prossimità, plasmando la distanza come differenza.

Il desiderio è un derivato della pulsione erotica. Quest’ultima non è un istinto che mira all’eliminazione di stimoli sgradevoli, ma la spinta che impegna l’intera struttura psicocorporea nella ricerca di una persistente, intensa tensione gradevole procurata dai sensi. La pulsione in se stessa ignora l’alterità, particolarità dei suoi oggetti rispetto alla sua meta,  riconosce solo cose in grado di produrre piacere. Il desiderio nasce dove il soggetto spinto dalla pulsione incontra la differenza del proprio oggetto: il suo idioma nel manifestarsi piacevole secondo le sue intrinseche proprietà, che orientano, dandogli profondità e intensità, il proprio godimento. Differenza è desiderio sono indissociabili: la prima fa esistere il secondo  viceversa.

Legato alla differenza del suo oggetto, che subisce, soffre e, al tempo stesso,  cerca e crea, il soggetto desiderante è in relazione con essa, anche quando all’inizio della sua esperienza non la concepisce e non la riconosce. Il desiderio si configura originariamente come movimento psicocorporeo di estroversione della soggettività in gestazione verso l’incontro sensuale con il corpo materno. L’ estroversione, apertura dell’essere al mondo è silenziosa e il desiderio è desiderio di sé, movimento incompiuto: paradossale destabilizzazione omeostatica, tensione verso il fuori da sé priva ancora di un oggetto esterno. Il piacere dei sensi trascende i confini psicocorporei del soggetto e li estende a sua insaputa.

Il desiderio assume la sua forma compiuta, di desiderio rivolto all’altro, quando il venir  meno dell’iniziale costanza delle cure materne mette il bambino di fronte alla perdita della madre come parte di sé, lo espone a un riconoscimento di separatezza drammatico, vissuto come mutilazione della propria esperienza. La ricerca del piacere incontra il dolore della mancanza: la lontananza che continua a dialogare con la prossimità, con la disponibilità dell’oggetto -la cui appropriazione ripara la mutilazione- che non è preclusa né scontata. Il desiderio esce dal narcisismo e dall’autoreferenzialità, diventa sconvolgimento, terremoto della soggettività. Pathos,  sofferenza, ma anche “provare” profondo, che ex-tende la materia del soggetto verso l’alterità, lo sbilancia e lo fa sporgere, inclinare  nel suo spazio. Il patire, combinazione della spinta interna di appropriazione dell’oggetto mancante e dell’attrazione che esso esercita dall’esterno, è sperimentazione, configurazione di potenzialità che pre-sente, pregusta l’incontro con l’oggetto desiderato.

Il desiderio ama il lutto perché è il lutto che lo fa nascere, lo costituisce (Thanopulos  2016). La relazione di desiderio insegue la disponibilità dell’oggetto desiderato,  vive in compagnia di un’esperienza luttuosa. Il lutto dà la misura del lavoro di trasformazione che il soggetto deve compiere su di sé per ritrovare l’oggetto desiderato accordandosi, su un piano nuovo, esprimente un’altra possibilità, con la sua differenza.  L’elaborazione del lutto, che richiede che l’oggetto perduto resti disponibile, sia pure su un piano potenziale, lo restituisce, al tempo stesso, identico -riconoscibile nella sua profondità temporale, nella sua persistenza e  nella sua identità, cifra originale- e trasformato -aperto alla sperimentazione e all’esplorazione di modalità d’uso inconsuete.

Le radici del desiderio che è rivolto all’altro riconosciuto nella sua differenza sono passionali. Sotto l’effetto immediato del dolore della separazione e della mancanza, mirano alla realizzazione senza compromessi e mediazioni di un godimento non più scontato e stabile. Frutto dell’apertura sanguinante del narcisismo all’alterità, la passione del desiderio è ancora sotto il suo effetto: porta il soggetto a occupare il luogo dell’altro -sul versante del sadismo, definito da Winnicott “amore spietato”,  che non riconosce all’oggetto la sua soggettività- o a farsi occupare  nel proprio luogo dall’altro – sul versante del masochismo, del lasciarsi andare, abbandonarsi all’oggetto, abdicando alla propria prospettiva. Queste due correnti passionali del desiderio, nel luogo in cui il narcisismo si apre, in due modi opposti, alla vita, mettono in pericolo la relazione erotica: possono portare il soggetto a “uccidere” il desiderio dell’altro dentro di sé o a farsi “uccidere” nel proprio da lui.

La moderazione del desiderio, la modulazione che l’allontana dai suoi eccessi, non è opera di una regolazione esterna al suo dispiegamento, una repressione a fin di bene che lo rende “ragionevole”. È un’intrinseca necessità del desiderio stesso:  se  l’oggetto desiderato non è rispettato nella sua soggettività,  cessa di essere sufficientemente vivo e desiderabile; se l’abbandonarsi nelle mani dell’altro è eccessivo, la capacità di desiderare è in forte pericolo. Proteggere l’altro dalla propria passione e proteggersi dalla sua, è la condizione necessaria per poter restare desideranti. Il desiderio scopre che è proprio ciò che si oppone al suo eccesso che lo fa persistere, permanere. Il soggetto desiderante impara a prendere cura di sé e dell’altro sviluppando un desiderio responsabile.  La passione si responsabilizza attraverso l’accordarsi degli amanti nella loro esperienza intima di amarsi guidata dall’esigenza di mantenersi reciprocamente desiderabili e desideranti. (F.Ciaramelli, S. Thanopulos 2016)

La responsabilizzazione della passione avviene nel segno del riconoscimento della differenza tra le soggettività desideranti che le mantiene libere e vive nel loro impegnarsi. Non è esatto dire che desideriamo il desiderio dell’altro (Hegel, Lacan). Desideriamo che l’altro sia desiderante perché sia davvero desiderabile e questo implica la sua libertà di desiderare altro da noi o di costituirsi come nemico, piuttosto che amico, del nostro desiderio. Inseguendo la differenza, il desiderio ama l’incertezza tra l’essere e non essere desiderati.

La differenza è la forza motrice della sublimazione del desiderio. La sublimazione non è  disincarnazione, de-sessualizzazione  dell’esperienza, appagamento consolatorio, la simbolizzazione come astrazione dalla carne viva della materia psicocorporea. È l’estensione dell’esperienza sensuale, erotica, sessuale al di là dei confini della contiguità corporea e sensoriale. Amplia all’infinito il gioco delle differenze tra due corpi erotici, la cui congiunzione evoca, anche quando ne è tanto lontana da sostituirla del tutto. (S.Thanopulos 2016).

Bibiografia

F. Ciaramelli, S.Thanopulos Legge e desiderio, Mursia Editore, 2016

S. Freud (1899) L’interpretazione dei sogni, O.S.F. Vol. 3

S. Freud (1920) Al di là del principio di piacere O.S.F. Vol. 9

S. Freud (1924) Il problema economico del masochismo, O.S.F. Vol. 10

S. Freud (1925) Inibizione, sintomo e angoscia, O.S.F. Vol. 10

J. Lacan (1958)  La direzione della cura  e i principi del suo potere in Scritti, Einaudi, Torino 1974

S Thanopulos Il desiderio che ama il lutto, Quodlibet, Macerata 2016

Diagnosi Psicoanalitica
H.Bosch, La pietra della follia, 1494

H.Bosch, La pietra della follia, 1494

Diagnosi Psicoanalitica

A cura di L. IANNOTTA

L’etimologia del termine “diagnosi” (letteralmente: conoscenza in progress) rimanda al processo (dia) per mezzo del quale si arriva alla conoscenza (gnosis), nel nostro caso l’identificazione del funzionamento psichico di un’individuo e, allo stesso tempo, al nome che si attribuisce a tale funzionamento.

Dopo secoli in cui la malattia mentale soggiaceva ad una visione magica, religiosa o alla demonologia, si è arrivati nel corso del XIX secolo sempre di più a considerare la follia come espressione di una malattia e una grande mole di ricerche degli psichiatri intenti a definire i quadri morbosi sono confluite negli scritti dello psichiatra Emil Kraepelin (1856-1926) e Sigmund Freud (1856-1939).

Si sono così prodotti tre distinti approcci alla salute mentale:

– l’approccio psicoanalitico si basa essenzialmente sulla conoscenza idiografica, ossia si concentra sulle peculiarità di un singolo individuo (idios), sulla sua specificità e irripetibilità e fa riferimento al proprio corpus teorico. Questo approccio, che si basa su rappresentazioni e processi consci e inconsci, considera le specifiche entità morbose come deviazioni quantitative di un continuum relativo alla personalità, alla percezione, alla cognizione, all’umore, e ad altre caratteristiche derivanti dalla teorizzazione di Sigmund Freud e degli psicoanalisti che si riconoscono nel suo modello e nelle sue dirette evoluzioni;

– la tradizione psichiatrica, che persegue l’obiettivo di associare la diagnosi alla prognosi e ad uno specifico trattamento. Questa tipologia di diagnosi si basa sulla conoscenza nomotetica, ossia identifica un gruppo di criteri e implica che, per fare la diagnosi, quegli specifici criteri debbano essere soddisfatti. Il disturbo è inteso come un insieme di tratti o caratteristiche stabili, le categorie diagnostiche sono differenziate qualitativamente, separate tra loro e mutuamente esclusive;

– la psicometria che attraverso test, questionari e interviste valuta il soggetto tenendo conto di una serie di dimensioni che intendono approdare alla misurazione del funzionamento della personalità; queste dimensioni non hanno l’obiettivo di considerare il caso specifico ma tendono alla conoscenza nomotetica, ossia l’individuazione di leggi (nomos) e ricorrenze che accomunano il funzionamento delle persone nelle diverse situazioni.

Lo psicoanalista Fausto Petrella in “Nosologia e psicoanalisi” (1989) dimostra come Freud (1892-1897), pur lasciando trasparire un interesse specifico per la nosologia, abbia ben presto mostrato l’incompatibilità che si genera tra l’istanza classificatoria e descrittiva della psichiatria e la concezione dinamica e mobile del funzionamento mentale che lui stesso andava elaborando.

A partire da un quadro osservativo e relazionale del tutto inedito ed estraneo alla psichiatria, Freud (1915-17) arriva ad affermare che la psichiatria cerca di caratterizzare il sintomo con una qualità essenziale ma che non ha la capacità di andare oltre. D’altra parte, si va sempre più convincendo che i sintomi altro non sono che manifestazioni ingigantite di fenomeni presenti nella vita psichica di ognuno.

A questo proposito, Westen, Gabbard e Blagov (2006) hanno evidenziato che Freud (1892-97) inizialmente, ha proposto un modello di sindromi discrete e solo successivamente ha maturato la convinzione che non era possibile comprendere i sintomi dei pazienti, isolati da ciò che viene definito carattere, o struttura di personalità. Si passa così dalla nevrosi sintomatica, intesa come sacca di patologia relativamente isolata, al concetto di nevrosi di carattere, ossia una patologia che pervade tutta la personalità.

Pertanto, Freud (1915-17) iscrive il tema della diagnosi nel modello psicoanalitico del funzionamento della mente e afferma di non voler semplicemente descrivere e classificare i fenomeni, ma concepirli come indizi di un gioco di forze che si svolge nella psiche, come espressione di tendenze orientate verso un fine che operano insieme, o l’una contro l’altra per arrivare ad una concezione dinamica dei fenomeni psichici. La diagnosi in psicoanalisi è dunque imprescindibile dal modello complesso della teoria psicoanalitica e include diversi livelli: dinamico (considera i processi mentali come risultato dell’interazione di forze che possono essere in conflitto tra loro), economico (considera la quantità e l’intensità di tali forze); topografico o strutturale (l’apparato psichico è considerato uno strumento composito,  si tende a stabilire in quali parti si compiono i diversi processi psichici); evolutivo o genetico (valuta il continuum del ciclo di vita a partire dall’infanzia); adattativo (tiene conto del contesto sociale e ambientale con cui l’individuo interagisce, a cui si adatta o che si adopera per modificarlo).

Il livello evolutivo acquista una particolare rilevanza dal momento che Freud concepiva l’idea che la matrice della salute e della malattia psichica è rintracciabile nell’esperienza infantile e che è questa esperienza che viene riattualizzata nella relazione con lo psicoanalista (transfert). La struttura e il funzionamento psichico, e in particolare la dimensione inconscia, emergeranno man mano all’interno della relazione grazie allo specifico setting previsto dal metodo psicoanalitico.

È questa la cornice che permette a Freud (data) e ai primi psicoanalisti di individuare tre grandi classi di patologie psichiche: a) la Nevrosi che raggruppa l’isteria di conversione (corrisponde grosso modo agli attuali disturbi somatoformi), l’isteria di angoscia (fobie) e la nevrosi ossessiva; b) le Nevrosi narcisistiche: forme melanconiche (depressive) non psicotiche; c) la Psicosi: schizofrenia, paranoia e psicosi maniaco-depressiva/disturbi bipolari. Le patologie collocate all’interno di queste tre macrocategorie si differenziano in base ai loro punti di “fissazione”, alle diverse fasi dello sviluppo psicosessuale e dell’Io, ai meccanismi di difesa e alle angosce prevalenti (Ponsi, 2009).

Sul piano descrittivo e organizzativo della vita psichica sono stati individuati tre livelli che caratterizzano la diagnosi psicoanalitica. Il livello delle difese: le caratteristiche, la frequenza e l’intensità; il livello psico-genetico, che tende alla descrizione delle relazioni tra processi psichici, stadi di sviluppo e relative funzioni; il livello della struttura della personalità relativo all’organizzazione complessiva e alle modalità precipue, relativamente stabili, con cui un soggetto si pone in relazione con gli oggetti del suo mondo esperienziale (Sarno, Caretti, 1999).

In questo modello della diagnosi, concepito come processo dimensionale, l’assunto è che esista un continuum salute-malattia, che la sofferenza abbia un suo significato che viene deformato o occultato dal sintomo, che quell’individuo va visto rispetto alla sua storia e al contesto e solo tenendo conto di queste diverse estensioni si può arrivare ad una comprensione integrata di quella persona e del suo funzionamento. Si differenzia così il processo del diagnosticare dalla diagnosi come “verdetto”, superando il concetto di staticità sia in termini categoriali che temporali (Westen, Gabbard, Blagov, 2006). Rossi Monti (2008) ha posto il problema di che cosa ci si attende dalla diagnosi e che uso se ne fa. Dopo aver dichiarato che la diagnosi che addormenta ogni ulteriore possibilità di conoscenza si pone come ostacolo nella relazione terapeutica, ha indicato la assoluta necessità di difendere ad ogni costo la differenza dell’approccio «clinico» dall’approccio «cinico», dove la ‘l’ comporta una enorme differenza (2008, p. 797). Ma proprio l’approccio clinico alla diagnosi ha determinato una concezione così complessa che, con Petrella (1989), dobbiamo convenire che non si può arrivare ad una tavola schematica che integri tutte le posizioni psicoanalitiche che considerano le diverse sfaccettature del processo e della denominazione diagnostica.

È utile, per concludere, richiamare un saggio scritto da Melanie Klein alla fine della sua vita (1960), e pubblicato postumo, in cui sintetizza il suo pensiero sul tema di cui si era occupata per tutta la vita: che cosa determina la salute mentale? Klein argomenta che, considerando la “natura articolata e complessa della mente”,  alla base della salute mentale c’è una buona integrazione della personalità. Le caratteristiche di una personalità integrata, quindi in buona salute, sono: maturità emotiva, forza di carattere, capacità di trattare i conflitti emotivi, equilibrio tra mondo interno e adattamento alla realtà, coesione delle diverse parti della personalità. Melanie Klein specifica che la salute mentale poggia sulla interazione tra le due forze fondamentali della vita psichica, ossia gli impulsi d’amore e di odio, interazione nella quale deve essere la capacità di amare ad essere predominante (Klein, 1960).

Bibliografia

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Dazzi N., Lingiardi V., Gazzillo F. (a cura di), (2009). La diagnosi in psicologia clinica. Personalità e psicopatologia. Milano: Raffaello Cortina.

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Freud S. (1892-97). Minute teoriche per Wilhelm Fliess. O.S.F., 2. Torino: Boringhieri.

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Freud S (1923) Nevrosi e Psicosi , OSF : 9 Torino, Bollati Boringhieri, 2000

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Gabbard G.O. (2014). Psichiatria psicodinamica. Milano: Raffaello Cortina, 2015.

Guerriera C. (a cura di) (2013). Il senso e la misura. Processi valutativi nella presa in carico e nella cura psichica in una prospettiva psicoanalitica. Milano: FrancoAngeli.

Klein M. (1960). “Sulla salute mentale”. Trad. it., Richard e Piggle, 2, 1, 1994.

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Ponsi M. (2009). “Come usa la diagnosi lo psicologo psicodinamico”. In Dazzi N., Lingiardi V., Gazzillo F. (a cura di), (2009), Citato.

Quagliata E. (a cura di) (1994). Un buon incontro. La valutazione secondo il modello Tavistock. Roma: Astrolabio.

Rossi Monti M. (2008). “Diagnosi: una brutta parola?” Rivista di Psicoanalisi, 2008-3.

Sarno L., Caretti V. (1999). “Introduzione all’edizione italiana”. In  Mcwilliams N. (1994), citato.

Westen D., Gabbard G.O., Blagov P. (2006). “Ritorno al futuro. La struttura di personalità come contesto per la psicopatologia”. Trad. It. in Dazzi N., Lingiardi V., Gazzillo F. (a cura di), (2009). Citato.

Winnicott D.W. (1959). “Classificazione: esiste un contributo psicoanalitico alla classificazione psichiatrica?” In Sviluppo affettivo e ambiente, Roma: Armando, 1970.

Wittemberg, I. (1982). “Assessment for psychotherapy”. Journal of Child Psychotherapy, 8, 131-144.

Wittenberg I. (1987). “Valutazione in ambito psicoanalitico”. Rivista Prospettive psicoanalitiche nel lavoro istituzionale, 1: 23-41.

Strumenti in ambito psicodinamico

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Westen D., Shedler J., Lingiardi V. (2003). La valutazione della personalità con la SWAP-200. Milano: Raffaello Cortina.

Dipendenza da internet IAD

A cura di Andrea Marzi e Guido Saltamerenda

L’uso massivo di internet, questa connessione facilmente fruibile attraverso mezzi e dispositivi prima fissi (pc) ed oggi anche mobili (cellulari, palmari, smartphone, tablet) quindi trasportabili con poco o nessun ingombro, è un’icona dei nostri tempi, segno culturale che consente sviluppi in varie direzioni.
Il mondo di internet fornisce un forte contributo attraverso email, social network, chat, blog, skype, alla possibilità di contatti immediati e continui a basso costo, messaggeria spicciola con scambi continuativi (whatsApp).
Gli utenti che usano internet, quotidianamente, sono in Europa quasi il 70%, 30mil in Italia.
Fin dagli anni ’90 e prima del 2008 cercavano prevalentemente informazioni ed usavano email, negli ultimi anni è gradualmente aumentato l’uso delle chat, degli sms, la frequentazione di social network e giochi, siti porno.
Vi è un abbassamento dell’età: lo usa il 52% dei ragazzi (11-15aa), il 60% dei 12enni ha il cellulare, il 50% degli adolescenti europei ha lo smartphone e la metà di loro lo usa online.
La diffusione di questo mezzo può essere visto come affermazione di libertà(vedi anche recente libertà di espressione contro i regimi), possibilità illimitata di accesso ad infinite informazioni, esaltazione delle capacità conoscitive della mente, istinto epistemofilico, ma altresì può divenire una schiavitù, rinchiudere in un meccanismo di controllo e manipolazione, una pseudo realtà.
Goldberg (1995) è stato il primo studioso ad inquadrare la presenza del disturbo di dipendenza da internet e a descriverne i criteri diagnostici (IAD: Internet Addiction Disorder) .
La psicologa Kimberly S. Young (1996) parla di Pathological Internet Use (PIU) e descrive un’ossessione maladattiva all’uso di internet accompagnata da stress e difficoltà a scuola, lavoro, vita relazionale, con alterazioni del comportamento, disturbi dell’umore, fastidi fisici.
Concettualmente è un disordine impulsivo compulsivo che coinvolge l’uso del pc e suoi derivati mobili, soprattutto in modalità on line ma anche off line.
Le classificazioni sono molte, si intersecano, si mischiano: alcuni autori preferiscono usare il termine Internet related psycopathology (Cantelmi-Talli 2007) legato ad un eccessivo uso di internet con un disordine impulsivo compulsivo in giochi, sesso virtuale, email.
Kimberly S. Young rileva tre caratteristiche del disturbo: la tolleranza, come necessità di un forte aumento del tempo passato al pc o derivati mobili; l’astinenza cui un soggetto va incontro quando prova a non usare internet, vivendo così un’esperienza negativa con effetti sul comportamento; infine il craving(irresistibile desiderio di usare la rete web).

Cantelmi-Talli descrivono vari tipi di dipendenza:

-cyber sexual addiction (visitazione siti porno, pratica sesso virtuale)
-cyber relationship addiction: intrattenimento per larga parte del giorno attraverso email, social network, chat lines
-net compulsion: giochi d’azzardo (gambling) online, giochi di ruolo, shopping, trading
-information overload (di cui parla anche Kimberly S. Young): infosurfing
-computer addiction: giochi, gaming, solitari, play station

Gli studi statistici sull’incidenza della dipendenza web rilevano importanti percentuali:
Usa 0,7%, Cina-Grecia 2-11%, Italia 5,6% di studenti, Corea 3 mil. addicted (12% nel 2005, 7 % nel 2012), in Giappone un milione di adolescenti in isolamento sempre più restrittivo (Hikikomori). Internet, il cyberspace, come spazio in parte virtuale, forma di comunicazione mediata da un mezzo, dove l’impatto emozionale subisce una dilatazione e filtro attraverso il viaggio nello spazio e tempo tecnico, divenendo pertanto indiretto, non immediatamente psicocorporeo, ci porta a muoverci su un crinale aperto su due visioni: può così divenire un ambiente favorevole al manifestarsi di aspetti di sé (anche sofferenti), facilitando passaggi ed elaborazioni tra mondo interno ed esterno, liberando parti inespresse, possibile aiuto alla con-figurazione, attraverso immagini virtuali, di esperienze vissute ma non ancora simbolizzate ed emersione di tracce mnesiche inconsce. Può facilitare la capacità di simbolizzare, così come la fantasia creativa: una sorta di cyberspace transizionale tra immaginazione e realtà, una cornice che può attutire il dolore mentale, dove gioco e modalità neosimboliche, consentite e consensuali, rispondono al bisogno di trovare e accogliere nuove dimensioni e ruoli nel registro identitario (adolescenti), emancipando la costruzione della libera soggettività. Può inoltre svolgere una funzione importante nell’esperienza umana della lontananza: qualcosa in absenzia può essere meditato, ipotizzato, adombrato, figurato attraverso il cyberspace, che diviene espressione d’arte con i suoi talentuosi strumenti, quindi trovare traducibilità in immagine suono e parola non necessariamente separati. Si può compiere l’allestimento di una profondità di campo, di un framezzo in cui uno spazio sottratto alla presa diretta si dispone alla nostra immaginazione, meditazione temporo spaziale, simbolizzazione.
Ma al contempo può rischiare di spingere ad una dissociazione dalla propria vita ed immaginazione in un rifugio autistico e un’arena incapsulata, nell’evanescenza di sogni ad occhi aperti (revasserie), o divenire catalizzatore dell’espressione di patologie preesistenti, favorendo la dissoluzione dell’io attraverso la dipendenza estrema, esacerbando instabilità nelle relazioni oggettuali, rinforzando rigidità e difendendo posizioni immobili. Può illudere sull’esistenza di un presente immediato, con simulazione di un oggetto sempre disponibile (magicamente) in un tentativo illusorio di azzeramento della frustrazione dovuta alla mancanza. Tali fattori possono assumere anche carattere di dipendenza più o meno già presente, quindi rinforzarla o evocarla, agevolare un parziale distacco ed allontanamento dall’ambiente reale (relazionale e non) con un viraggio a favore di un ritiro nel virtuale.
E ci si interroga sull’effetto tampone di tale modalità, che allontana dalla possibilità di stare veramente soli, così come da quella di essere veramente insieme.
Allora il contatto ambientale è fortemente impoverito dal risucchio e dalle gravitazioni web.
Un’intrusione massiccia nel quotidiano, quasi un’estasi mediatica.
Merlini (2012) parla di Schizotopia: spazio definito dall’assenza di soglie, dove vi è un crescente bisogno di simultaneità, indifferenza dei contesti con indebolimento dello spazio privato a favore del pubblico, una contestualità estesa, trasversale, sovrapposta, con tendenza alla presenza assoluta: non importa dove sono ma che io sia sempre presente.
Vi è una corrosione della dimensione privata del sé, un’inflazione del pubblico sul privato.
Al qui e ora è contrapposto l’essere anche altrove, quindi qui e ovunque, sradicatezza nella logica dei flussi. Al tempo stesso spazio che confonde (fondere insieme) e spazio che espone (porre fuori).
C’è una riduzione della prescrittività del contesto: Essere ovunque è non essere da alcuna parte (Seneca).

Quindi riassumendo nella dipendenza entrano in gioco diversi fattori, tra cui:

– Distacco dall’ambiente reale e ritiro nel virtuale
(essere con l’altro attraverso un filtro-barriera tecnologica, quindi paravento virtuale)
– antidoto alla solitudine (cordone ombelicale): la realtà virtuale può incarnare l’aspetto attuale di una potenzialità ben più antica, la lunga storia di simulazioni iconiche e linguistiche a partire dalle grotte preistoriche con disegni e dipinti per colmare l’assenza
– controllo dell’altro: vi è prossimità funzionale, il mondo a portata di mano e gli individui a portata del mondo. E l’utente web può divenire risorsa pronta all’uso in entrambe le direzioni, può passare da una risorsa all’altra dopo averne approfittato. Ciò viene definito ontologia economica: si diviene oggetti strumentali, capitale umano, in un clima di appropriabilità istantanea.
– possesso magico di un bagaglio illimitato informazioni a pronto uso e consumo (onnipotenza web)
– facilitazione e slatentizzazione di modalità ossessive, meticolosità compulsiva, manierismi.

La terapia della dipendenza internet si avvalora di una visione etiopatogenetica multifattoriale, che considera cause mediche, psichiche, sociali (socio-antropologiche, macrogruppi virtuali).
Dal punto di vista medico organicistico le neuroscienze indagano sia sul funzionamento di differenti aree cerebrali (io emotivo sottocorticale, io raziocinante corteccia prefrontale) sia sul ruolo dei neurotrasmettitori, due fattori che sembrano entrambi coinvolti nella dipendenza da internet:
-lobo frontale: nella ricerca dello stimolo, abuso e dipendenza, craving, vincita, vi è aumento della funzionalità della corteccia cingolata anteriore e orbito frontale, prefrontale. Al contrario l’attivazione diminuisce in perdita e mediazione emotiva
-aria tegmentale ventrale-nucleo accubens: sono coinvolte nella ricompensa-rewarding system, quando ciò che è buono si ripete
-circuito ricompensa: entrano in gioco anche l’amigdala che immette dopamina, mentre l’ippocampo memorizza l’esperienza piacevole
– influenza dei neurotrasmettitori, tra cui la dopamina (la sua disponibilità diminuisce nei dipendenti), noradrenalina, serotonina (minor disponibilità negli adolescenti), melatonina.

La psicoterapia delle forme più gravi di dipendenza web tende ad essere combinata, attraverso vari interventi:
-gruppo terapeutico come equipe curante, con continua cooperazione tra le diverse figure professionali (psicoterapeuti, medici psichiatri e psicologi d’appoggio per le urgenze, preferibilmente tutti psicoanalisti)
-psicoterapia individuale
-programma tutoraggio
-gruppo polifamiliare (per familiari dei pazienti)

Attualmente gli analisti sono sempre maggiormente impegnati direttamente con un’utenza giovane e web dipendente.

Chi si sta occupando dei casi più gravi in questa dipendenza del comportamento (senza sostanza) pensa che possa assumere il ruolo di una gratificazione senza oggetto, un’attività autoerotica soprattutto presente nella net compulsion (giochi d’azzardo o gambling online, giochi di ruolo, shopping, trading) per certi versi accostabile a quella presente nell’alcolismo (Freud, l’alcool come attività autoerotica): il bisogno di gratificazione deve essere immediato, ricercato nonostante il danno arrecato a se stessi e agli altri; già noto e studiato il ruolo della distruttività auto ed etero diretta nei giocatori patologici ed alcolisti, parenti nella dipendenza.
Il dipendente, divorato e divorante, spesso mostra una regressione orale dove internet diviene droga ed oggetto masturbatorio.
De Paula Ramos ed altri autori (2004) elencano diversi disturbi spesso presenti nel IAD: narcisismo, gratificazione senza oggetto, fantasie di creazione e di controllo onnipotenti, invidia primaria espressa con impulsi distruttivi sadici orali ed anali, relazione simbiotica che perpetua il funzionamento narcisistico con possibili regressioni a comunicazioni primitive.
Sembrano più esposte personalità borderline con scarsa capacità di self caring o narcisistiche con aspetti onnipotenti.
L’uso continuo di internet attraverso email, messaggeria, chat e social network (cyber relationship addiction) sembra una difesa coatta per eludere il vuoto delle separazione, non elaborato ma colmato da oggetti/feticcio intercambiabili, sostituibili, un passaggio da cosa a cosa, connessi ma lontani in spazio virtuale non fisico.
Cosi come spesso è presente una difesa fobica dal vero contatto personale con superficializzazione delle relazioni, eccesso di reale senza profondità con indebolimento dell’analisi induttiva, decremento del pensiero critico, immaginazione, riflessione.
L’affollamento sensoriale presente nel web può facilitare la caduta dell’elaborazione profonda, della trasformazione e simbolizzazione. Il simbolo rischia di perdere la sua funzione e di venire percepito come oggetto reale (equazione simbolica, pensiero concreto in un mondo sterile e persecutorio), immagine non più simbolo ma icona e segnale.
I macro gruppi virtuali web espongono ad un rischio di immersione in un clima di indistinzione confusiva (confusione persona/macchina), identificazioni a massa ed adesive con sfaldamento dei ruoli interpersonali, una voragine asimbolica nella dipendenza distruttiva.
Quindi una pseudo realtà nel virtuale, fagocitati in un mondo alieno con identificazioni proiettive di stampo evacuativo, ritiro disumanizzante.

Bibliografia

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giugno 2014

Discussioni Controverse
Melanie Klein e Anna Freud

Melanie Klein e Anna Freud

Discussioni Controverse

A cura di Sandra Maestro

Le “discussioni controverse” è il termine dato ad una serie di conferenze (sei) organizzate dalla Società Britannica tra il Gennaio 1943 e il Febbraio del 1944  per discutere le divergenze teoriche e scientifiche, createsi tra i due gruppi della società stessa, capeggiati rispettivamente da Melanie Klein e Anna Freud.

Discussioni Controverse. A cura di S. Maestro

Contesto Storico

Tra il 1934 e il 1938 un nutrito gruppo di analisti viennesi si trasferì a Londra per sfuggire alla persecuzione nazista. Freud con la sua famiglia fu tra gli ultimi a lasciare Vienna. All’epoca la Società Psicoanalitica Britannica contava non più di una 40 di membri ed era influenzata dalle teorie di Melanie Klein, trasferitasi a Londra nel 1926. Le sue idee consistevano fondamentalmente in una estensione delle teorie della psicoanalisi ai bambini ed erano guidate prevalentemente dall’osservazione clinica dei piccoli pazienti;  il suo modo di procedere era passionale e impetuoso, a discapito a volte della chiarezza e sistematizzazione del suo corpo teorico per la cui comprensione i suoi stessi seguaci sentivano la necessità di momenti di discussione e chiarificazione delle sue posizioni. Malgrado ciò,  le sue teorie avevano informato in modo molto significativo la formazione teorica e tecnica dei candidati fino all’arrivo dei “viennesi” nel 1938.

Con lo scoppio della guerra, tra il 39 e il 42 gli analisti inglesi o naturalizzati inglesi si erano rifugiati in varie zone dell’Inghilterra e della Scozia per sfuggire ai bombardamenti della capitale; altri analisti erano entrati nell’esercito ( J.Bowlby, E. Balint, W.R.Bion) e quindi non partecipavano se non sporadicamente alle riunioni della società. In quel periodo i legami tra gli altri analisti e in particolare tra la Klein e i suoi sostenitori venivano mantenuti soprattutto a livello epistolare. Nel frattempo  Edward Glover portava avanti la vita societaria a Londra, con pochi incontri a  cui partecipava il  gruppo sparuto degli analisti di recente immigrazione a cui non era consentito allontanarsi dalla capitale. Tra questi c’era Anna Freud. Anna Freud aveva raccolto attorno a sé un gruppo di analisti con cui organizzava degli incontri a cadenza quindicinale a casa propria per discutere le sue idee sulla possibilità di applicare la psicoanalisi ai bambini .

Discussioni Controverse. A cura di S. Maestro 1

All’impoverimento numerico dei partecipanti attivi alla vita istituzionale si sommava l’ulteriore problema della concentrazione di più cariche all’interno di una stessa persona. Glover , ad esempio, era Direttore della Clinica Psichiatrica dove lavorava, segretario scientifico della Società Britannica, segretario della Associazione Psicoanalitica Internazionale e presidente del Comitato di training.Quindi i problemi della vita societaria si intrecciavano con le vicissitudini dei singoli analisti, costretti a migrare e alle ristrettezze economiche.  In sintesi nel backgrown delle discussioni controverse va considerato il contesto della guerra e il trauma conseguente allo stravolgimento della vita dei singoli individui, tra cui la separazione dagli affetti, l’arruolamento nell’esercito degli uomini, e la povertà economica dovuta alla mancanza di pazienti e di candidati disponibili per il training.

In questo clima, la portata rivoluzionaria, e per alcuni sovversiva, delle teorie  di  Melanie Klein ebbero un forte impatto sul gruppo dei freudiani che si era ricostituito a Londra e che si considerava il portatore della tradizione. A questo punto, però, nella Società Britannica si erano creati tre gruppi. Il gruppo dei Kleininai che comprendeva oltre a Melanie Klein Joan Rivier, John Rickman, , Susan Isaacs, Money-Kyrke e inizialmente anche D.W.Winnicott; il gruppo dei Viennesi  con Anna Freud, Barbara Law, Marjorie Birerly, Dorothy Burlingam, Ella Sharpe appoggiato da Glover ;infine  un gruppo intermedio di cui facevano parte Bowlby, Balint , la Pyne ed altri.

Nel 1942, a seguito dell’accesa conflittualità, fu deciso di organizzare una serie di  “riunioni straordinarie” per affrontare le divisioni all’interno della Società Britannica. Durante l’ultimo di questi incontri, nel Giugno 1942, fu deliberato di proseguire con una serie di conferenze per discutere le divergenze teoriche e scientifiche tra i due gruppi, divergenza che avvrebbero avuto ricadute sulla formazione degli allievi, sulla vita societaria e sullo sviluppo della psicoanalisi.       Lo scopo delle discussioni era di presentare alcuni concetti estratti dalle teorie della Klein e argomentarne la validità e la congruenza con la tradizione psicoanalitica. Secondo Glover infatti l’onere della prova spettava ai seguaci della Klein, ogni nuova ipotesi doveva dimostrare la congruenza e la contiguità con i concetti della tradizione. Gli analisti coinvolti nelle presentazioni furono Susan Isaacs, W Ronald Fairburn, Paul Heinmann , Melanie Klein stessa mentre tutti gli altri partecipavano alla discussione.

Contenuti delle discussioni controverse

Nella prima conferenza, Susan Isaacs chiarisce la distinzione tra la phantasy, prodotto dell’inconscio, ed il fantasticare ad occhi aperti (l’immaginazione). La phantsy come prodotto diretto dell’inconscio era un corollario della psiche e in quanto rappresentante psichico della pulsione, è innata e coincide con l’appagamento allucinatorio del desiderio. Isaacs riteneva che, per Freud, le pulsioni nella prima infanzia potessero agire solo attraverso il meccanismo della regressione ma che sarebbe giunto a conclusioni diverse se avesse avuto l’opportunità di osservare clinicamente i bambini piccoli. Isaacs aggiungeva che Anna Freud avesse modificato la teoria Freudiana relativa alla nascita dell’Io. Nel libro scritto insieme a Dorothy Burligham, veniva osservato che sebbene introiezione e proiezione siano meccanismi che necessitano di un Io differenziato, già dal secondo semestre di vita il bebè è in grado di riconosce l’esistenza dell’oggetto e di percepirne la gratificazione legata alla sua presenza o la frustrazione all’assenza. In definitiva il disaccordo riguarderebbe solamente il primo semestre di vita in quanto introiezione e proiezione sono meccanismi strutturanti lo sviluppo dell’Io e quindi presenti fin dalle origini della vita psichica. Conclude con un’osservazione relativa al fatto che la vita nelle prime fasi dell’infanzia è ben lungi dall’essere piacevole, per cui tutti gli urti del “non me” formano la base delle angosce persecutorie e necessitano anche la strutturazione di meccanismi di difesa.

Anna Freud osservò che le teorie della Isaacs spostavano lo sviluppo dell’Io nelle primissime fasi della vita e si chiedeva che implicazioni avrebbe avuto questa anticipazione dal punto di vista della tecnica. La Payne osservò che pur considerando la risoluzione del complesso edipico la fase conclusiva dello sviluppo del bambino, alcune difficoltà di natura psichica potevano insorgere anche in fase pre-edipica, suggerendo implicitamente la necessità di una meta-psicologia degli stati primitivi dello sviluppo

Nella seconda conferenza Glover propose la lettura di un articolo di Fairbairn che arrivava a conclusioni molto simili a quelle di Melanie Klein. Secondo l’autore il concetto di fantasia andava integrato più direttamente con il concetto di realtà interna dell’Io, che è popolata dai suoi oggetti interni. Gli oggetti interni sono entità dotate di una identità propria con cui l’Io intrattiene rapporti analoghi a quelli che ha con gli oggetti della realtà esterna. Quindi il concetto di fantasia inconscia va integrato con l’intensa rete di relazioni che l’Io stabilisce con suoi oggetti interni.

Nella terza conferenza, Anna Freud chiarì la sua posizione riassumendola in tre punti fondamentali. Dissentiva dall’idea di Melanie Klein per la quale il bambino fosse consapevole di una realtà esterna al sé prima dei sei mesi. Nel primo semestre di vita, a sua detta, il bambino è solo preoccupato dal raggiungimento del proprio piacere e benessere, quella condizione che Freud definisce come narcisismo primario. La consapevolezza di un oggetto esterno viene acquisita solo dopo il primo semestre ed è mediata dall’esperienza di gratificazione e manipolazione da parte della madre. Dissentiva dall’idea di una percezione dell’oggetto, anche su base allucinatoria. Ipotizzava una netta prevalenza della pulsione libidica sulla pulsione di morte pulsione che Klein ipotizzava alla base dell’atteggiamento ostile del neonato nei confronti degli stimoli esterni.

Nella quarta conferenza, la Heimann partiva dal presupposto che Freud avesse lasciato in sospeso ciò che accade fra il periodo dell’esperienza al seno e le fasi successive dello sviluppo. Definiva i processi di introiezione da parte dell’ Io come l’equivalente di un incorporare e un divorare, parallelamente la proiezione era l’equivalente dello sputare, rigurgitare, evacuare. Il bebè non può tuttavia disfarsi della pulsione di morte, perché è intrinseca all’organismo, innata ed endogena. La relazione precoce con il seno viene interiorizzata e precede la fase auto-erotica. Precocemente viene interiorizzato un seno-buono e il bebè tenta di espellere il seno cattivo. Da questa scissione nascono le radici del super-io; angoscia e colpa si generano nell’attacco all’oggetto interno. Gli oggetti interni possono essere anche benevoli e incoraggianti, non solo persecutori e terrificanti. Durante la discussione della sua paper le furono fatte alcune obbiezioni sull’uso indiscriminato di divoramento incorporazione/introiezione/identificazione e questo richiese l’organizzazione di altri due incontri.

Nell’ultima discussione controversa che si tenne nel Febbraio 1944, Melanie Klein intervenne per chiarire che il punto non era negare o affermare la pulsione di morte, ma esplorare le origini dell’aggressività rivolta verso l’oggetto.  La Klein poneva l’accento sullo sviluppo delle fantasie pre-edipiche, teorizzando che l’organizzazione della vita psichica del bambino partiva dal rapporto col seno, e della loro analizzabilità attraverso gioco del bambini nella stanza d’analisi. Al contrario, Anna Freud non credeva che si potesse attribuire al rapporto col seno la funzione organizzativa dei primi stati mentali e valorizzava il materiale clinico relativo allo sviluppo psicosessuale come effettivamente analizzabile.

Conclusioni Le discussioni controverse non portarono a nessun accordo dal punto di vista teorico. Fu deciso infatti che Melanie Klein e Anna Freud avrebbero continuato a tenere nell’ambito del training due seminari paralleli sulla psicoanalisi infantile dove ciascuna avrebbe continuato a sviluppare le proprie teorie e le loro implicazioni per la tecnica. La  discussione all’interno della Società proseguì sugli altri punti sollevati e in particolar modo su come le controversie teoriche potevano influenzare la formazione dei candidati e come ristrutturare l’intero comitato didattico e l’iter formativo degli allievi. L’intera vicenda rappresenta una occasione molto ricca di apprendimento sulle radici delle principali teorie e scuole di pensiero che hanno influenzato lo sviluppo della psicoanalisi dei bambini;  rappresenta  inoltre  un esempio dell’accesa conflittualità che si attivò all’interno della comunità psicoanalitica intorno al tema dell’identità e delle appartenenze al gruppo nonché delle resistenze che le nuove idee e teorie hanno incontrato  prima di affermarsi.

Bibliografia

Fairbairn W. Ronald D (1944) Endopsychic structure Considered in terms of object relationships, IJPXXV (pp70-93)

-Freud A (1926)Quattro conferenze sulla psicoanalisi infantile, Opere, Vol I Boringhieri editore,

-Grosskurth P. (1986) Melanie Klein il suo mondo e il suo lavoro, Bollati Boringhieri editore

-Heimann P (1952) Certain Functions of Intojections and projections in Early Infancy, in Melanie Klein et all Developments in Psycho-Analysis, Hogart Press, London

-Isaacs S(1948) The nature and Function of Phantasy, IJP XXIX, pp73-97

-Klein M (1927) Symposium sulla analisi infantile, in Scritti 1921-1958, Bollati Boringhieri Editore

Disforia di Genere
isforia di Genere. A cura di A. Gesuè

SALUSTIANO GARCIA CRUZ

SPIpedia

Disforia di Genere

A cura di A. Gesuè

Nel quinto Manuale Diagnostico e Statistico dell’American Psychiatric Association (DSM 5) si è adottato il termine “Disforia di genere” al posto del precedente “Disturbo dell’identità di genere” a causa dello stigma che il termine “disturbo” comportava. La Disforia è definita dal malessere generato dalla mancata corrispondenza tra il genere percepito ed il corpo biologico con cui si è nati, rispetto quale le persone con Disforia avvertono un senso di estraneità e di rifiuto.

Sotto la denominazione di Disforia di genere vengono comprese:

– le forme caratterizzate da tale tipo di sofferenza che oggi si riscontrano, molto più frequentemente che in passato, anche nei bambini e negli adolescenti;

– le persone transgender, che hanno risposto al disagio provato ottenendo la trasformazione verso il genere cui sentono di appartenere con trattamenti ormonali ed estetici,

– le persone transessuali, che richiedono anche gli interventi chirurgici sui genitali in modo da avvicinarsi il più possibile a quel corpo che sentono più adeguato a rappresentare il genere desiderato.

Mentre i transessuali sembrano voler tornare nell’area del binarismo sessuale, molto più variato è il panorama degli altri.

Nella letteratura anglosassone si usa il termine Queer Identity per sancire l’estraneità ad una identità fissa, a categorie precostituite e dicotomiche tipo eterosessuale/omosessuale, maschile/femminile. Tale termine viene usato dagli anni ‘90 per indicare tutte le soggettività non eterosessuali. Un articolo di K. Steinmetz sulla rivista Time (27 marzo 2017) ha riportato i risultati di una ricerca, compiuta negli Usa per conto dell’LGBT, su un vasto campione di adolescenti. In essa risultava che il 20% dei ragazzi “millenial” usava più di cento modi per definirsi (oltre a gay, lesbica, bisessuale e transgender, anche pansessuale, asessuale, genderqueer, ecc.) rispetto alla propria preferenza sessuale e di genere. 

La Disforia di genere è indipendente dall’orientamento sessuale e non va confusa con esso. Le persone con disforia di genere possono avere qualsiasi orientamento sessuale e sentimentale. Possono essere ad esempio eterosessuali, omosessuali, bisessuali, asessuali.

Perché quest’incertezza? Quali fattori dobbiamo interrogare?

Oggi concepiamo la formazione dell’essere umano come “unità bio-psico-sociale”, concetto che risale ai tempi del Glossario dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per la promozione della salute, 1948, che lo adottò.

  1. Se pensiamo alla parte “bio” dell’unità menzionata, si presuppone possano influire fattori genetici e interazioni ormonali di natura tuttavia non ancora specificata. (La Disforia non si associa ad alterazioni cromosomiche specifiche, come ad es. nella sindrome di Turner, XO).
  2. Se pensiamo all’influenza sociale sulla formazione dell’identità di genere, si può notare che i fondamenti dell’identità stessa sono oggi più fluidi e precari: Z. Bauman parla di identità liquide e R. Kaës di indebolimento, fino alla scomparsa, dei “garanti metapsicologici” nella società attuale [1].
  3. La parte psicologica è l’elemento dell’unità menzionata che ha avuto la storia più complessa, soprattutto in tempi recenti.

Secondo Stoller (1964), uno dei primi studiosi che se ne è occupato, l’identità nucleare di genere si forma nei primi 3-4 anni di vita ed è il prodotto dei seguenti fattori: l’anatomia e la fisiologia dei genitali esterni; l’influenza attitudinale di genitori, fratelli e pari (se costoro rimandano al neonato di essere un maschio o una femmina, ciò giocherà una parte importante nello stabilire e confermare l’identità di genere); la forza biologica. Quest’ultima, sebbene nascosta alla consapevolezza conscia e preconscia, sembra fornire una parte dell’energia pulsionale per sostenere l’identità di genere.

Stoller (1968) fu anche tra i primi a inaugurare il filone delle indagini sulla psicogenesi della transessualità, indicando nelle femmine transessuali un frequente legame invischiante con una madre adesiva, ma fredda, ed un padre troppo poco presente.

C. Chiland (2011), nel suo libro Changer de sexe. Illusion e réalité, ipotizza che entrambi i genitori non abbiano favorito un investimento narcisistico in senso fisiologico sul corpo sessuato biologico delle persone transessuali da lei osservate, perché a loro volta essi erano a disagio con il proprio corpo sessuato; in generale, all’autrice sembra che i genitori avessero uno scarso investimento sulle relazioni sessuali perché la sessualità era sentita come distruttrice.

D. Di Ceglie (1998) ha portato l’attenzione sugli eventi traumatici precoci nella vita dei bambini quale fonte di quella che chiama Atypical Gender Identity Organisation (AGIO), in particolare sui lutti precoci; per esempio, la perdita per malattia di fratelli o sorelle di sesso opposto cui si è legati da amore e ostilità, e verso i quali si è vista l’abnegazione dei genitori prima della fine. Essendo impossibile elaborare il lutto, in tali casi i bambini possono ‘entrare nei panni’ del fratello o della sorella perduti, assumendone l’identità di genere.

A. Saketopoulou (2014) ritiene che una migliore comprensione della Disforia si ottenga considerando il problema di genere non come un sintomo, ma come una vitale realtà soggettiva. Definisce quest’esperienza “massivo trauma di genere” e la pone all’incrocio di due condizioni: il sentimento doloroso che il proprio corpo fisico ed il proprio genere siano sconnessi; l’esperienza di essere malintesi nel proprio genere, cioè male interpretati dai propri oggetti primari come appartenenti al sesso natale, nonostante l’esplicita affermazione di una differente identità di genere. Anche per questa autrice la disforia può manifestarsi già nei primi due o tre anni di vita, e condivide alcune caratteristiche formali con l’esperienza traumatica (dissociazione, angoscia, depressione). Al centro dell’angoscia disforica ci sarebbe dunque, come recita il titolo del lavoro dell’autrice, La perdita del corpo come fondamento. I problemi e le difficoltà che ne scaturiscono, anche relazionali, sono le conseguenze di questa situazione, non l’origine.

In un dibattito dal vivo via Zoom (Blass et al., 2021), Saketopoulou ha proposto che non sia “un fatto biologico” che la dotazione sessuale alla nascita conduca verso una identità di genere, bensì un fatto sociale che siamo inclini a trattare come un fatto biologico. La nozione stessa di dimorfismo sessuale potrebbe essere “una costruzione di fantasia fatta dagli esseri umani, non un fatto ontologico”. Se qualcuno si qualifica come una donna trans, mentre a noi appare solo come un uomo assai femmineo, l’interpretazione che sia un uomo che rifiuta la sua femminilità potrebbe indicare un nostro problema a cogliere quanto la sua percezione di sé violi le nostre credenze normative. A livello di metapsicologia potrebbe sfuggirci quanto l’idea della fluidità sessuale (l’apparenza di uomo femmineo) manchi nel cogliere la varianza di genere di qualcuno (il vissuto della donna trans), verso la quale, a questo punto, ci atteggeremmo più o meno consciamente in modo ideologico. Ciò potrebbe rivelarsi dannoso non solo per le persone con Disforia di genere, ma per la Psicoanalisi stessa.

D. Bell ha controbattuto le opinioni di Saketopoulou. In primo luogo, la Disforia è clinicamente una condizione complessa e con un’alta comorbidità; uno dei possibili esiti (per una sparuta minoranza), è di rientrare in una categoria a sé, per la quale solamente si renderà necessaria la transizione medica. Inoltre, se l’identità di genere è largamente (ma non totalmente) un costrutto sociale, negare al sesso corporeo una realtà materiale, e postulare un’identità di genere innata, non sembra possibile.

Sul concetto di transfobia.

Dobbiamo prendere in esame sia il concetto di transfobia esterna che interna. Come per l’omofobia interna ed esterna, esse sono separabili solo per comodità espositiva, mentre in realtà sono fortemente intricate tra di loro. (Gesuè, 2015).

– La transfobia esterna. La maggior parte delle persone tende a vedere il corpo biologico maschile o femminile con cui è nata come il germe della propria identità, cui dà sicurezza ancorarsi. È una sicurezza che non vogliono venga scossa. Per questo le persone con disforia di genere, nel rifiutare il corpo biologico come fondamento, suscitano un’angoscia che tocca le radici del Sé, ed evocano più o meno intense reazioni di paura e di rifiuto in chi ha un’incertezza su queste problematiche.

– La transfobia interna. È il malessere che deriva dalla perdita del corpo reale come fondamento del genere cui si sente di appartenere, quando non si abbracci subito la fantasia di “essere nel corpo sbagliato”. Ci si sente a cavallo tra un corpo biologico maschile o femminile, scritto nei cromosomi, ed un genere in contraddizione con quel corpo.

Ne deriva che la transfobia interna è tanto più intensa: a) quanto più il soggetto è immerso in un ambiente, ostile al suo problema, che riverbera il malessere interno che già avverte; b) quanto lo scenario interno, che alimenta la disforia di ognuno, è denso di emozioni spinose difficili da padroneggiare; c) quanto meno ciascun soggetto riuscirà ad accettare il limite della trasformazione ottenuta con le cure di tipo ormonale, estetico, chirurgico. La trasformazione può realizzare solo un simulacro del corpo desiderato, anche se si spera il più adeguato possibile al genere cui si sente di appartenere.

La presa in carico di persone con disforia di genere.

Per impostare una corretta presa in carico bisogna prima avere una visione corretta della situazione nelle diverse età della vita.

Nell’infanzia e nell’adolescenza è necessario un lavoro di consultazione approfondito rivolto sia al paziente, sia alla famiglia, spesso seguito da un lavoro psicoterapico. Ciò permette di accompagnare da vicino l’evoluzione di bambini e bambine, ragazzi e ragazze, e delle loro famiglie, con lo scopo (D. Di Ceglie, citato) di sostenere la loro capacità riflessiva nell’esplorare la relazione tra mente e corpo, di tollerare l’incertezza nello sviluppo dell’identità di genere, di mantenere la speranza di trovare una soluzione all’incongruenza nella percezione di genere e corpo, o, quando questo non è possibile, facilitare l’accettazione dei temi relativi all’identità di genere atipica, accompagnare il processo di trasformazione quando questo sia sentito come necessario. Può capitare che soprattutto nell’infanzia i segni della disforia di genere regrediscano e lo sviluppo proceda come per gli altri bambini. Meno frequentemente questo può verificarsi in adolescenza.

Se il disturbo compare in giovani adulti, o adulti, è importante riconoscerlo, approfondirne lo scenario interno e differenziarlo da eventuali patologie psichiatriche, perché la presenza di queste potrebbe rendere problematico il percorso di trasformazione quando venisse posto in atto. Per questo gruppo di pazienti la trasformazione consiste nella somministrazione di ormoni che adeguino il corpo al genere cui si sente di appartenere, in interventi chirurgici di tipo estetico, o di modifica dei genitali, che abbiano la stessa finalità.

Mentre la legge 164 del 1982 prevedeva che la rettificazione anagrafica del sesso sui documenti comportasse l’intervento chirurgico di trasformazione dei genitali, intervento non facile, con possibili complicazioni e non da tutti desiderato, una successiva sentenza della Corte Costituzionale (la 221/2015), con valore di legge, ha stabilito che per la rettifica non è più necessario l’intervento, perché tale procedimento non privilegia la tutela della salute dell’individuo, questa sì fondamentale per la nostra Costituzione.

Bibliografia

Bauman Z., (2001) Modernità liquida, Laterza, Roma.

Blass R., Bell D., Saketopoulou A. (2021) Can we think psychoanalytically about transgenderism? An expanded live Zoom debate with David Bell and Avgi Saketopoulou, moderated by Rachel Blass. Int. J. Psychoanal., 102, 5, 968-1000.

Chiland C., Changer de Sexe. Illusion et Réalité, Odile Jacob, Paris, 2011.

Di Ceglie D., (1998) trad. it. in: Straniero nel mio corpo. Sviluppo atipico dell’identità di genere e salute. Franco Angeli, Milano, 2003

Gesuè A., Un futuro a ciascuno. Omosessualità, creatività e psicoanalisi, Mimesis, Milano, 2015.

Kaës R., Le identificazioni e i garanti metapsicologici del riconoscimento del soggetto. In “Atti del XIV Congresso SPI, Giornate Italiane”, Roma 23-25 maggio 2008.

Sachetoupoulu A., (2014) Mourrning the Body as Bedrock: Developmental Considerations in Treating Transsexual Patients Analytically. Journal of the American Psychoanalytic Association, 62, 773-806.

Stoller R.J., A Contribution to the Study of Gender Identity. Int. J. Psychoanal., 45, 220-226.

Stoller R.J., Sex and gender, Science House, New York, 1968.


[1] I garanti metapsicologici si possono esemplificare con le funzioni che in qualsiasi gruppo sono svolte dalle leggi, dagli ideali comuni, dalle rappresentazioni e dai patti, largamente inconsci, che tessono “i principi organizzatori della psiche individuale e le condizioni intersoggettive sulle quali essa si basa” (Kaes, 2008, p. 167).


       

Dissociazione (trauma)
Renè Magritte, Il doppio segreto - 1927

Renè Magritte, Il doppio segreto - 1927

A cura di Gabriella Giustino

Definizione

Nella sua accezione più ampia il termine dissociazione psichica indica  l’esclusione di alcuni contenuti mentali  dalla coscienza. Gli elementi dissociati non sono integrati nella consapevolezza cosciente, nella memoria e nell’identità. Dissociare, infatti, significa tenere distinte idee, cose o persone che stanno solitamente insieme.

La dissociazione può riguardare i processi di pensiero, le emozioni, la funzionalità senso motoria  e i comportamenti.

E’ ormai assodato che i disturbi dissociativi possono essere concettualizzati come una modalità  disfunzionale di autoprotezione dalla minaccia. Da qui la concezione che la dissociazione sia una condizione correlata a situazioni traumatiche. Secondo la durata (un singolo evento o un’esposizione prolungata) e il periodo di vita (ad esempio quello dello sviluppo) dell’esperienza traumatica possono esserci diversi danni ai meccanismi d’ integrazione dell’esperienza che tutti quanti naturalmente possediamo.

Storicamente il concetto di dissociazione è stato introdotto per la prima volta alla fine dell’ottocento da Janet (désagrégation) che lo ha definito come fallimento nell’integrazione di esperienze (percezioni, memorie, pensieri, ecc.) che sono normalmente associate tra loro nel flusso di coscienza . Egli evidenziò un’eziologia traumatica del disturbo ritenendo, infatti, che i ricordi traumatici non venissero del tutto assimilati, ma che continuassero ad esistere nel soggetto come idee fisse. Secondo l’interpretazione di Janet, a seguito di tali esperienze traumatiche, alcune funzioni mentali divengono autonome rispetto al controllo centrale, a causa del grave indebolimento delle energie nervose che sostengono il coordinamento delle funzioni mentali stesse.

Diagnosi

Le diagnosi psichiatriche di Disturbo da Stress Post-Traumatico (Post-Traumatic Stress Disorder – PTSD) e Disturbo Acuto da Stress (DAS) sono le uniche a tenere in considerazione fra i criteri diagnostici l’aspetto eziologico, il trauma appunto,  ma  non sono sufficienti a dare conto di una serie abbastanza specifica di sintomi che ritroviamo con una certa frequenza in pazienti affetti da disturbi differenti ma accomunati dall’aver vissuto storie di sviluppo costellate da traumi relazionali.

In questo senso gli stati dissociativi della mente possono intendersi come categoria diagnostica  o come gruppo di sintomi ma anche come processi patogenetici legati ad esperienze traumatiche relazionali dell’infanzia che interferiscono con l’integrazione delle funzioni psichiche.

Carlson  et al.  hanno proposto per questi ultimi il termine developmental  trauma (trauma dello sviluppo).

Le esperienze traumatiche infantili spesso  non sono  sottoposte a rimozione  ma dissociate,  incapsulate ed isolate dal flusso di coscienza. Nei trattamenti psicoanalitici abbiamo spesso a che fare con pazienti adulti che hanno subito un trauma nell’infanzia.

In questi casi s’incontrano frequentemente parti della psiche che sono state dissociate dal Sé e che, quando riemergono, producono  stati di coscienza  alterati. I pazienti solitamente riferiscono la perdita del senso di se stessi, sentimenti di alienazione e paralisi. Queste descrizioni indicano l’esistenza di stati mentali dissociati che producono un intollerabile senso di disagio e che sono scatenati da stimoli esterni  o dall’improvvisa apparizione di pensieri  associati con un evento traumatico. La loro improvvisa e violenta intrusione nella coscienza genera nei pazienti un profondo senso d’impotenza e, durante questi stati mentali, talora i pazienti riferiscono che tagliarsi o danneggiarsi fisicamente comporta un senso di sollievo: è come porre fine a un’ intollerabile tensione  ritrovando la capacità di sentire se stessi.

Da questo punto di vista i ricordi dei traumi infantili possono presentare una particolare fissità e il recupero del loro significato emotivo è molto  complesso .

Questi ricordi dissociati possono anche riemergere nei sogni come frammenti  estremamente  vividi, veri e propri flashback,  della storia traumatica infantile (Giustino, 2009).

Il concetto di dissociazione in psicoanalisi

Freud dalle osservazioni delle pazienti isteriche approdò alla teoria della difesa e della rimozione mentre Breuer continuò invece a ipotizzare l’esistenza, oltre alla  presenza della scissione trasversale tra conscio e inconscio,   anche del  meccanismo  della dissociazione verticale tra stati coscienti e inconsci.

Freud sosteneva l’esistenza di un netto divario tra conscio e inconscio e per questo aveva pensato a una barriera  il cui  scopo era quello di salvaguardare la coscienza dai contenuti inconsci, i quali, essendo  simili  al pensiero onirico, esprimevano un funzionamento mentale più primitivo.

Breuer pensava invece che l’esperienza traumatica fosse tenuta in vita non tanto da un suo stazionamento nell’inconscio quanto piuttosto da uno stato di autoipnosi che, obnubilando i poteri percettivi, impediva un pieno rapporto con la realtà e toglieva al soggetto il mezzo più efficace per contrastare le idee responsabili della conversione.

Nella disputa scientifica tra Freud e Breuer, vinse Freud e Breuer si allontanò dalla psicoanalisi.

A causa del prevalere dell’impostazione di  Freud a scapito di quella di Breuer, l’isteria diventò la malattia della rimozione e non della dissociazione.

La difesa e il conseguente corrispettivo concetto di conflitto caratterizzarono, infatti, tutta la concettualizzazione psicopatologica psicoanalitica che nacque dallo studio dell’isteria.

Più tardi la psicoanalisi kleiniana con l’esplorazione delle patologie narcisistiche e dei disordini borderline portò in evidenza il termine di “scissione” strettamente legato al meccanismo dell’identificazione proiettiva e alla scissione orizzontale di parti dell’Io e dell’oggetto  (divise in buone e cattive). E’ importante notare che il meccanismo della scissione non può spiegare adeguatamente gli alterati stati di coscienza e gli stati mentali dissociativi che derivano da esperienze traumatiche.

Il termine dissociazione torna poi con Kernberg che, integrando il modello kleiniano con la  concettualizzazione di Jacobson, parla di stati dell’Io che sono dissociati uno dall’altro e che sono organizzati intorno a polarità affettive  (che si trovano in una posizione conflittuale tra loro); anche  Kohut parla di una scissione verticale, che permette ad  atteggiamenti psicologici incompatibili (un Sè grandioso e un Sè orientato secondo il principio di realtà) che  coesistono fianco a fianco. Tuttavia entrambe queste concettualizzazioni non prendono in considerazione la dissociazione come conseguenza di eventi traumatici.

Trauma, dissociazione e memoria

Per trauma in psicopatologia s’intende di solito un’ esperienza minacciosa estrema, insostenibile e inevitabile, di fronte alla quale l’ individuo è impotente (van der Kolk 1996 ).

In questi casi si attiva un sistema di difesa che provoca la disconnessione tra i diversi livelli funzionali della mente e che, producendo i sintomi dissociativi di distacco, impedisce l’integrazione dell’evento traumatico nella vita psichica a causa della discontinuità  e frammentazione della coscienza e della memoria.

Il tema comune condiviso dai disturbi dissociativi è la perdita parziale o completa della normale integrazione tra i ricordi del passato e la consapevolezza dell’identità personale.

Giacché i ricordi traumatici spesso non sono soggetti a rimozione ma a difese dissociative essi sono come  impressi a fuoco nella nostra mente, isolati ed  inclusi in una particolare fissità : a volte sono impossibili da ricordare ma talora  anche da  dimenticare e sottoporre ad un oblio necessario e ritornano come memorie indelebili ed intrusive.

Ciò accade senz’altro negli eventi traumatici acuti e devastanti (come ad esempio lo scoppio di   una bomba o un incidente) ma è  possibile anche ritenere che il ricorso continuato a processi dissociativi di distacco durante lo sviluppo, per il ripetersi di traumi relazionali precoci, insieme ad altri meccanismi patogenetici, possa ostacolare in maniera permanente le capacità integrative dell’individuo provocando i sintomi da compartimentazione e una dissociazione strutturale della personalità . Vi è dunque una dimensione psicopatologica che presenta manifestazioni dissociative e che è legata alle esperienze traumatiche dello sviluppo. Questa può verificarsi quando il trauma è ripetuto,  cumulativo (per dirla con Masud Khan) e riguarda soprattutto  la presenza di traumi emotivi ripetuti  durante lo sviluppo infantile.

Il processo di recupero della memoria implica un’ interazione complessa fra circostanze della vita presente, fra ciò che ci proponiamo di ricordare, e il materiale che abbiamo ritenuto dal passato. I ricordi sono perciò (ri)costruzioni del passato, che sono codeterminate dal presente. Per contro, come abbiamo accennato in precedenza, i ricordi traumatici non sono soggetti a queste trasformazioni provocate dal presente.

L’angoscia che supera le capacità di contenimento emotivo del soggetto altera in modo significativo  il processo di codificazione, stivaggio, la conseguente consolidazione di un ricordo e il suo recupero. Le funzioni integrative della memoria in questi casi sono state sommerse e compartimentate. I ricordi traumatici vengono incapsulati e isolati dal restante flusso di coscienza. A volte lo stato dissociativo scompone la memoria degli eventi traumatici nelle sue diverse componenti: somatica, sensoriale, cognitiva, emotiva. Le esperienze dissociate sono simultaneamente sia conosciute che non conosciute (il conosciuto non pensato di Bollas).

Un ricordo traumatico dunque è soggetto a poca o a nessuna revisione o trasformazione da parte della situazione presente . Proprio perché le funzioni integrative della mente possono essere compromesse vi  può essere l’affiorare improvviso e involontario di memorie traumatiche e questo fatto  spesso si accompagna alla sensazione di perdita di controllo delle emozioni.

Sogni traumatici e memoria nel sogno

Freud nell’Interpretazione dei sogni (1900), aveva individuato i sogni biografici che sono descrittivi della storia e del vissuto infantile del paziente, non sono frutto del lavoro onirico della censura e non necessitano pertanto di un’interpretazione simbolica che riguarda il contenuto inconscio. I sogni traumatici furono descritti anche da altri Autori (tra cui Garma 1946, De Moncheaux1978) come sogni tipici che saltano la censura onirica ed hanno uno statuto particolare.

I recenti progressi delle neuroscienze sulle memorie traumatiche ci dicono che in alcuni pazienti che hanno subito un trauma violento (come un abuso sessuale o l’essere sopravvissuti a un evento realmente catastrofico), il ricordo del trauma può presentarsi improvvisamente, di solito in uno stadio avanzato del processo analitico, con un sogno o con un ricordo della veglia. Spesso lo stato mentale dissociato irrompe durante l’analisi come un acting non mentalizzato e difficilmente comprensibile (Varvin, 2003).  In questi casi si verifica il riemergere improvviso di situazioni traumatiche violente che la mente ha tenacemente dissociato e apparentemente non registrato.

Yoram Yovell (2000) è un autore cerca di integrare i contributi delle neuroscienze con la psicoanalisi e parla dei rapporti fra trauma e memoria. Egli afferma che il disordine della memoria esplicita conseguente a un trauma violento può determinare sia fenomeni ipermnestici (flashbulb memories) che amnesia rimotiva o dissociativa intensa. Entrambe queste due condizioni possono essere presenti nello stesso paziente traumatizzato; ma ciò che è più importante è che il trauma dissociato tende a riemergere quando, nella relazione terapeutica, si crea un certo clima emotivo. Infatti, la memoria implicita ed emotiva del trauma è conservata in modo indelebile dall’amigdala e può essere stimolata e riemergere quando si verificano eventi che si collegano associativamente con il clima angoscioso del trauma.

Spesso la comprensione di questi improvvisi ricordi o sogni post traumatici si presenta difficile e laboriosa perché il paziente mostra di non avere alcuna consapevolezza inconscia dell’evento. Yovell  afferma anche che le false memorie legate al vissuto traumatico infantile, anche se distorte, hanno sempre un significato per il paziente e vanno comunque considerate come fenomeni comunicativi importanti della storia traumatica dell’individuo.

In un lavoro pubblicato sull’International Journal of Psychoanalysis nel 2009, ho descritto una particolare tipologia di sogni in cui non si esprime il trauma infantile classicamente inteso come memoria rimossa bensì emergono frammenti di memoria traumatica dissociata. I sogni che ho descritto sono fenomenologicamente densi di aspetti concreti e sensoriali (flashback visivi, memorie intrusive) lasciano il paziente attonito e sono espressione di un inconscio emotivo preriflessivo. La componente d’immersione sensoriale nell’esperienza del sogno è prevalente e non permette inizialmente al paziente di fornire alcuna associazione.

Nonostante la chiarezza del contenuto manifesto, il paziente non riesce a riflettere sul sogno, a dargli un senso e a fornire associazioni ad esso. Seguendo il pensiero di Grotstein (2000) in questi casi è possibile individuare il sognatore che fa il sogno (lo esperisce) ma non è presente il sognatore che lo comprende e l’analista deve  funzionare come un contenitore dotato di funzione alfa (Bion, 1962) che accoglie il racconto del sogno e aiuta il paziente a dargli un significato proprio nella misura in cui la memoria del passato non è comprensibile allo stesso paziente.

Bibliografia

Bion WR (1959). Cogitations London, Karnak 1992 pp. 186-190.

Bollas C (1987). The Shadow of the Object: Psychoanalysis of the United Kingdom

London, Free Association Books 1987.

Carlson EA, Yates TM, Sroufe LA (2009). Dissociation and the Development of the Self. In Dell P, ONeil JA (Eds.), Dissociation and Dissociative Disorders: DSM-V and beyond. New York: Routledge.

De Moncheaux C (1978). Dreaming and the organizing function of the Ego. Int J Psychoanal  59: 443-453.

Freud S (1900). The interpretation of dreams SE 5.

Freud S (1914). Remembering, repeating and working through SE 12.

Garma A (1946). The traumatic situation in the genesis of dreams. Int J Psychoan 27: 134-139.

Giustino G (2009) “Memory in dreams”  (Memoria nel sogno) International Journal of Psychoanalysis 90: 5 pp1057-1073 .

Grotstein J S (1978). Who Is the Dreamer Who Dreams the Dream and Who is the Dreamer Who Understand It ? in Do I Dare Disturbe the Universe? London, Karnac, 1983 pp. 358-416.

Yoram Y (2000). From Hysteria to posttraumatic stress disorder.

Psychoanalysis and the Neurobiology of Traumatic Memories. Journal of Neuro-psychoanalysis 2:171-181

Van der Kolk ( 1996 )The complexity of adaptation to trauma: Self-regulation, stimulus discrimination and characterological development. In van der Kolk BA, McFarlane AC, Weisaeth L (Eds.), Traumatic stress: The effects of overwhelming experience on mind, body, and society (pp. pp. 182-213). Guilford Press, New York. Psychiatry, 167(6), 640-647.

Emergenza in adolescenza
Rooze Mirjan

Rooze Mirjan

A cura di Anna Maria Nicolò

Esiste un’emergenza adolescenza? Molti adulti, specie operatori in vari settori (psicologico, socio-sanitario, giuridico, educativo), guardano sgomenti i più di ventimila siti pro-anoressia, le immagini di nudo proprio o del proprio partner o di compagni occasionali che molti adolescenti esibiscono su Facebook. Statistiche incredibili ci dicono che uno su due dei nostri adolescenti ha subito o agito episodi di bullismo a scuola o nei gruppi tra pari. Le prime esperienze sessuali si sono spesso fatte fugaci, occasionali, scisse dalla dimensione affettiva che talora viene raggiunta molto tempo dopo.

L’adolescente privilegia così le sensazioni invece di vivere una relazione con l’altro, con la sua ricchezza e creatività, ma anche con i naturali limiti e la possibile frustrazione che nasce nella relazione con l’altro.

Stiamo anche parlando di un modo peculiare di vivere il corpo, caratterizzato da una sorta di dissociazione affettiva da esso. Fino a qualche anno fa, a dominare la scena delle psicopatologie legate all’integrazione del corpo sessuato erano solo l’anoressia, le dismorfofobie, alcune forme di breakdown; oggi sempre più frequente è l’osservazione di comportamenti auto lesivi che trovano la loro espressione in pratiche comuni come i tatuaggi, i piercing, le cicatrici. Tali pratiche si fanno talora più complesse arrivando al self cutting o alle scarificazioni.

Tuttavia ogni momento storico ha i suoi rituali e le sue pratiche, pertanto i comportamenti di un’adolescente che si segna il corpo con un tatuaggio uguale all’amica, che fa un piercing come i suoi compagni, che esprime con un segno sul corpo un pensiero difficile da simbolizzare, devono essere considerati manifestazioni attuali di un processo evolutivo caratterizzato dal bisogno di appartenenza e dalla difficoltà a simbolizzare il corpo e le sue sensazioni.

La prima domanda da porsi, quindi, è: quando momentanei disturbi della crescita devono essere considerati ‘fisiologici’ e quando indice di un disturbo evolutivo? E’ possibile individuare il rapporto tra tali agiti e il tipo di fallimento del processo di crescita?

Il primo aspetto da sottolineare è la spinta sociale all’individualismo e al protagonismo attraverso il paradosso dell’imitazione e dell’adesione ad un modello condiviso dal gruppo sociale. Riuscire a sentirsi unici e originali, sfida propria dell’età, sembra coincidere in molti adolescenti oggi con il tentativo di costruirsi una sorta di “identità estetica” che sia accettata dal gruppo dei pari. Apparire più che essere – a tutti i costi anche attraverso un’originalità negativa (Erikson) – alimenta la fantasia di emergere dalla massa, che viene sentita di per sé annullante. Non c’è dubbio che il complesso senso della nostra identità ha stretta relazione con lo sguardo di noi su noi stessi e dell’altro su di noi, l’apparenza è una dimensione della nostra identità. A volte tale apparenza conferma l’identità, a volte ne offre un’immagine contrastante e opposta. A volte una personalità fragile sostituisce al senso stabile dell’identità la sua apparenza. Spesso osserviamo quanto gli adolescenti mostrino la ricerca della loro identità attraverso l’angoscioso e incessante mutare della loro apparenza, mostrandosi con i look più differenti e contrastanti. L’adolescente guarda perfino se stesso come se fosse all’esterno di sé, è lo spettatore di se stesso ed esiste nel sentire, nelle sensazioni che prova, sulla superficie della pelle, vista dall’esterno o vissuta sul piano sensoriale. Con questo apparire puoi sentirti nel gruppo e perciò non sei uno “sfigato” e puoi anche entrare in competizione con gli altri. Per non essere sfigato dovrai alla fine essere forte e questo significa per molti adolescenti tenersi lontani dalle emozioni che conferiscono senso di fragilità. «Sono spietato, perciò mi guardano», diceva un adolescente di 14 anni, conferendo alla parola “spietato” un senso di valore e superiorità. E la usava sia lui sia i compagni per dire “ho fatto bene”, “ho risposto bene”. Accanto a tutto ciò, c’è una soluzione inquietante che molti adolescenti usano ed è l’uso delle droghe per calmare l’angoscia, per prodursi sensazioni e come aspetto aggregante. Si sta con i coetanei, ma si è soli con le proprie sensazioni.

Il senso del limite è uno dei compiti dell’adolescenza possibile, in primo luogo proprio grazie alla condivisione del corpo nelle relazioni con l’altro. Assistiamo invece troppo spesso al fallimento di tale processo tra i ragazzi, che invece viene sostituito dalle enormi possibilità correlate allo sviluppo della realtà virtuale che consentono un abnorme mantenimento di un senso di onnipotenza infantile. La vita in internet è una dimensione senza corpo e quindi senza limiti che rappresenta più della metà delle esperienze che i ragazzi vivono quotidianamente. Se da un lato infatti l’adolescente è chiamato a confrontarsi con lo sviluppo sessuale e con la perdita della bisessualità, è turbato dalla prepotente presenza delle sensazioni corporee e dall’impossibilità ad esperirle in modo onnipotente, da un altro il virtuale è governato da leggi differenti, dove i limiti del corpo non esistono e dove sensazioni e confini sono sostituite da pensieri infiniti. Una paziente, qualche anno fa, aveva sviluppato in coincidenza con il menarca una dipendenza da una chat virtuale nella quale aveva assunto l’identità di un amico deceduto, divenendo prima maschio come lui e nel tempo un essere asessuato, che nel mondo dei giochi virtuali viene definito ‘neutro’.

Cosa pensa lo psicoanalista delle nuove adolescenze? Per comprenderle deve certo riandare alla propria adolescenza e sviluppare gli strumenti per navigare in questo mare. Ma quale è la risposta? Come suggeriva Winnicott, è il tempo e attendere nella bonaccia? Ma talora questa attesa è pericolosa e fa perdere occasioni preziose. Oggi con l’adolescente e i suoi genitori abbiamo imparato e stiamo imparando a usare la fantasia, a pensare, a sognare.

Giugno 2015

Enactment
Enactment

Max Ernst - 1923

A cura di Maria Ponsi

Definizione e storia del concetto

Il cambiamento a cui è andato incontro il paradigma concettuale della psicoanalisi contemporanea, con l’enfasi posta sugli aspetti relazionali rispetto a quelli pulsionali ed intra-psichici, ha orientato l’attenzione verso gli aspetti interattivi che percorrono il trattamento analitico – e cioè verso quel flusso continuo di micro-azioni che accompagna lo scambio verbale fra paziente e analista. E’ vero, come diceva Freud, che fra paziente e analista non si scambia nient’altro che parole; ma le parole non esprimono solo dei contenuti, esercitano anche – attraverso la dimensione pragmatica del linguaggio – un’influenza sull’interlocutore. Parlare è un atto relazionale; come tacere del resto. Le parole ‘agiscono’, ovvero implicano delle azioni, anche se non nel senso motorio del termine.

Come, da un lato, viene messa in evidenza la dimensione interattiva presente nell’espressione verbale, così, dall’altro, viene recuperata la dimensione comunicativa presente in ogni comportamento; ciò vale in particolare per quei comportamenti cosiddetti ‘agiti’ nei quali è comunque rintracciabile un’intenzione, ancorché inconscia, di mettersi in relazione con l’altro.

Negli approcci relazionali si è anche sviluppato un modo nuovo di concepire il controtransfert e il ruolo dell’analista: questi non viene più visto come una presenza anonima e asettica, come uno ‘schermo opaco’ su cui si riflettono i movimenti psichici del paziente, ma come un partecipante attivo al processo analitico, nel quale entra con la propria specifica soggettività.

In questa prospettiva teorico-clinica particolarmente attenta alle dinamiche interattive hanno assunto un particolare rilievo quei momenti in cui l’analista si accorge di trovarsi lui stesso ad’agire’, come se il paziente ve lo avesse sottilmente indotto. E’ a questo proposito che si è cominciato a utilizzare il termine di enactment – un termine peraltro da tempo in uso nel vocabolario psicoanalitico, con il quale si designava, in senso lato e generico, l’ ‘attualizzazione’ o la ‘messa in atto’ di una fantasia inconscia.

In una concezione più relazionale, bi-personale e interattiva dell’analisi, il significato di questo termine è diventato più specifico ed è passato a designare un evento analiticamente rilevante, che coinvolge contemporaneamente paziente e analista. L’enactment si può dunque sinteticamente definire così: un episodio relazionale a reciproca induzione che si evidenzia attraverso un comportamento.

Sull’enactment, come del resto su qualsiasi nozione psicoanalitica, non c’è unanimità di definizione fra le varie scuole psicoanalitiche: c’è chi ne accentua l’eccezionalità, la dinamica inconscia e regressiva, e chi la dimensione normalmente interattiva di ogni rapporto umano. Per gli analisti più classici, l’enactment è un evento che segnala una collusione transfert-controtransfert, da imputare essenzialmente a un mancato controllo del controtransfert: è dunque in qualche modo un errore, o una smagliatura nella relazione analitica, anche se poi, una volta elaborato, questo errore può venire superato e convertirsi in un’occasione per approfondire il lavoro analitico. All’estremo opposto ci sono i modelli di psicoanalisi per i quali gli enactments sono evenienze ordinarie che percorrono continuamente la relazione paziente-analista – evenienze non solo inevitabili, ma anche ubiquitarie, dal momento che la dimensione di azione, o di inter-azione, è parte intrinseca del processo analitico. In questa prospettiva gli enactments sarebbero come la punta dell’iceberg, quella più evidente, di questo continuo flusso interattivo.

Al di là di questi problemi concettuali e definitori, la nozione di enactment è senz’altro molto utile nella clinica, soprattutto quando si trattano pazienti con disturbi narcisistici e borderline di personalità, nei quali le carenze della mentalizzazione rendono le loro comunicazioni più ‘agite’ che ‘verbalizzate’.

BIBLIOGRAFIA

Filippini S. & Ponsi M. (1993). “Enactment”. Riv.Psicoanal. 39 (3): 501-518.

Ponsi M. 2006: Voce “Acting (in e out), enactment, agire” per  Psiche. Dizionario storico di psicologia, psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze, a cura di Barale F., Bertani M., Gallese V.,Mistura S., Zamperini A. Einaudi, Torino.

Ponsi, M. (2012). Evoluzione del pensiero psicoanalitico. Acting out, agire, enactment.Riv.Psicoanalisi, LVIII (3): 653-670.

Età evolutiva/Psicoanalisi

A cura di Emanuela Quagliata

Il primo anno di vita

Dall’acqua all’aria

Quale inizio ha avuto la nostra vita? Spesso le madri tendono a dimenticare l’esperienza del parto, tanto più se è stata dolorosa e traumatica e noi apparentemente non conserviamo tracce coscienti di quella epocale transizione. L’esperienza che il neonato affronta durante l’evento della nascita è stata oggetto di crescente interesse solo negli ultimi trent’anni, soprattutto da quando il medico francese Frederick Leboyer ha cominciato a studiare l’evento del parto dal punto di vista del bambino. Le sue ricerche hanno evidenziato l’importanza del momento in cui viene reciso il cordone ombelicale, che fornisce sangue e ossigeno al bambino tenendolo in vita fino a quando non è in grado di farcela da solo.

Il “passaggio dall’acqua all’aria” è un’immagine che rappresenta il sentimento terrificante di perdita e impotenza collegato al cambiamento che il neonato prova quando si sente non “contenuto”, dopo aver perso l’aggancio con la sua fonte di vita. La psicoanalista Esther Bick scrive: “Il bisogno di un oggetto contenente, nello stato di non integrazione in cui si trova inizialmente il bambino, sembra spingerlo alla frenetica ricerca di un oggetto – una luce, una voce, un odore, o un altro oggetto sensibile – capace di attirare l’attenzione e di essere quindi sperimentato, almeno momentaneamente, come qualcosa che tiene insieme le componenti della personalità. L’oggetto ottimale è costituito dal capezzolo in bocca, insieme con la percezione di essere tenuto tra le braccia della madre, della sua voce e del suo odore ormai familiari (1956, p. 91).

La trama che madre e figlio hanno cominciato a tessere nell’utero prosegue subito dopo la nascita: madre e bambino cominciano, o meglio “continuano” a conoscersi nelle prime settimane.Il neonato è dipendente dalla madre non solo per essere nutrito e accudito, ma anche per dare senso al nuovo “mondo” nel quale si trova e affrontarlo; lo psicoanalista Donald Winnicott (1958) definì “preoccupazione materna primaria” l’atteggiamento della madre verso il suo neonato: tenere il bambino nella mente, sintonizzarsi con lui, trasmettergli pazienza e attenzione. Tuttavia, a volte è difficile per un adulto comprendere appieno come può sentirsi un neonato quando si confronta con sensazioni corporee come la fame, il freddo o il caldo, un rumore improvviso, oppure la paura e l’angoscia che sperimenta quando si sveglia e si ritrova solo, separato. Nel neonato il corpo e la mente sono molto vicini e i bisogni fisici hanno un equivalente mentale, ma deve ancora imparare a decifrare e ad affrontare queste sensazioni, perché dentro l’utero viveva in un mondo dove non le ha mai sperimentate.

Più che mai nei primi mesi mamma e bambino sono alla faticosa ricerca di un ritmo: la sintonizzazione sui ritmi del sonno e della veglia, il ritmo del latte che sgorga dal seno, o dal biberon, e quello del succhiare del bambino. Sono questi scambi, che nascono dalle prime esperienze non solo nutritive, a dare origine a processi psichici che permangono nel corso della vita. Il successo dell’adattamento reciproco si costruisce anche attraverso molti fallimenti e momenti di mancata di sintonizzazione. In questa ricerca dell’adattamento il bambino non è assolutamente un recipiente passivo – lo abbiamo visto fin dalla vita intrauterina – ma un partecipante attivo del dialogo e del processo di maturazione. Lo sviluppo, emotivo e mentale, è strettamente legato alle prime esperienze nutritive: la fame, da questa prospettiva, assume allora diversi significati: fame di imparare, di affetto e di comprensione, fame di vita (Quagliata, 2002).

Il primo anno può essere molto difficile, per la madre diventano centrali un senso di fiducia e il sapere che agli errori si può rimediare. Così come al bambino il messaggio che arriva quando si sente compreso è che il dolore, sia fisico che mentale, può cessare – “C’è un aiuto qui vicino, non sono solo…”-, allo stesso modo la madre ha bisogno di sentire supporto e aiuto e poter pensare “Non sono sola”.E questo soprattutto quando non riesce a dormire! Anche l’addormentamento e il sonno, come l’allattamento, sono processi che implicano un ritmo condiviso: non sempre un’interruzione del sonno è un segnale di necessità del bambino e la descrizione dei cicli del sonno può aiutare i genitori a capire quali sono i segnali di passaggio da una fase a un’altra (Daws, 1989). A volte, per esempio, il bimbo va solo “riaccompagnato” in un nuovo sonno.

La comprensione sempre più profonda della madre dell’individualità del suo bambino, lo sbocciare della relazione e la reciproca crescita di amore e affetto creano il processo di attaccamento verso l’oggetto primario, cruciale nel corso dello sviluppo e per la crescita, e segnano il bambino, gettando le basi di tutte le sue relazioni future. Ma come è necessario che madre e figlio formino un legame e che il neonato sperimenti la dipendenza dall’oggetto materno, allo stesso modo è necessario che il bambino si separi dalla madre. Come pre-requisito per gli altri compiti primari dell’infanzia, il bambino ha, infatti, bisogno di trovare un se stesso diverso, distinto dalla madre, di conoscersi finalmente come separato, di esplorare ed apprezzare la sua identità e le sue risorse personali. In questo senso, per esempio, il passaggio al biberon crea una situazione di maggiore autonomia e di diminuzione della dipendenza, emotiva e fisica, e spesso genera un sollievo per la diade o per uno dei due.

Dall’inizio della vita i genitori aiutano il bambino a capire che ogni cosa ha un inizio, una transizione e una fine. La presenza continua del genitore e il sostituirsi a lui evitandogli frustrazioni non gli renderà la vita più facile ma al contrario gli impediranno di sviluppare le sue risorse e illudendolo di avere il controllo e il dominio dell’altro. Il ritmo dell’andare e venire del seno, dell’andare e venire della mamma, allenano le capacità del bambino di affrontare i transiti successivi: il passaggio alle scuole elementari come la fine di una vacanza come l’ora di smettere di giocare per andare a dormire. Lo aiutano a capire che anche le cose belle finiscono per poi, a volte, ritornare. Al tempo stesso la madre sa di avere un bambino mobile e indipendente, affamato di libertà. Non è più un neonato, non lo sarà mai più. La separazione richiede uno sforzo continuo. L’iniziale svezzamento dal seno o dal biberon è seguito da altre separazioni pianificate dalla madre, che prepara il bambino ad affrontarle. Donald Winnicott (1956) ha sottolineato l’importanza di “presentare il mondo al bambino in piccole dosi”, altrimenti l’esperienza della separazione diventa terrificante. Suggeriva così che le separazioni devono essere graduali, in modo che il bambino possa avere un ruolo nel processo e non sentirlo solo come un’imposizione.

La capacità di affrontare la realtà dipende dalla capacità di internalizzare una base. “Lo sviluppo di una base, a partire dall’incontro con il seno, verso la madre come persona intera e poi verso la coppia di genitori, fino all’idea di una casa, di un paese a cui appartenere e così via” (Money-Kyrle 1968, p.612). Nella misura in cui la relazione interna e esterna con queste è preservata, noi non siamo disorientati. Così la psicoanalisi, nelle sue varie forme, può aiutare ad andare oltre, a costruire un nuovo inizio. L’interesse è centrato sull’osservazione dell’esperienza emotiva, sulla comprensione della verità di ciò che sentiamo e sulla possibilità di digestione delle esperienze emotive – la capacità di modulare la rabbia e l’aggressività, di tollerare le frustrazioni e le delusioni, di ritrovare la fiducia e le risorse. Questo fornisce il nutrimento che tiene in vita l’apparato mentale e gli permettere di apprendere dall’esperienza.

A piccoli passi, il bambino verifica la sua indipendenza e la sua individualità, sempre in riferimento alla presenza o all’assenza della madre. Si fida degli altri membri della famiglia o altri caregivers, ai quali si rivolge come fossero un’estensione delle cure materne. In compagnia di un gruppo più largo di adulti e bambini, cercherà per esempio di allontanarsi da sua madre aumentando gradualmente la distanza, per poi ritornare da lei per essere rassicurato e trovare conforto. La sua curiosità ha spazio per svilupparsi, e il bambino adesso ha la calma emotiva necessaria per aprirsi al mondo intorno a lui. L’amore per la conoscenza è presente dalla nascita e attraverso gli stimoli di coloro che si prendono cura di lui, il piccolo emerge gradualmente nel mondo fatto di suoni, sensazioni, visioni, responsività e sensibilità, mettendosi a cercare, a cercare di capire il mondo intorno a lui….

Bibliografia

Bick E., 1968 “The experience of the Skin in Early Object Relation” Int Jour Psychoanalysis vol 49 “L’esperienza della pelle nelle prime relazioni oggettuali”, in L’Osservazione Diretta del Bambino, Boringhieri 1984.
Bion W. 1962 Apprendere dall’Esperienza Armando, Roma
Daws, 1989 Through the night Free Association Books, London. Nel Corso della Notte, Liguori, Napoli 1992
Ferrara Mori G., 2008, Un tempo per la maternità interiore, Borla, Roma
Freud S., 1925 Inibizione Sintomo e Angoscia vol.10 Boringhieri.
Leboyer F Per una nascita senza violenza, Bompiani, Milano 1975
Money-Kyrle 1968 Cognitive Development Int Journ Psychoanalysis vol 49. Scritti 1927-1977 Introduzione e cura di Mauro Mancia. Loescher Editore, Torino, !985.
Piontelli 1992 From Fetus to Child The New Library of Psychoanalysis
Quagliata E., 2002 Un Bisogno Vitale, Astrolabio
Winnicott D., 1956 “Primary Maternal Preoccupation” in Collected Papers Through Pediatrics to Psychoanalysis, Tavistock Londra. Dalla Pediatria alla Psicoanalisi Martinelli, Firenze 1975.

APPROFONDIMENTI

Come s’impara a parlare

A cura di Francesca Piperno

Molto spesso genitori insegnanti, educatori chiedono allo specialista “quando deve cominciare a parlare un bambino?”, in generale si pensa che il bambino inizi a parlare intorno ai diciotto mesi quando produce le prime parole.

Ma per parlare di sviluppo del linguaggio è necessario inserirlo all’interno di una capacità più articolata: la capacità comunicativa. Per acquisire la capacità di comunicare, il bambino deve da un lato maturare la coscienza di esistere come individuo separato psicologicamente e fisicamente dalla madre, dall’altro deve sostituire agli atti e azioni motorie segni convenzionali come il gesto prima e poi la parola.

Freud ( 1911; 1915; 1922) ha attribuito al linguaggio un peso particolare:

– la parola permette di prendere coscienza, di elaborare e rappresentare i contenuti dell’inconscio

– la parola si interpone come oggetto mentale tra pulsioni ed azioni nel rapporto con gli altri, e diviene sostituto dell’azione diretta.

Spitz (1967) ha riconosciuto in un’ottica evolutiva tre funzioni che il linguaggio svolge nel sostenere lo sviluppo psichico:

1) la parola consente di evocare l’oggetto assente

2) la parola permette di entrare in rapporto con gli altri

3) la parola permette di affermare, negare, trasformare la presenza degli oggetti interni ed esterni.

Per affrontare la descrizione di come s’impara a parlare è necessario premettere due concetti: il bambino è precocemente in grado di comunicare prima di imparare a parlare; il bambino è in grado di capire il linguaggio prima di imparare a parlare.

Se tracciamo un ideale percorso evolutivo, il bambino per costituirsi come essere pensante che dice agli altri ciò che pensa, deve maturare complessi meccanismi che poggiano:

– sulle prime esperienze corporee, in cui la pelle costituisce il filtro per gli scambi tra mondo interno e mondo esterno

– sulle esperienze di distacco dalla madre

– sul costituirsi dell’immagine mentale dell’assenza.

Il bambino cresce inserito in un contesto di cure, definite “la preoccupazione materna primaria” e inserito anche in un ambiente di suoni: il linguaggio materno.

Il bambino sviluppa un’attività intenzionale comunicativa propria quando sa differenziare pensieri ed emozioni propri da quelli della madre. Le prime parole nascono nella bocca della madre che si interroga su quale bisogno del bambino debba essere soddisfatto, da questo primo e basilare interrogativo si avvia il processo comunicativo. “hai fame..? hai sonno…? hai mal di pancia..?”.
Da parte del bambino la comunicazione verbale nasce con il primo grido della nascita. Il bambino cresce immerso nella voce della madre, suoni le cui qualità accompagnano e cullano, tramite l’udito, il bambino. Il linguaggio nasce nella complessa dinamica, attivata dalla madre, tra assenza e presenza e viceversa. Presenza: del viso, del corpo, del seno, della voce, madre che parla e rispecchia i suoni, i rumori, il pianto del bambino. Assenza: del viso, del corpo, della voce, della madre. Questa assenza, matrice di ogni desiderio, viene sostituita dalla parola. Nel silenzio, nello spazio vuoto lasciato dalla madre, può comparire il pensiero simbolico: con il pensiero nasce il linguaggio.

Nel corso della crescita le esperienze sensoriali, percettive, somatiche che il bambino ha del proprio corpo in rapporto alle cure materne, divengono immagini interne, rappresentazioni di se stesso e della realtà esterna (Bollas, 1987; Winnicot, 1965; Vallino, Macciò, 2004).

Intorno ai due anni la comparsa della comunicazione verbale, ovvero del linguaggio ha un effetto strutturante sulla mente e favorisce l’organizzazione di un più complesso livello psichico che a sua volta stimola la potenzialità trasformativa del linguaggio. Parallelamente, il processo di simbolizzazione si stabilizza nella continua dialettica tra Io-Altro e nel confronto con le personali significazioni affettive e cognitive.

La realtà, gli oggetti, le emozioni, le sensazioni non sono solo vissuti ma rappresentati con segni o meglio mediante significanti, ovvero la parola. Mentre il bambino impara a parlare costituisce la sua soggettività, poiché, come descritto, parlare significa distinguere sé e la madre, differenziare tra intenzioni proprie ed intenzioni dell’altro ed in questo scambio di contenuti mentali si snodano i processi di identificazione. Il linguaggio è sempre un dialogo in cui le parole sono oggetti mentali scambiati tra due persone.

Le tappe seguenti portano il bambino a perfezionare il linguaggio, si amplia il vocabolario e le parole vengono collegate tra loro secondo le regole della grammatica e della sintassi, producendo inizialmente frasi composte da un soggetto ed un verbo o da un soggetto ed un aggettivo. In seguito, le frasi si collegano tra loro.

Per concludere questa sintetica descrizione sulla nascita del linguaggio, vorrei ricordare che negli ultimi anni nel campo dello studio della psicologia del bambino accanto ai paradigmi teorici della psicoanalisi infantile si sono sviluppati interessanti filoni di ricerca per studiare lo sviluppo relazionale ed emotivo, studi che sottolineano l’importanza della matrice relazionale come base per lo sviluppo dei primi nuclei di personalità del bambino.

Gli studi delle teorie interattive convergono nel dimostrare che, nei primi anni di vita l’interazione tra madre e bambino svolge un ruolo centrale (Schaffer, 1977, Stern, 1985; Sameroff e Emde, 1989). Secondo Stern la necessità di manifestare i propri bisogni motiva il bambino ad agire. L’attenzione della madre nel dare significato e senso alle richieste dl bambino avvia una particolare condivisione definita: sintonizzazione affettiva. Ma il rapporto tra madre e bambino non è descritto soltanto alla luce del processo di sincronizzazione reciproca ma anche come un complesso processo comunicativo dove si alternano sintonizzazione, rottura e riparazione (Beebe, Lachmann, 2002). Concetti ponte utilizzabili in differenti modelli teorici per ampliare la conoscenza dello sviluppo emozionale, comunicativo e linguistico del bambino.

Bibliografia

Schaffer H.R. (a cura di) (1977) L’interazione madre-bambino: oltre la teoria dell’attaccamento, Franco Angeli, Milano, 1984.

Maggio 2014

Fachinelli Elvio
Fachinelli Elvio

Fachinelli Elvio

Scheda a cura di Anna Ferruta

ELVIO FACHINELLI 

Luserna (Trento), 29 Dicembre 1928 – Milano, 21 Dicembre 1989

La vita e il pensiero di Fachinelli sono tesi a liberare il desiderio ‘dissidente’ inconscio (1968, in Il bambino dalle uova d’oro) e a farlo emergere alla superficie della vita quotidiana (i gruppi, il femminile, la scuola, il corpo, le istituzioni), là dove cambia di accento e si declina in forme socialmente condivise ma porta la traccia delle forze originarie che lo hanno mosso. Fachinelli partecipa a esperienze di vita e a iniziative culturali molteplici, ma l’elemento fondamentale che lungo tutto il percorso lo caratterizza resta la centralità della dimensione euristica della psicoanalisi come strumento di ricerca di territori sconosciuti del soggetto e della comunità umana, da esplorare e comprendere. Il saggio ‘Che cosa chiede Edipo alla sfinge?’ (1970, in Il bambino dalle uova d’oro) può essere considerato il manifesto di uno psicoanalista e di un intellettuale che non cerca risposte che chiudano il discorso e la mente, ma che lavora con la sonda psicoanalitica per ampliare l’area che esplora. La sua vicenda esistenziale porta le tracce di dislivelli abissali tra la partecipazione a minime esperienze della vita quotidiana e sublimi vertici di condivisione del pensiero con alcuni dei più brillanti intellettuali degli ultimi decenni del ‘900.

Fachinelli nasce a Luserna, un paesino di montagna in provincia di Trento (dove ora è la biblioteca che porta il suo nome e che conserva i suoi 3072 volumi), un’isola linguistica in cui si parla un dialetto tedesco-boemo, il cimbro. Nel 1930 la sua famiglia di modeste condizioni emigra in Francia, a Menune, dove segue le scuole francesi fino a quando nel 1940 è costretto dall’inizio della guerra a rientrare in Italia. Frequenta il liceo classico a Merano e poi, sollecitato dallo zio medico Ottone e dalla madre Gemma appassionata di letteratura, si iscrive alla Facoltà di Medicina dell’Università di Pavia, come studente del Collegio Cairoli, dove incontra altri studenti che diventeranno intellettuali conosciuti, come Alberto Arbasino. Nell’estate per mantenersi lavora alla raccolta delle mele e come ‘marcatempo’ nelle acciaierie di Bolzano (forse la sua sensibilità alla dimensione del tempo in psicoanalisi proviene da questa esperienza). Caratterizzano questa fase la molteplicità delle esperienze e la brillantezza dei risultati accademici: si laurea con la lode nel 1952 con una tesi  ‘biologica’ con il prof. G. A. Maccacaro.

Una prima svolta avviene in occasione dell’incontro con la psichiatria tramite il lavoro nel reparto di Neuropatologia all’Ospedale di Niguarda a Milano dove diviene allievo e  amico di Enzo Morpurgo: consegue la specializzazione in Psichiatria presso l’Università di Milano nel 1961 con una tesi su Il contributo del Rorschach all’analisi strutturale della nevrosi fobico-ossessiva. Nel 1962 incontra Cesare Musatti, con il quale inizia l’analisi, nella prospettiva di entrare nella Società Psicoanalitica Italiana, società della quale a partire dal 1966 continua a fare parte per tutta la vita, nonostante i momenti di pubblica e aspra critica per le dimensioni autoritarie e conservatrici.

A partire dal 1966 la sua vicenda intellettuale e professionale è attraversata da due correnti che scorrono parallele e che spesso si intrecciano.

Una corrente è quella del lavoro psicoanalitico come analista individuale e di gruppo, studioso appassionato e rigoroso del pensiero freudiano: dalla traduzione, insieme alla moglie Herma Trettl, di L’interpretazione dei sogni nell’edizione Boringhieri delle Opere complete di Freud (1966) alla rilettura, fatta  insieme a Enzo Morpurgo in un Seminario della SPI a Bologna negli anni 80, di un testo freudiano enigmatico, Un disturbo della memoria sull’Acropoli (1936),  in cui approfondisce i fenomeni di telepatia come comunicazione tra inconsci senza la mediazione della parola. Il rigore filologico accompagna la sua ricerca psicoanalitica nella direzione delle zone inesplorate dell’inconscio, e la sua critica a un’interpretazione riduttiva della psicoanalisi intesa solo come strumento di modificazione delle difese e presa di coscienza delle spinte pulsionali rimosse.

Nella pratica analitica Fachinelli si scontra con la difficoltà a procedere nel lavoro di liberazione delle forze inconsce, nella direzione dall’Io all’Es: nei meccanismi ossessivi la freccia del tempo resta ferma (La freccia ferma,1979), nei meccanismi di coppia il claustrum resta chiuso e l’analisi interminabile (Claustrofilia 1983). La sua riflessione sulla interpretazione delle difese si arena di fronte alla coazione a ripetere o alla ricostituzione di nuove difese. Si interessa alla teorizzazione lacaniana, un Lacan che aveva incontrato nel 1969 al tempo della contestazione al Congresso dell’IPA a Roma e con il quale continua a mantenere uno scambio di pensiero, legato all’interesse per salvaguardare il desiderio, quello che per lui diventerà ‘il roveto ardente’ della gioia massima del rapporto di parziale indistinzione tra il bambino e la madre all’inizio della vita. Nell’ultimo libro, La mente estatica (1989) va oltre la ragione scientifica, tecnica, burocratica e si avventura in un’area di frontiera, rischiosa per l’Io individualizzato, quella delle esperienze estatiche di apertura a ciò che viene da un’altra parte, che riimmergono l’individuo nella dimensione di co-identità sperimentata all’origine della vita tra bambino e mamma, contigua al terrore di annichilimento. Fachinelli si affaccia qui a nuovi orizzonti di pensabilità e di riorganizzazione delle strutture psichiche, anticipando molta psicoanalisi contemporanea di matrice bioniana, attenta allo sviluppo di apparati per pensare le esperienze inconsce non simbolizzate: “Accogliere chi? Un ospite-interno. Accoglierlo prima di esaminarlo ed eventualmente respingerlo. Intrepidezza, atteggiamento infinitamente più ricco e alla fine forse più efficace  della prudenza di chi edifica muraglie. (…) [accogliere] le cose che vengono da un’altra parte: come un accento imprevisto che muta, che sposta l’intera figura.” (p.23-24)

L’altra corrente di pensiero è quella interessata ai fenomeni sociali, di cambiamento, individuale e di massa, sollecitata dai fenomeni di contestazione giovanile del’68, volta a comprendere le radici inconsce del desiderio dissidente e a immetterlo nel flusso comunicativo ed esperienziale come un’energia preziosa. Partecipa insieme a un gruppo di intellettuali di sinistra (Giancarlo Majorino, Luciano Amodio, Elio Pagliarani) alla creazione della rivista Il corpo (1965-68), nella quale pubblica la traduzione del saggio di Freud La negazione (1925), accompagnata da un commento ‘L’ipotesi della distruzione in Sigmund Freud’, in cui sostiene che nel lavoro analitico la negazione della verità consente il suo emergere. Pubblica anche la traduzione dello scritto di Wilhelm Reich Materialismo dialettico e psicoanalisi, di cui mette in discussione il riduzionismo biologico a favore di una concezione antropologica legata alle interazioni con l’ambiente. Partecipa ai movimenti di critica e rivolta sociale in diverse forme, tese a raggiungere le radici inconsce del desiderio infantile  (la rivista «L’erba voglio.» (1971-77), l’asilo autogestito di Porta Ticinese di cui parla nello scritto “Masse a tre anni”,1974), e a comprendere le dinamiche tra individuo e gruppo a cui attinge per irrigare i terreni inariditi della vita quotidiana e delle ideologie politiche autoritarie che non tengono conto delle soggettività (il controcorso ‘Psicoanalisi e società repressiva’ all’Istituto Superiore di Scienze Sociali di Trento; “Gruppo chiuso o gruppo aperto”?, 1974).

In Il paradosso della ripetizione (1974), Fachinelli osserva che un’attenzione eccessivamente concentrata sull’apparato di dominio volto al controllo delle masse, caratteristica degli anni intorno ai movimenti del 1968,  ha messo in secondo piano l’analisi della tendenza alla passività e alla soggezione presente negli individui. La sua attenzione si focalizza sulla relazione tra il bambino piccolo e il caregiver: il passaggio del bambino da essere biologico a essere inserito nell’universo biologico proprio dell’uomo avviene sulla base di una inter-relazione tra il bambino e l’altro, rappresentante dell’ordine simbolico, vicenda individuale e generale che contribuisce a dare forma definita e spesso definitiva al rapporto dell’individuo con il desiderio e con la morte.

In Che cosa chiede Edipo alla sfinge? (1969) osserva: “…per incontrare Edipo bisogna trovarsi sulla strada di Tebe; bisogna cioè che l’analista costituisca in altri luoghi condizioni, possibilità, linguaggio dell’interrogazione analitica (…) L’ascolto analitico deve manifestarsi come capacità di percepire il negativo, l’irregolare, l’aritmico, le situazioni che, appena accennate, e quali che siano, rischiano di essere subito soffocate o, meglio ancora, inquadrate e funzionalizzate (…) in più, deve però anche manifestarsi come capacità e possibilità di interrogare i tentativi che, spesso in modo rozzo, elementare, disordinato, vengono continuamente sorgendo nella nuova generazione come risposta a nuovi problemi” (p.155).

Finita l’onda del ’68, Fachinelli continua a interessarsi dei fenomeni sociali (droga, crisi energetica, religione, educazione, femminismo, terrorismo) intervenendo su riviste come Quaderni Piacentini e su organi di stampa come L’Europeo, l’Espresso, Panorama e il Corriere della Sera, Il Manifesto, sempre attento a svolgere una funzione critica relativa a fenomeni di chiusura e sterilità, presenti nella SPI come nella vita sociale più ampia, in particolare collaborando con studiose del femminile  come Luisa Muraro e Lea Melandri.

Proprio il suo interesse per il femminile e per l’analisi del rifiuto del femminile nella cultura psicoanalitica e nell’organizzazione sociale hanno a che fare con il desiderio vivo e temuto della ‘gioia smisurata’ e con le domande che Edipo pone alla Sfinge, volte a riattivare il potenziale liberatorio dai vincoli inconsci della psicoanalisi delle origini. La sua prematura scomparsa per una patologia tumorale affida a tutti i cultori della psicoanalisi la responsabilità di continuare a svilupparne il potenziale inespresso: “Mi sembra chiaro che reincontreremo, sulla strada di Tebe, una sfinge senza più maschera, e un soggetto, di cui non conosciamo ancora il nome, col quale potremo forse scambiare giuste domande e giuste risposte.“ (Che cosa chiede Edipo alla sfinge?,p.157).

Scritti di Elvio Fachinelli

(1971). L’erba voglio. Pratica non autoritaria nella scuola. Torino: Einaudi.(1974); Il bambino dalle uova d’oro. Milano: Feltrinelli (ora Adelphi, 2010).(1979); La freccia ferma. Tre tentativi di annullare il tempo. Milano: L’erba voglio (ora Adelphi, 1992).; 1983). Claustrofilia. Saggio sull’orologio telepatico in psicanalisi. Milano: Adelphi.; 1989). La mente estatica. Milano: Adelphi; ( 2012) (a cura di Lamberto Boni). Su Freud. Milano: Adelphi.

Bibliografia

Bonoldi, G.( a cura di). (1976), Il corpo, 1966-1968. Milano: Moizzi.

Conci, M. & Marchioro, F. (1998) (a cura di). Intorno al ’68. Un’antologia di testi. Roma: Massari.

Melandri L. (a cura di). 1998). Il desiderio dissidente. Antologia della rivista ‘L’erbavoglio’ (1971-1977). Milano: Baldini&Castoldi.
Conci, M. (1996). Introduzione. In : Catalogo bibliografico trentino, a cura di, Frutti della claustrofilia. Catalogo del Fondo Fachinelli della Biblioteca Comunale di Lucerna. Trento: P.A.T.
Pirillo, N. (a cura di) (2011). Elvio Fachinelli e la domanda della sfinge. Tra psicoanalisi e pratiche filosofiche. Napoli: Liguori.

Elvio Fachinelli. Un freudiano di giudizio (2011) (numero monografico). Aut aut, 352, ottobre-dicembre.

Arbasino, A. (2014). Ritratti italiani. Milano: Adelphi.

Fantasia Inconscia
E.HESSE, 1975

E.HESSE, 1975

FANTASIA INCONSCIA

a cura di Marinella Lia

La Fantasia Inconscia è un concetto molto importante in Psicoanalisi, sia dal punto di vista teorico che clinico, e diverse scuole psicoanalitiche ne hanno prodotto differenti versioni. Freud,(1887-1904, 1899,1911,1915-17,1932) pur non dedicando mai una trattazione specifica al concetto, distribuirà le sue elaborazioni in molti dei suoi scritti, e le discrepanze fra le diverse accezioni del concetto non verranno mai sistematizzate o risolte.
L’idea Freudiana di Fantasia Inconscia è strettamente collegata al suo modello topografico della mente, come si evince da capitolo 7 della Interpretazione dei sogni.  Le Fantasie, nella maggior parte dei casi, originano come sogni diurni consci o preconsci e vengono successivamente represse quando il loro contenuto è inaccettabile per la coscienza. Inizialmente sono soggette alla logica del processo secondario, ma quando vengono respinte nell’inconscio partecipano della logica del processo primario, e diventano indistinguibili dalle memorie.

Nella Enciclopedia della Psicoanalisi (Laplanche e Pontalis,1967), si legge che la Fantasia Inconscia (Fantasma) si riferisce allo scenario immaginario dove è presente il soggetto, dove vengono rappresentati, in modo più o meno deformato, i processi difensivi, l’appagamento di un desiderio e, in ultima analisi, di un desiderio inconscio. La F.I.[1] si presenta in forma di sogni diurni consci, fantasie inconsce sottostanti ad un contenuto manifesto, fantasie originarie.

La F. I. del Dizionario di Psicoanalisi Kleiniana ( Hinshelwood,1989) è radicalmente diversa. Le fantasie inconsce stanno alla base di ogni processo mentale e ne accompagnano tutta l’attività. Rappresentano il mentale degli eventi corporei, che comprendono gli istinti, e sono sensazioni fisiche interpretate come relazioni con oggetti che le provocano. Esprimono sia gli impulsi libidici che quelli aggressivi e i meccanismi di difesa. Le Fantasie sono in costante interazione con la percezione della realtà esterna.

I primi riferimenti, più o meno impliciti, alla esistenza di fantasie inconsce risalgono agli Studi sull’Isteria (Breuer e Freud 1893-95), come il ‘teatro privato’ di Anna O.
Nelle Lettere a Fliess (Freud, 1892-99) vi sono alcuni passaggi epocali.
Nella lettera del 21 settembre 1897, Freud annuncia l’abbandono della teoria della origine traumatica della nevrosi. Sono le fantasie sessuali inconsce presenti nel bambino a creare il disturbo mentale e il trauma, non è l’evento fisico in sé.
Nella lettera successiva del 15 ottobre 1897, Freud parla della presenza universale di fantasie di colpa e punizione e ritorsione legate ai desideri libidici e aggressivi del bambino.
Più tardi, in ‘Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico’ (1911), troviamo la trattazione metapsicologica più chiara del concetto di fantasia inconscia: la fantasia è una attività mentale di realizzazione di desiderio che sorge quando un desiderio istintuale viene frustrato. Questa particolare modalità di pensiero viene scissa con l’introduzione del principio di realtà, viene esonerata dall’esame di realtà e rimane subordinata al solo principio di piacere.
In Lezione introduttiva 23 (1916-17), Freud presenta il concetto di realtà psichica : le fantasie sono reali psichicamente anche se non materialmente e, nel mondo della nevrosi, la realtà che conta è quella psichica. La realtà psichica non è illusoria e neppure effimera. Ha una sua consistenza, organizzazione e coerenza e resiste al confronto con la realtà materiale. Egli distingue però dalla fantasia come sogno diurno alcune fantasie di base rintracciabili in tutti gli esseri umani che sono sempre state inconsce e che non sono prodotte dalla repressione: sono la fantasia della castrazione, della seduzione per opera di un adulto, e della scena primaria del rapporto sessuale fra i genitori.  Nel tentativo di collegare le fantasie alla memoria di eventi percepiti, Freud postula un tipo di realtà storica ‘ricordata’ nelle fantasie primarie: si tratta di eventi reali accaduti nella preistoria dell’umanità, la cui memoria è trasmessa filogeneticamente.

Laplanche e Pontalis (1968) ritengono che le fantasie primarie che Freud attribuisce ad una eredità filogenetica possano essere pensate come una pre-struttura che viene attualizzata e trasmessa dalle fantasie dei genitori. Questa lettura ‘strutturalista’ della teoria freudiana delle fantasie primarie resterà un cardine della psicoanalisi francese.
Perron (2001), altro esponente della scuola francese, ribadisce  che se le fantasie sono costruite secondo lo stesso schema generale in tutti gli esseri umani è perché ognuno è inserito nelle stesse condizioni generali, ovvero tutti hanno una madre e la psiche di ognuno si sviluppa all’interno di una cornice in cui interviene una seconda figura parentale con cui la madre è in relazione

Klein (1932), come Freud, non dedicherà mai una trattazione specifica alla fantasia inconscia, ma il concetto è presente in tutti i suoi scritti ed è alla base di tutto il suo pensiero. L’idea della fantasia come attività inconscia è presente fin dall’inizio del suo lavoro. La psicoanalisi dei bambini e la scoperta della tecnica del gioco la mettono a confronto con la straordinaria e spontanea propensione dei bambini a produrre fantasie. Spesso si tratta di teorie cariche di ansia e intrise di intensi sentimenti di amore e di odio su nascita, morte, sessualità dei genitori, processi corporei, fantasie in cui vengono immaginate azioni punitive o riparative perpetrate o subite. Klein scopre che la esplicitazione e la interpretazione di queste fantasie da parte dell’analista tende a far sì che i bambini si sentano liberi usarle in modo meno inibito e più comunicativo, e collaborino più attivamente al lavoro analitico producendo ulteriori fantasie, più personali e precise e ricche di dettagli. Molte di queste fantasie riguardano processi introiettivi e proiettivi, e le relazioni di oggetti interiorizzati fra di loro e con il mondo esterno. Le varie fantasie che Klein riscontra sia nei bambini che negli adulti verranno successivamente da lei concettualizzate nelle posizioni schizo-paranoide e depressiva.

Dal punto di vista della tecnica psicoanalitica nella analisi infantile, Klein è convinta che il gioco del bambino rappresenti le sue fantasie inconsce e sia equivalente alle libere associazioni nella analisi degli adulti che il bambino piccolo formi un transfert e che il compito dell’analista sia di interpretare nel modo più completo possibile le fantasie e i conflitti e le difese come si manifestano  in esso, come si farebbe con un paziente adulto.

Le posizioni teoriche e cliniche della Klein suscitano presto la opposizione degli analisti viennesi che si raccolgono attorno a Freud e alla figlia Anna. Quando Freud e gli psicoanalisti in fuga dalle persecuzioni razziali si rifugiano a Londra nel 1938 la tensione fra il gruppo kleiniano e il gruppo degli analisti “ortodossi” si fa acuta. Per evitare una scissione fra i due gruppi si apre un infuocato dibattito scientifico, raccolto nelle cosiddette Controversial Discussions (1941-45). Il concetto di fantasia inconscia è al centro di questo dibattito e il compito di illustrare e chiarire la posizione dei kleiniani è affidato a Susan Isacs, una analista con una solida reputazione scientifica e accademica.
Le Controversial Discussions si aprono con la sua relazione intitolata “La natura e la funzione della fantasia”, una pietra miliare del pensiero psicoanalitico.
A Klein e a Isacs viene contestato di attribuire al bambino piccolo delle attività e competenze mentali che non si possono osservare direttamente ma solo inferire, che sono troppo evolute per l’età, e che sono incompatibili con la teoria del narcisismo primario.
Anna Freud sostiene che nei primi mesi di vita il bambino attraversa una fase auto-erotica che precede le relazioni oggettuali e le fantasie che le accompagnano. Il bambino è consapevole di stati di piacere o di dolore ma non ha la capacità di attribuire questi stati alle vicissitudini emotive inerenti al suo rapporto con i genitori, ed è solamente interessato al proprio benessere.  Pensa anche che la definizione che Isacs propone di fantasia inconscia modifica il concetto stesso di inconscio in Freud, introducendo troppo presto la ‘funzione sintetica’, cioè la capacità di sperimentare il conflitto fra sentimenti divergenti. Una accusa particolarmente aspra è quella di svuotare e rendere inutili concetti fondamentali del pensiero psicoanalitico classico, come la progressione delle fasi libidiche, la regressione e la fissazione, il complesso stesso di Edipo, sostituendoli con un unico concetto, quello della fantasia inconscia, talmente esteso da includere la attività mentale inconscia nella sua interezza.

Isacs (1948), nel rispondere alle obiezioni,  sostiene in tutti i modi la compatibilità delle posizioni kleiniane con il pensiero di Freud e presenta la sua visione della fantasia inconscia come una semplice espansione ed elaborazione del concetto freudiano di inconscio, resa possibile dai nuovi dati portati dalla psicoanalisi infantile e dagli studi sullo sviluppo cognitivo. In realtà la sua teorizzazione introduce una teoria del pensiero che anticipa quella di Bion e costituisce una profonda revisione, come sostiene Thomas Ogden (2012),  delle metafore centrali della concezione freudiana del lavoro mentale, sostituendo il modello strutturale con il modello di un mondo interiore strutturato dalle relazioni oggettuali.

Le accuse di ‘non ortodossia’ che vengono mosse alla Isacs sono in gran parte motivate. E’ vero che Klein trascura la teorizzazione in termini di fasi dello sviluppo libidico a favore di una nuova strutturazione dello sviluppo del pensiero in termini di posizioni (schizo-paranoide e depressiva) che sono atteggiamenti mentali fra cui l’individuo oscilla per tutta la vita. Trascura il modello topografico, vede una continuità genetica fra forme primitive e forme evolute di pensiero. Rende complicato inquadrare il fenomeno della repressione, che implica un conflitto fra desideri istintuali e realtà esterna, dato che il conflitto è prima di tutto interno, fra sentimenti contrastanti.

Il pensiero della Isacs sulla fantasia inconscia è talmente innovativo che alcuni vi riconoscono una anticipazione delle teorie neuropsicologiche della coscienza e del pensiero in piena fioritura nei nostri anni. Alcuni esempi: per Lakoff, il pensiero è corporeo, inconscio, relazionale e metaforico; per Damasio, il pensiero nasce a partire dalla costante mappatura che il nostro organismo fa del proprio stato nella sua relazione con l’esterno.

Per finire, vorrei ricordare che Segal (1991) afferma che leggendo Freud si ha l’impressione che le fantasie inconsce sono come isole nel mare della vita mentale, mentre leggendo il lavoro di Klein con i bambini si ha l’impressione di un continente sommerso in cui le isole sono le manifestazioni consce e osservabili.

Bibliografia

Bion WR (1962) Apprendere dall’esperienza. Trad. it. Roma: Armando, 1972

Damasio A.R. (1999) Emozione e coscienza. Trad. it. Milano: Adelphi, 2000

Freud S. (1887-1904) Lettere a Wilhelm Fliess. Trad. it.Torino: Bollati Boringhieri, 1986

Freud S (1899). L’interpretazione dei sogni. In: OSF, vol. III. Torino: Boringhieri

Freud S. (1911) Precisazioni sui due principi dell’accadere pscichico. In OSF, vol.VI, Torino: Boringhieri

Freud S. (1915-17) Introduzione alla psicoanalisi. OSF, vol:VIII, Torino: Boringhieri

Freud S (1932) Introduzione alla psicoanalisi (Nuova serie di lezioni) OSF, vol. XI. Torino: Boringhieri.

Hinshelwood R. (1989) Dizionario di psicoanalisi kleiniana. Trad. it. Milano: Cortina, 1990

Isaacs S. (1948) The nature and function of phantasy. International Journal of Psycho-Analysis 29: 73-97

King P., Steiner R. (1991). The Freud-Klein Controversies 1941-1945. London & New York: Tavistock/Routledge

Klein M (1932). La psicoanalisi dei bambini. Trad. it. Firenze: Martinelli

Lakoff G and Johnson M (1999) Philosophy in the flesh. New York: Basic Books

Laplanche J., Pontalis J.B. (1967). Enciclopedia della psicoanalisi. Trad. it. Bari: Laterza, 1968

Ogden T (2012) Creative Readings. East Sussex: Routledge

Segal H. (1991). Sogno, fantasia e arte. Trad. it. Milano: Cortina 1991

Steiner R. ed (2003). Unconscious phantasy. London: Karnac Books

[1]Fantasia Inconscia

Fatto scelto
Fatto scelto

Da La lettera rubata_di E. A. Poe

A cura di Fulvio Mazzacane

Per Bion l’espressione “fatto scelto” descrive un’esperienza emotiva in cui avviene un processo di sintesi che l’analista fa, attraverso sentimenti di coerenza e scoperta, passando da una situazione schizoparanoide ad una depressiva, da una sensazione di vuoto di senso con vissuti di angoscia e persecutori a una transitoria sensazione di sollievo (Lòpez Corvo, 2006).

Precursori del concetto

Hume elabora il concetto di congiunzione costante che è in qualche modo precursore del concetto psicoanalitico di fatto scelto. La connessione tra idee, che punta all’identificazione di congiunzioni costanti, si regola in base a tre principi: la somiglianza, la contiguità nel tempo e nello spazio e la causalità. Tre principi che funzionano come una “dolce forza” di attrazione. Le relazioni che la mente costruisce possono essere tra idee e idee e tra idee ed esperienze. Le prime conducono alle certezze apodittiche delle verità matematiche, la cui negazione porta a contraddizione. Le seconde riguardano le nostre conoscenze sperimentali, non dipendono dal principio di non contraddizione e producono una conoscenza solo probabile. Hume critica un uso automatico della relazione causa effetto, che spesso parla solo della nostra abitudine a perpetuare le regolarità che si presentano nella nostra esperienza. Mette in guardia dal fatto che il fondamento della relazione causa effetto è psicologica e non è lecito trarre conclusioni senza l’autorizzazione di esperienze ripetute.
L’identificazione di una congiunzione costante attraverso il rilevamento di indizi che necessitano di essere pensati, tenendo conto della realtà dell’esperienza e della forza emotiva delle passioni in gioco, pone la psicoanalisi all’interno di quello che è stato definito il paradigma indiziario (Ginzburg, 1981).
E. A. Poe (1845) crea l’investigatore Dupin, personaggio che possiede doti logico deduttive che gli consentono di risolvere i casi trionfalmente. In effetti il modo di procedere di Dupin appare meno rigidamente scientifico, Poe utilizza il concetto di ratiocination per definire il modo di procedere di Dupin, uno stato mentale del narratore che rende possibili un ragionamento fondato sulle ipotesi. Nel modo di indagare di Dupin ci sono inferenze, attenzione al non verbale, al percettivo, alla lettura delle espressioni.
Pochi decenni dopo Peirce (1929) afferma l’importanza dell’interazione per l’attività investigativa, per apprendere dai comportamenti, dalla mimica e dalla fisiognomica. Si tratta di riattivazioni di impressioni che fanno parte di un nostro bagaglio acquisito nel tempo, sensoriali e corporei. Saper tenere insieme il massimo di intenzionalità con il massimo di ricettività per cogliere le piccole percezioni e le nostre risposte più profonde o antiche è un tratto artistico.
L’abduzione è per lui il primo passo del ragionamento scientifico, l’unico tipo di ragionamento che origina una nuova idea, fa conto su percezioni inconsce di connessioni tra aspetti diversi del mondo, comunicazioni subliminali di messaggi ed è associata ad un’emozione, prende spunto dai fatti senza, all’inizio, avere alcuna particolare teoria in vista.

Il fatto scelto

Nel testo della seduta convergono i contributi verbali e non verbali di paziente ed analista e, inevitabilmente, delle loro storie. L’analista è chiamato ad organizzare ipotesi di attribuzione di senso attraverso operazioni che illuminano alcune parole, espressioni, sensazioni, fantasie e ne narcotizzano altre. Nella selezione del materiale da illuminare emerge la qualità artistica del lavoro analitico. Di ogni scelta sarà sempre difficile dire se sia la migliore possibile, ma sarà sempre possibile verificare o chiedersi comunque quando sia errata attraverso le risposte del paziente o in maniera più eclatante per il concretizzarsi di fenomeni di blocco della comunicazione.
Ne “Il gemello immaginario” (1967) Bion chiama “Evoluzione” il “collegarsi mediante un’improvvisa intuizione, di una serie di fenomeni apparentemente slegati tra loro e che, dopo l’intuizione, hanno assunto una coerenza e un significato che prima non possedevano”. Connessioni che emergono dal discorso del paziente inimmaginabili ma inequivocabili.
Più tardi definisce questi fenomeni “fatto scelto”, prendendo questa espressione da H.Poincaré che nel 1908 la utilizza per spiegare come avviene la formazione di un pensiero creativo all’interno di una ricerca in campo matematico. L’obiettivo è tendere ad un ordine in una complessità altrimenti inaccessibile attraverso la coesistenza di prospettive diverse.
Bion sottolinea come si tratti di un’esperienza emotiva che sorge da un sentimento di coerenza e di scoperta, non necessariamente risponde ad una logica e avviene in un assetto dell’analista “rilassato” che si accompagna a una sensazione di sintesi o di associazione creativa.
L’emergenza del fatto scelto è un processo sincronico, non è uguale al procedimento diacronico che stabilisce catene causali, lega tra loro elementi slegati fino a un attimo prima. In questo modo, nella pratica clinica, l’emergenza del fatto scelto viene associato prevalentemente all’ambito delle microtrasformazioni che avvengono in seduta, più che a quello delle costruzioni in cui la coppia riorganizza vari momenti di lavoro per ripensare in maniera più sistematica a pezzi della storia del paziente o della coppia analitica. .
Come accade sempre nella teorizzazione bioniana, il concetto di fatto prescelto, va inteso più che come concetto singolo come nodo di una rete cui appartengono altre nozioni, poiché la particolarità del modello bioniano che si fonda sulle analogie, intese come percezione di relazioni tra oggetti, rende difficile e inadeguato cogliere il singolo concetto al di fuori delle sue relazioni (Civitarese, 2011). In questo contesto va sottolineata la relazione con i concetti di capacità negativa, rêverie, trasformazioni in O, preconcezione-realizzazione, congiunzione costante, bi-direzionalità dei movimenti PS/D.

Oscillazione Capacità Negativa/Fatto scelto

Bion afferma che il modello del fatto scelto è bimodale, un primo aspetto è nella pazienza dell’analista, nella sua fede nella propria intuizione e che esista in lui una pre-concezione del fatto prescelto. Il secondo è del paziente e delle sue associazioni libere
Il fatto scelto è cioè l’elemento che dà coerenza agli oggetti della posizione schizoparanoide e dà così inizio alla posizione depressiva, può fare tutto ciò grazie al fatto di stare al punto di intersezione di una serie di diversi sistemi deduttivi e di appartenere così a tutti loro… L’analista deve occuparsi di due modelli: uno che egli deve costruire e l’altro implicito nel materiale prodotto dal paziente. (Bion, 1970, 149 150)
L’emergenza del fatto scelto all’interno di una dialettica (oscillazione) con la capacità negativa (Ferro, 1999) è intesa come la capacità di imporsi un’astinenza dalla ricerca attiva di elementi della memoria, che siano elementi della storia del paziente, delle teorie dell’analista. “Quella capacità che un uomo possiede se sa perseverare nelle incertezze, attraverso i misteri e i dubbi, senza lasciarsi andare ad un’agitata ricerca di fatti e ragioni” (Bion, 1970).
Vi è un continuo oscillare tra la capacità dell’analista di permanere in posizione schizoparanoide priva di persecuzione e l’opzione per il fatto scelto. L’ipotesi di lettura che porta al fatto scelto nasce da un’emozione che aggrega elementi prima non collegati in una forma che privilegia un vertice e ha la sua inevitabile caratteristica di transitorietà e non di parola finale. Il lutto del passaggio in una posizione depressiva viene mitigato dall’idea che quello che abbiamo narcotizzato può sempre tornare in campo (Ferro, 1999).

Patologia del fatto scelto

Britton e Steiner (1994) partono dalla considerazione di un’estrema vicinanza tra il fatto scelto e un overvalued idea. I sentimenti di incertezza e di confusione provocati, a volte, dal materiale della seduta spingono paziente e analista a cercare un senso compiuto con sentimenti di urgenza.
La ricerca e l’apparente emergenza di una congiunzione costante su cui costruire un’ipotesi interpretativa non lo pone al riparo da false piste o fraintendimenti. Britton e Steiner definiscono overvalued idea i pensieri dell’analista che si presentano come fatti prescelti, in realtà determinati da reazioni difensive dell’analista, dal suo bisogno di confermare le proprie teorie o di tenere lontana l’ansia relativa ad un certo materiale. L’ overvalued idea si configura quindi come rifugio dell’analista o della coppia per mancanza di stabilità psichica in momenti di particolare confusione, un uso improprio delle proprie teorie che da patrimonio si trasformano in aree di non pensiero
Un profondo esercizio del dubbio e l’attenzione dell’analista alle risposte del paziente sono due componenti fondamentali dell’indispensabile funzione di controllo. Testare l’effetto dell’interpretazione fa parte dell’interpretazione stessa, sono due momenti non distinguibili. Il rischio più grosso è l’analista senza dubbi, indottrinante, che uccide la creatività e l’autenticità del paziente.
Bibliografia

Bion W.R. (1967) Il gemello immaginario in Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico. Armando, Roma (1970).
Bion W.R. (19629 Apprendere dall’esperienza. Armando, Roma (1982).
Britton R., Steiner J. (1994) Interpretation: selected fact or overvalued idea? Int. Jour. Psy. 75, 1069-1078.
Civitarese G. (2011) La violenza delle emozioni. Cortina, Milano.
Ferro A. (1999) La psicoanalisi come letteratura e terapia. Cortina, Milano.
Ginzburg C. (1983) Spie. Radici di un paradigma indiziario, in (a cura di Eco U., Sebeok T.A.) Il segno dei tre. Holmes, Dupin, Peirce. Bompiani, Milano.
Lòpez Corvo R.E. (2006) Dizionario dell’opera di Wilfred R. Bion. Borla, Roma
Peirce C.S. (1929) Guessing. In Opere. Bompiani, Milano (2011).
Poe E.A. (1983) I racconti. Einaudi, Milano.
Novembre 2014

Ferenczi Miskolc Sándor
Ferenczi Miskolc Sándor

Ferenczi Miskolc Sándor

SÁNDOR FERENCZI Miskolc,

a cura  di  Silvia Anfilocchi

7 luglio 1873 – Budapest, 22 maggio 1933

Sándor Ferenczi si definì l’enfant terrible della psicoanalisi. Fu, infatti, un grande innovatore, anticipatore di proposte che sono divenute parte integrante della psicoanalisi attuale, precursore di temi centrali nel dibattito contemporaneo. Amico e allievo prediletto di Freud, che ne lodò la versatilità, l’originalità e la ricchezza di talento[1], ebbe con lui una relazione in parte paritaria e fraterna, con le rivalità e le ambivalenze tipiche di un rapporto profondo, in parte di tipo genitoriale, con richieste e tensioni unilaterali.

Cenni Biografici

Nacque in una cittadina nel nord dell’Ungheria, ottavo di 11 figli di una famiglia ebrea liberale di classe media in cui si parlava correntemente ungherese, polacco, tedesco e yiddish, perse il padre a 15 anni e crebbe in un ambiente culturalmente stimolante ma carente dal punto di vista affettivo. La madre, descritta come una donna severa, accrebbe l’attività del marito (una libreria-tipografia vivace centro culturale frequentato da intellettuali e artisti) ma dedicò scarse attenzioni ai figli.

Queste brevi note biografiche forse rendono ragione della sensibilità di Ferenczi per le aree traumatiche precoci e di altri suoi tratti distintivi (l’acume spiccato, la genialità e la dipendenza emotiva) tipici di quei bambini precocemente saggi di cui si occuperà come analista.

Dopo la laurea in medicina a Vienna avviò le carriera di neuropsichiatra all’ospedale St. Rókus di Budapest dove intraprese osservazioni ed esperimenti psicologici su se stesso con il metodo della scrittura automatica e si avvicinò all’idea di apparato psichico inconscio. Dal 1897 al 1908, anno in cui presentò il suo primo lavoro psicoanalitico, pubblicò 98 tra saggi, articoli, recensioni e studi di casi su temi come: gli stati inconsci, l’ipnotismo, i sogni, la scissione psichica; scritti in cui riservava già grande attenzione alla relazione di cooperazione tra medico e paziente quale elemento fondamentale per la buona riuscita del trattamento.

Al primo approccio, l’Interpretazione dei sogni non suscitò il suo interesse ma, dopo aver riletto questo ed altri lavori di Freud, volle conoscerlo. Si incontrarono nel 1908 grazie all’intermediazione di Jung e l’anno successivo lo accompagnò negli Stati Uniti.

Da allora, Ferenczi fu un instancabile ed entusiasta promotore della psicoanalisi: fu sua l’idea di fondare l’International Psychoanalytic Association (1910), la Società Psicoanalitica Ungherese (1913) di cui fu presidente per 20 anni, l’International Journal of Psychoanalysis (1920) e di istituire un programma di training psicoanalitico formalizzato in cui era richiesta un’analisi didattica approfondita (la seconda regola fondamentale) agli aspiranti analisti. Grazie alla sua vasta cultura e alla sua apertura verso altre discipline, contribuì enormemente alla diffusione della psicoanalisi tra letterati, scienziati ed artisti. Come Freud, fu un convinto sostenitore dell’analisi laica e si oppose al predominio che la classe medica statunitense cercava di guadagnare sulla disciplina.

Uno dei primi concetti psicoanalitici da lui proposti, ripreso da Freud ed entrato a far parte dell’impianto teorico condiviso, fu quello di introiezione (1909 e 1912a), termine che coniò per integrare il movimento di proiezione e spiegare il processo di formazione del mondo e degli oggetti interni all’Io; lo riprese e sviluppò (1913a e 1926a) alla luce delle innovazioni nel frattempo introdotte da Freud affiancando alle fasi dello sviluppo psicosessuale gli stadi di creazione del senso di realtà.

Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale fu richiamato sotto le armi e lavorò come medico da campo, esperienza che gli consentì di approfondire la teoria e il trattamento delle nevrosi post-traumatiche. In questo periodo fece con Freud un’analisi breve e sommaria che lo lasciò insoddisfatto soprattutto per la mancata elaborazione del transfert negativo (lamentela comune ai primi analisti che non poterono beneficiare di un’analisi personale approfondita).

Tuttavia, Ferenczi e Freud mantennero un rapporto profondo di scambio sincero sul piano personale e professionale. Lo testimoniano l’intensa corrispondenza, i numerosi viaggi e vacanze che fecero insieme, le ripetute citazioni e riconoscimenti nei testi freudiani e l’evoluzione quasi parallela dei loro scritti, tanto da non poter distinguere quanto l’uno dovesse all’altro[2].

Nel 1919, all’epoca del matrimonio con la donna con cui aveva intrattenuto per 20 anni una complicata relazione clandestina, gli fu offerta la prima cattedra di psicoanalisi al mondo istituita all’Università di Budapest. La perse poco dopo, quando una reggenza di destra spodestò il Soviet nel tentativo di restaurare la monarchia e provocò l’allontanamento degli psicoanalisti ungheresi suoi allievi (S. Rado, M. Klein, M. Mahler, i Balint, F. Alexander) verso Vienna e Berlino.

A partire dagli anni ’20, Ferenczi si concentrò sul suo interesse principale: le modifiche tecniche tese ad accrescere l’efficacia terapeutica della psicoanalisi con un’attenzione privilegiata alle dinamiche transferali e contro-transferali nella relazione analitica, considerata un rapporto bi-personale[3]. Insieme a Rank, fu il primo a mostrare che quanto emerge in seduta deriva dall’incontro tra il transfert del paziente e il controtransfert dell’analista (1924a). Mostrò che il fenomeno del transfert è onnipresente nella cura e che tutto va interpretato come espressione del rapporto di transfert e di resistenza (1926b) e che tutti i sintomi fisici e psichici che si presentano durante il trattamento vanno interpretati come manifestazioni del processo analitico (1912b, 1913b). Nel tracciare una metapsicologia del funzionamento mentale dell’analista al lavoro, individuò il controtransfert narcisistico, ovvero il rischio che il narcisismo dell’analista influenzi i pazienti e inconsciamente li spinga a portare in seduta solo materiale a lui gradito, epurato da sentimenti ostili, finendo per rafforzare il senso di colpa inconscio e impedire il progresso della cura (1919a, 1919c,  1927-28), esattamente come accade ai bambini che si sentono costretti ad accondiscendere gli adulti.

Teoria e Tecnica

Le innovazioni tecniche da lui introdotte nella ricerca di modi corretti, rispettosi, opportuni che, senza mai superare il livello di tensione e dispiacere sopportabile dalla struttura dell’Io del paziente (la sofferenza tollerabile), consentono di raggiungere le aree più precoci e approfondire la cura, hanno permesso di ampliare i campi di indagine e intervento della psicoanalisi al trattamento delle patologie non-nevrotiche. La sua scrittura ricca di osservazioni e di esempi clinici fornisce indicazioni preziose per superare i momenti di impasse.

La comprensione dell’importanza che il rapporto precoce madre-bambino e il ruolo genitoriale giocano nello sviluppo psichico e nella strutturazione della personalità, il concetto di impronta lasciata dall’oggetto sulla psiche del soggetto in via di sviluppo, di ipnosi materna e paterna, di fallimento ambientale, fanno di Ferenczi il padre delle teorie delle relazioni oggettuali. La sottolineatura di come in analisi si ricreino l’ambiente infantile e adolescenziale, per il desiderio inconscio del paziente di vedere rettificato e riscattato l’accudimento inadeguato ricevuto in famiglia e che ogni terapia è l’analisi del bambino che sopravvive nell’adulto è un richiamo dell’analista alle proprie responsabilità (1930).

Tra il 1926 e il 1927 fu invitato dalle società psicoanalitiche locali a tenere conferenze a New York e a Washington e lì rimase un punto di riferimento per la nascente psicoanalisi interpersonale, a differenza di quanto accadde in Europa, dove fu quasi dimenticato fino alla recente «Ferenczi renaissance[4]». Nel Vecchio Continente, infatti, fu a lungo frainteso e marginalizzato dalle correnti prevalenti, soprattutto a causa dei giudizi malevoli di Ernest Jones, suo allievo e biografo di Freud, probabilmente geloso del trattamento privilegiato che questi riservava a Ferenczi[5], e della censura che lo stesso Jones e Anna Freud hanno operato sulla corrispondenza tra i due.

La riscoperta e completa riabilitazione dello psicoanalista ungherese ha in Italia alcuni rappresentanti tra i più autorevoli: Glauco Carloni[6] che ha esplicitamente passato il testimone a Franco Borgogno[7], cui siamo debitori dell’intenso e capillare lavoro di diffusione e valorizzazione di Ferenczi come analista e come uomo.

In realtà, per le qualità umane e professionali di cui aveva dato prova, i colleghi inviavano a Ferenczi i casi considerati impossibili, cioè pazienti profondamente regrediti ed egli continuò fino all’ultimo a rielaborare le sue prime intuizioni sulla necessità di prestare un ascolto sincero, interessato, affettivo al paziente, per sentire con il cuore e accogliere sensazioni, angosce, comunicazioni, per toccare con tatto, cogliere e dare senso anche alle più piccole sfumature, sperimentare e trasmettere il desiderio di aiutare.

In molti suoi scritti, forse soprattutto negli articoli più brevi, Ferenczi regala al lettore osservazioni cliniche puntuali e originali, oltre a utili consigli tecnici per favorire il raggiungimento dell’empatia, la capacità di sentire dentro, di mettersi nei panni del paziente senza confondersi con lui.

Grazie all’esperienza acquisita nell’analisi dei casi più difficili, rivoluzionò la teoria del trauma (non solo sessuale e non solo fantasmatico) e il concetto di traumaticità di un evento; approfondendo l’analisi dei processi intrapsichici e interpersonali che coinvolgono vittima e carnefice arrivò a elaborare i concetti di scissione e frammentazione dell’Io come difesa dal dolore e di identificazione con l’aggressore, intesa come la possibilità di sopravvivenza in cui la vittima rinuncia a sé e si consegna all’aggressore identificandosi con ciò che egli si aspetta. Spiegò che il disconoscimento dei sentimenti dei bambini e il silenzio degli adulti sono elementi aggravanti (1927, 1929, 1933) e, conseguentemente, sostenne la necessità che l’analista sia sincero per consentire al paziente di recuperare fiducia nelle proprie sensazioni, che riconosca la propria partecipazione e influenza, potenzialmente anche maligna, lungo tutta l’analisi e in ogni singola seduta (1908, 1924a).

Nelle sue ultime opere (1932, pag. 55) indicherà con il nome di Orpha gli istinti vitali organizzatori che presiedono alla scissione per garantire la sopravvivenza psichica in situazioni traumatiche, una sorta di Vero Sè che rimane protetto, e spiegherà la funzione traumatolitica del sogno (1931).

L’amore per la ricerca e la verità, evidente sin dai primi scritti pre-analitici, rimarrà una caratteristica costante della sua produzione. Invariata resterà anche la sua fedeltà alle teorie freudiane, nonostante gli esperimenti, non sempre felici, che gli costarono critiche e divergenze con il Maestro a partire dagli anni ‘20. I due poterono discuterle e superarle fino alla rottura definitiva nel dicembre 1931, quando Freud scrisse a Ferenczi, già malato, una lettera di biasimo pur mantenendo un atteggiamento indulgente, rimproverandogli il rischio per l’intera teoria psicoanalitica a causa delle voci che giravano sul suo conto.

Secondo Freud, Ferenczi assumeva con i suoi pazienti un atteggiamento troppo materno, cosa che avrebbe potuto sviare la posizione degli analisti in formazione ma, come commenta il suo allievo M. Balint, forse, le eccezionali qualità di accudimento di cui Ferenczi era capace mettevano in difficoltà Freud che non avrebbe saputo sostenere un carico emotivo così intenso.

Particolarmente apprezzata dal Maestro, che la definì la più audace applicazione dell’analisi mai tentata e una possibile precognizione della futura bioanalisi, fu l’opera (1924b) in cui l’autore applica alcuni modelli psicoanalitici, tratti prevalentemente dai Tre saggi sulla teoria sessuale, allo studio della vita organica per far luce sui fenomeni psichici.

Le critiche che gli sono state rivolte, e che hanno contribuito a tenerlo per decenni in posizione marginale, sono conseguenza del fraintendimento dei suoi esperimenti di psicoanalisi attiva e di analisi reciproca.

L’analisi attiva, cui dedicò diversi lavori (1919b, 1921, 1924c) densi di preziose osservazioni cliniche, consisteva per Ferenczi nel sostenere, anche realmente, il ruolo che l’inconscio del paziente attribuisce all’analista in modo da facilitare la ripetizione delle esperienze traumatiche e il loro superamento dopo la rivelazione del contenuto: una tecnica che induce il paziente verso un atteggiamento attivo nei momenti in cui il trattamento sembra ristagnare e le associazioni esaurirsi. Pur riconoscendone l’interesse, lo stesso Ferenczi ricusò questa modifica; concluse che non ci possono essere scorciatoie nel processo analitico e che neanche gli analisti più esperti possono pensare di abbreviare il lavoro senza correre rischi (1926b).

L’analisi reciproca, esperimento che Freud bocciò risolutamente, è riportata nel Diario clinico, testo molto originale per l’epoca, che, insieme agli appunti pubblicati con il titolo Frammenti e annotazioni, testimonia le sue doti di osservatore attento e clinico di valore.

Sicuramente nessuno oggi potrebbe sostenere un simile approccio tuttavia, le associazioni di Ferenczi e dei suoi pazienti sulle rispettive fantasie inconsce e le loro mutue analisi mostrarono come i processi psichici dell’analista e del paziente si mescolino e come la loro rivelazione simultanea arricchisca e approfondisca la comprensione da parte di entrambi. Queste novità hanno aperto la strada alle tecniche di self-disclosure delle scuole intersoggettiviste.

Ferenczi si ammalò di anemia perniciosa con gravi conseguenza neurologiche nel 1931 e morì 2 anni dopo.

BIBLIOGRAFIA

Articoli di Sándor Ferenczi citati nel testo:

(1908) Psicoanalisi e pedagogia

(1909) Introiezione e transfert

(1912a) Il concetto di introiezione

(1912b) Sintomi transitori nel corso dell’analisi

(1913a) Fasi evolutive del senso di realtà

(1913b) Un sintomo ‘transitorio’. La posizione del paziente durante la seduta

(1919a) La tecnica psicoanalitica

(1919b) Difficoltà tecniche nell’analisi di un caso di isteria

(1919c) Il problema dell’influsso sul paziente nel corso dell’analisi

(1921) Ulteriore estensione della ‘tecnica attiva’ in psicoanalisi

(1924a) Prospettive di sviluppo della psicoanalisi

(1924b) Thalassa. Saggio sulla teoria della genitalità

(1924c) Le fantasie indotte. L’attività nella tecnica dell’associazione

(1926a) Il problema dell’affermazione del dispiacere. Progressi della nozione del senso di realtà.

(1926b) Controindicazioni della tecnica psicoanalitica attiva

(1926c) L’importanza di Freud per il movimento di igiene mentale (in occasione del suo 70° compleanno)

(1927) L’adattamento della famiglia al bambino

(1927-28) L’elasticità della tecnica psicoanalitica

(1929) Il bambino non desiderato e il suo istinto di morte

(1930) L’analisi infantile negli adulti

(1931) Una revisione dell’interpretazione dei sogni

(1932) Il diario clinico

(1920-32) Frammenti e annotazioni

(1933) Confusione delle lingue tra gli adulti e il bambino. Il linguaggio della tenerezza e il linguaggio della passione

L’edizione italiana più completa dei lavori di Ferenczi, recentemente ripubblicata, è edita da Cortina in 4 volumi:

Ferenczi S. Opere vol 1° 1908-1912 (2008)

Ferenczi S. Opere vol 2° 1913-1919 (2009)

Ferenczi S. Opere vol 3° 1919-1926 (2009)

Ferenczi S. Opere vol 4° 1927-1933 (2002)

cui si aggiungono:

Ferenczi S. (1933) Diario clinico. Gennaio-ottobre 1932. Cortina, Milano. 1988

Sigmund Freud, Sándor Ferenczi Lettere 1908-1914 vol. I. Cortina, Milano.1993

Sigmund Freud, Sándor Ferenczi Lettere 1914-1919 vol. II. Cortina, Milano.1998

Ferenczi S. (1899-1908) (a cura di Mészáros J., Casonato M.) La mia amicizia con Miksa Schächter. Scritti preanalitici, Bollati Boringhieri, Torino. 1992

Da qualche anno, un nutrito gruppo di psicoanalisti sta lavorando alla ripubblicazione dell’Opera omnia di Sándor Ferenczi; Franco Borgogno e Peter Rudnytsky ne sono stati nominati General Editors.

Per un elenco completo delle opere italiane e internazionali ispirate da Sándor Ferenczi www.sandorferenczi.org/publications/books-and-articles-inspired-by-ferenczi/#toggle-id-2

NOTE

[1] Freud in Per la storia del movimento psicoanalitico (1914, OSF vol. 7, pag. 407) definì il suo valore pari a quello di un’intera società psicoanalitica e nel Necrologio di Sándor Ferenczi (1933, OSF vol. 11, pag. 320) scrisse che ogni analista può sentirsi suo allievo

[2] Carloni G. (1988) Sándor Ferenczi e la scuola ungherese in Semi A.A. (a cura di) Trattato di psicoanalisi. Cortina, Milano

[3] Borgogno F. (2019) Sándor Ferenczi, psicanalista classico e contemporaneo (con particolare riferimento a transfert e controtransfert). Riv. Psic. LXV, 2, 267-279

[4] Dopo la pubblicazione (1985) del Diario clinico, che contiene appunti e commenti sui pazienti seguiti dal 7 gennaio al 2 ottobre 1932, e della corrispondenza con Freud, iniziata nel 1992 con il primo volume delle lettere, molti europei hanno iniziato ad apprezzare il lavoro dello psicoanalista ungherese che era rimasto, fino ad allora, marginale. Negli stessi anni, gli analisti che, invece, non avevano smesso di ispirarsi alle sue idee e ai suoi lavori hanno avviato le International Sándor Ferenczi Conferences, che dal 1991 si sono svolte con regolarità richiamando sempre maggior interesse sul suo pensiero e sulla sua produzione. Da allora numerose iniziative hanno sostenuto il loro recupero e la loro diffusione (The Ferenczi House project – campagne di raccolta fondi per preservare la casa di Ferenczi a Budapest, The International Sándor Ferenczi Foundation e la fondazione di molte associazioni locali affiliate.

[5] In occasione del suo 50° compleanno (1923), fu dedicato a Ferenczi un numero monografico della “Internationale Zeitschrift für Psychoanalyse”, vol. 9 (3), di cui Freud scrisse l’introduzione mettendo in rilievo la poliedricità della sua produzione scientifica (Il dottor Sándor Ferenczi; per il cinquantesimo compleanno OSF vol. 9 pag. 580) e sempre Freud iniziò a curare la raccolta dei suoi articoli pubblicati in 4 volumi tra il 1927 e il 1939 con il titolo Fondamenti di psicoanalisi. Inoltre, fu chiesto a Ferenczi di scrivere a Freud gli auguri per il suo 70° compleanno il 6 maggio 1926

[6] Curatore con Egon Molinari della traduzione italiana di Fondamenti di Psicoanalisi in cinque volumi suddivisi per tematiche (Guaraldi, 1972-75) e della traduzione dal francese delle Opere complete curate da Balint, in quattro volumi suddivisi per periodi (Cortina, 2002-09).

[7] Dopo il passaggio avvenuto nel Congresso di Madrid del 1997, Franco Borgogno è rimasto il principale allievo di Ferenczi; ha fondato insieme a Carlo Bonomi l’Associazione Culturale Sándor Ferenczi www.ferenczi.it di cui è l’attuale Presidente, membro dell’International Sándor Ferenczi Network www.sandorferenczi.org ed è autore di numerosi articoli e saggi, oltre che curatore di libri collettanei dedicati all’analista ungherese.

Ferrari Armando Blanco
Ferrari Armando Blanco

Ferrari Armando Blanco

Armando B. Ferrari

I maestri della psicoanalisi

A cura di Riccardo Lombardi  

La vita

Armando Blanco Ferrari (1922-2006), nato in Canada da genitori italiani, è cresciuto in Italia sino all’adolescenza. Dopo aver partecipato da giovane al movimento antifascista e alla Resistenza finendo in carcere per la sua attività politica, è partito per il Brasile nel 1947, completando la sua formazione di antropologo e diventando professore di sociologia all’università di San Paolo del Brasile. La sua formazione analitica è stata segnata dall’incontro con analisti di diverse impostazioni, dalla sua prima analisi personale con Henrique Scholloman, freudiano formatosi a Vienna, poi con Virginia Bicudo, la prima analista brasiliana ad avere avuto una formazione Kleiniana a Londra e la prima autrice brasiliana a pubblicare sull’International Journal of Psychoanalysis, ed infine con Frank Philips, l’analista che portò l’approccio di Bion in Brasile e che invitò Bion stesso a tenere i suoi seminari brasiliani.

Ferrari è stato training analyst della Società Psicoanalitica di San Paulo, partecipando alla formazione dell’istituto di psicoanalisi a Brasilia.  Come antropologo ha effettuato quattro spedizioni antropologiche solitarie presso le tribù amazoniche del Mato Grosso per studiarne i rituali di morte: dati poi rielaborati nel contesto della sua ricerca psicoanalitica sull’istinto di morte (Ferrari 1967, 1968).

Formato dall’insegnamento di Bion in Brasile, si è trasferito in Italia dalla seconda metà degli anni ’70 per un progetto di studio interdisciplinare sulla relazione analitica con il filosofo Emilio Garroni, decidendo, differentemente da un altro analista immigrato dal Sud America come Matte Blanco, di non diventare analista di training in Italia.  In occasione delle Giornate di Studio sull’opera di W. R. Bion” della S.P.I. (Roma 27-28 marzo 1981), pubblicate in un numero speciale della Rivista di Psicoanalisi (1981, 27, 3-4), Ferrari non fu invitato, malgrado fosse all’epoca l’unico psicoanalista residente in Italia ad esser stato clinicamente formato a lavorare con il suo approccio.

Pur essendo, insieme con autori come Matte Blanco, Fornari e Gaddini, una delle personalità psicoanalitiche più rilevanti presenti in Italia negli ultimi cinquant’anni, il contributo di Ferrari appare ancora non integrato nel panorama scientifico della Società Psicoanalitica Italiana, essendo questo un contesto maggioritariamente condizionato dalla politica istituzionale, da cui Ferrari, dopo il suo arrivo in Italia, aveva deciso di restare fuori. Anche più recentemente si registra l’assenza di uno scritto firmato da Ferrari nel recente volume su ‘Readings Italian Psychoanalysis’ (Borgogno, Luchetti & Marino 2016), che ha l’intento di presentare la tradizione psicoanalitica italiana al lettore di lingua inglese, anche se alcuni suoi concetti inerenti la relazione corpo-mente sono ivi testimoniati attraverso il mio contributo ‘Primitive Mental States and the Body’ (Lombardi 2002).

 

Il contributo alla Psicoanalisi

– La Relazione Analitica

Collaborando con il filosofo Emilio Garroni, una delle figure chiave della filosofia italiana recente, Ferrari ha studiato le potenzialità di ricerca offerte dalla Relazione Analitica, valorizzando il contributo di entrambi i ‘co-autori’ di tale relazione, facendo perno sui suoi processi di significazione che passano nella comunicazione verbale in analisi e sugli elementi invariantivi che se ne possono ricavare (Ferrari & Garroni 1979).  In un’epoca anteriore ai contributi di autori come Mitchell e Renik. la psicoanalisi è concepita negli scritti relazionali di Ferrari in un’ottica intersoggettiva, costruttivista e processuale: una nuova esperienza di andare dentro sé stessi, nella misura in cui si è capaci di andarci con l’altro (Ferrari 1981).

Costruttività delle singole relazioni analitiche ed invarianza degli elementi hanno portato più tardi Ferrari a formulare l’ipotesi de L’Eclissi del corpo (Ferrari 1992), o più precisamente eclissi dell’Oggetto Originale Concreto (O.O.C.): tale ipotesi si declina anche nei successivi due volumi italiani (1994, 1998), ma è stata poi raccolta in un unico volume nell’edizione inglese (Ferrari 2004). Per il nostro autore dalla messa in ombra degli incandescenti stimoli sensoriali del corpo deriva in modo determinante la possibilità di realizzare un’alba del pensiero: in questo modo egli offre un originale status metapsicologico al corpo nel contesto di una teoria psicoanalitica, dove tale status praticamente non esiste, perché il ruolo del corpo è concepito essenzialmente in funzione del suo successivo trasformarsi in pensiero e del suo ‘partecipare alla conversazione’ (Lombardi 2002).

     – Il Corpo

Collocandosi ai margini di una concezione della psicoanalisi centrata sul mentale, Ferrari riscopre in una nuova chiave le rivoluzionarie intuizioni freudiane sulle ‘necessità di lavoro’ (‘Arbeitsanforderungen’) che legano il corpo e la mente (Freud 1915) e quelle che vedevano nell’autoerotismo una precondizione per uno sviluppo verso il narcisismo e le dinamiche oggettuali.  Egli riformula le ipotesi di Bion (1957) di area psicotica e non psicotica nei termini di aree entropica e neghentropica, riferendo la tendenza alla disorganizzazione non ad elementi primariamente distruttivi, ma alla forza disorganizzante delle sensazioni originarie. Partendo da questo vertice il focus del lavoro clinico viene orientato sul livello sensoriale e sui cosiddetti ‘livelli mentali primitivi’, valorizzando l’esperienza di un corpo e di sensazioni che sono in attesa di trovare corrispondenza con le rappresentazioni mentali: la nascita della rappresentazione mentale è poi essenziale per permette il distanziamento e il contenimento del primordiale dilagare caotico delle sensazioni, altrimenti incontenibile.

Il passaggio dal corporeo al mentale è facilitato dalla presenza di una madre dotata di reverie, ma non si caratterizza per l’introiezione dell’oggetto materno, come nel modello di Melanie Klein (1952), perché le prime forme di contenimento restano essenzialmente un dato interno al bambino. Sembra che in questo modo Ferrari dia un’enfasi primariamente intra-personale al modello topologico della relazione contenitore-contenuto proposta da Bion (1970), lì dove altri autori post-bioniani hanno enfatizzato il valore di questo stesso concetto soprattutto sul versante relazionale esterno, identificandolo come controparte e modello inconscio del concetto di ‘attaccamento’ proposto da Bowlby e dalla psicologia cognitiva dello sviluppo infantile (cfr Grotstein, 2007, 154 e seg). Le ipotesi di Ferrari cercano di cogliere i fenomeni correlati alla nascita del pensiero nelle fasi più precoci, ma al tempo stesso fotografano una condizione interna che resta operativa per tutto il corso generale della vita, dal momento che la pressione etologica del corpo non perde mai la sua forza primitiva ed i processi di trasformazione delle sensazioni in pensiero non cessano mai di presentare connotati ardui e altamente drammatici.

         

        – La rete di contatto corpo-mente

Il punto di confronto clinico elettivo di Ferrari è il cosiddetto ‘analizzando con difetto di pensiero’ (Bion) e i pazienti ‘difficili da raggiungere’ (Joseph), per cui egli propone strumenti come la rete di contatto e i registri di linguaggio, orientati a catalizzare i primi movimenti di autocoscienza, centrando sugli accadimenti che si realizzano all‘interno del paziente, anche se in parallelo con gli eventi relazionali (Ferrari e Stella 1998).  In linea con il vertice inaugurato da Bion, egli inoltre guarda al problema dell’identità e dell’Edipo privilegiando il piano dell’organizzazione attuale degli scenari interni, piuttosto che il piano storico ricostruttivo.

Il livello interno che compete alla relazione corpo-mente viene chiamato da Ferrari relazione verticale, mentre il dato esterno inerente la reazione madre-bambino è denominato relazione orizzontale: queste relazioni sono parallele e complementari e si influenzano a vicenda. La relazione con il corpo resta in ogni caso la relazione primaria che fonda la soggettività ed il pensiero, mentre la funzione primaria della mente è quella di fornire contenimento a sensazioni ed emozioni, che, per loro natura, possono essere soltanto essere sperimentate.

In tal modo l’enfasi di Ferrari si pone proprio su quell’esperienza, che Bion (1962) aveva identificato come il motore centrale della crescita della mente. Se per quest’ultimo il fallimento ad usare l’esperienza emozionale ha conseguenze disastrose e paralizzanti per la mente, Ferrari radicalizza la posizione di Bion vedendo nella relazione con il corpo una componente stabilmente irrinunciabile per l’attivazione del pensiero. Questa prospettiva appare particolarmente funzionale ai cosiddetti pazienti gravi, in cui traspaiono evidenti i tratti del marasma sensoriale corporeo originario; al tempo stesso può esser utile all’approccio agli analizzandi che non trovano soddisfazione nella vita perché non si accorgono che mancano di un dialogo con il proprio corpo.

Il problema della relazione corpo-mente non è circoscritto da Ferrari al campo della cosiddetta ‘psicosomatica’, ma riflette i problemi basici del funzionamento mentale che si manifestano, con sfumature diverse, in tutti i campi di competenza psicoanalitica, in particolare in quelli ‘di frontiera’, in cui la funzione mentale è esposta a rischio di collasso ed agiti catastrofici.  La necessità di una stretta continuità tra corpo e mente, chiamati significativamente da Ferrari Uno e Bino – in continuità con il ‘Pinocchio uno e bino’ di Emilio Garroni (1975) – implica elementi di novità sul piano della tecnica psicoanalitica e riserva rilevanti conseguenze in vari contesti, come accade nelle situazioni cliniche che mostrano una precaria attivazione dell’auto-coscienza.

 

 

– L’Adolescenza

Particolare oggetto di studio per Ferrari (1994) è l’adolescenza, concepita come la ‘seconda sfida’ – dopo la prima sfida della ‘nascita psicologica’: in entrambe queste sfide il corpo incontra in modo determinante la mente. Mentre nell’infanzia la mente si è presentata al corpo per operare il contenimento della spinta marasmatica delle sensazioni fisiche, durante l’adolescenza è il corpo che si presenta all’attenzione della mente, in virtù della pressione della spinta biologica e dei cambiamenti fisici. La pressione del corpo verso la crescita e l’assunzione dei nuovi connotati adulti può essere così forte tanto che il corpo diventa un estraneo e l’adolescente teme di non poter reggere l’impatto delle sue trasformazioni: il corpo si pone non a caso come carico di elementi sconosciuti e fonte fonte di disagio ed imbarazzo. L’adolescenza è allora concepita come il periodo della vita in cui il conflitto corpo-mente assume i connotati più acuti, sollecitando un’elaborazione che getta le basi per la maturità futura o, al contrario, per i successivi squilibri interni.

Ferrari preferisce non parlare di ‘patologia adolescenziale’, perché insiste sulla mobilità della fenomenologia di quest’età della vita e sulla necessità di non farsi sviare dalle abituali categorie psicopatologiche: egli è convinto che anche le forme più acute di disagio possano essere superate in analisi grazie alla mobilità caratteristica di questa età, offrendo un decisivo contributo alla costruzione dell’uomo adulto.  Per l’analista l’adolescenza si pone come un campo difficile, perché gli richiede una particolare capacità di contenimento di fronte a modi comunicativi connotati dalla provocazione e dall’azione.

– La morte e il tempo della vita

L’ultimo libro di Armando Ferrari è ‘Il pulviscolo di Giotto’ (2006), dedicato al problema psicoanalitico del tempo e all’approccio clinico ai pazienti terminali confrontati con la morte, che sposta il punto di vista freudiano dell’istinto di morte, enfatizzando il problema della relazione con la vita in presenza della minaccia incombente della morte. Un orientamento mentale che valorizza il tempo attuale permetterebbe di creare condizioni di vivibilità anche nei pazienti che hanno consapevolezza di un termine prossimo della propria esistenza. Il valore del tempo viene quindi ‘assolutizzato’ nel suo’ essere presente’, piuttosto che una dimensione nutrita di speranze e di promesse future.

Conclusioni

Il contributo psicoanalitico di Armando Ferrari, pur essendo fortemente marcato dalla dimensione relazionale, mette l’accento sui problemi posti dall’organizzazione del pensiero – non diversamente da come accade nell’approccio di Matte Blanco (Lombardi 2000)- e sui conflitti interni alla relazione corpo-mente: un approccio atipico rispetto a una cultura psicoanalitica attuale centrata sulla relazione oggettuale e sulle peripezie dell’intersoggettività. Il suo contributo può essere recepito come disturbante perché chiede agli analisti di pensare da un vertice differente rispetto a quelli con cui si è abituati a pensare (Mancia 1995). Tale vertice può essere avvertito come disturbante per la sua tendenza a marginalizzare le interpretazioni di transfert, considerate in genere come ‘marchio di fabbrica’ dell’autenticità della psicoanalisi, e per la sua tendenza a ridimensionare il ruolo dell’introiezione dell’analista come ‘oggetto’ chiave nel funzionamento dell’Io: una introiezione che funziona come baluardo di istituzioni psicoanalitiche, il cui funzionamento è caratterizzato dal potere, dall’affiliazione e dal proselitismo (Renik 2006, Lombardi 2006). Le ipotesi di Armando Ferrari meritano, non di meno, di essere approfondite e studiate dall’analista praticante e dalle nuove generazioni: esse possono indirizzare la ricerca ed essere di grande aiuto nel trattamento dei cosiddetti casi gravi, come ho mostrato in alcuni miei libri (Lombardi 2016, 2017). Esse sono particolarmente attuali per il trattamento di quegli analizzandi incapaci a sentirsi vivi o di quelli connotati da forme di pensiero concreto: esse facilitano l’avvicinamento di condizioni spesso considerate ‘non analizzabili’ come le psicosi, le gravi inibizioni, i disturbi del comportamento alimentare e tutte quelle fenomenologie che vedono il corpo in primo piano.

Bibliografia

 

BION, W.R. (1957). Differentiation of psychotic from the non-psychotic personalities. In Second Thoughts.
 London: Karnac 1967.

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BORGOGNO.F, LUCHETTI, A, MARINO COE, L (2106). Reading Italian Psychoanalysis. London, Routledge.

FERRARI, AB

____________ (1967), Instinto de morte. Contribuição para uma sistematização de seu estudo, Revista Brasileira de Psicanálise, v. 1 nº 3, 1967 p. 324 a 350.

____________ (1968), Instinto de morte. Contribuição para uma sistematização de seu estudo / 2ª parte. Revista Brasileira de Psicanálise, v. 1 nº 4, 1968 p. 487 a 526.

____________ (1983). Relazione analitica: sistema o processo? Rivista Psicoanal., 29:476-496

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FERRARI, AB & GARRONI, E (1979). Schema di progetto per uno studio della “relazione analitica”. Rivista di Psicoanalisi 25: 282-322.

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FREUD, S (1915). Metapsicologia. Pulsioni e loro destini. OSF 7.

GARRONI, E (1975). Pinocchio uno e bino. Bari, Laterza.

GROTSTEIN, JS (2007). A beam of intense darkness. Wilfred Bion’s legacy to Psychoanalysis. London, Karnac.

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LOMBARDI, R (2000). Corpo, affetti, pensieri. Riflessioni su alcune ipotesi di I.Matte Blanco e A.B.Ferrari. Rivista di Psicoanalisi 46, 4, 683-706.

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________ (2006). Passioni e conflittualità nelle istituzioni psicoanalitiche. Rivista di Psicoanalisi, 52, 1, 191-212.

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MANCIA, M. (1994). Recensione di “L’Eclissi del Corpo” di A.B. Ferrari.  Int. J. Psychoanal. 75: 1283- 1286.

RENIK, O. (2006), “An analyst questions the self-perpetuating side of therapy”. Intervista di Benedict Carey. New York Times, 10 ottobre. http://www.nytimes.com/2006/10/10/health/psychology/10conv.html

Filiazione

A cura di Chiara Rosso

Potremmo definire la Filiazione, dal latino filius “esser figlio” come un termine che accomuna il diritto, l’antropologia e la psicoanalisi e designa le regole in virtù delle quali un individuo acquisisce la sua identità sociale iscrivendosi in un processo di trasmissione di tipo patrilineare o matrilineare. Nella sua accezione originaria, la filiazione riguarda i sistemi di parentela e si struttura sulla base della differenza dei sessi e delle generazioni.(Roudinesco,1997)

FILIAZIONE IN PSICOANALISI

La Filiazione si intreccia col processo identitario dell’individuo, legando insieme il piano biologico con quello simbolico. Allo psicoanalista francese Guyotat(1980) dobbiamo uno studio approfondito dei molteplici aspetti della Filiazione. La filiazione istituita (o giuridica) è socialmente e culturalmente costruita e rappresenta l’ articolazione simbolica in cui l’individuo si colloca nella catena generativa, rispetto agli ascendenti ed ai discendenti. La filiazione immaginaria e narcisistica invece ha a che vedere con una dimensione psichica e fantasmatica che coinvolge il vissuto personale dell’individuo e il suo inserimento nella rete di relazioni presente fin dalla nascita. Infine una terza dimensione è quella della filiazione da corpo a corpo che indica il legame corporeo tra il genitore e il figlio. Quest’ultima dimensione, rispetto alle logiche del legame di filiazione, si situa sul versante del legame con la madre mentre la filiazione istituita su quello del legame col padre inglobando l’area più generale del ‘principio paterno’. Con l’avvento delle nuove frontiere procreative che separano l’atto sessuale da quello fecondativo, si assiste alla diffrazione del processo di concepimento e la filiazione che ne deriva si costituisce come una “rappresentazione biomedica del legame tra parti del corpo e prodotti del corpo” (Zurlo, 2013,5). La fecondazione eterologa ad esempio pone un problema complesso che sfocia su di una situazione ibrida; il sistema di filiazione in questo caso non appartiene né interamente a quella istituita basata sul legame biologico, dal momento che uno dei due genitori biologici è esterno alla coppia, né si struttura come indipendente da essa (come nell’adozione ) poiché il legame biologico non può essere negato né affermato od ancora ignorato per entrambi i membri della coppia .In questo modo la filiazione istituita entra in crisi e ciò è testimoniato anche dalle oscillazioni delle sentenze e dei provvedimenti in campo giuridico (frequenti le cause di disconoscimento di paternità) dove spesso si delega al magistrato prima che al legislatore il compito di introdurre nuove normative onde regolamentare un campo in divenire. Quando la filiazione istituita dunque, non riesce a render conto di quella biologica si crea una situazione di rischio psicologico e come osservano diversi Autori, la presenza di anomalie a livello della filiazione istituita si ripercuote in quella fantasmatica ed immaginaria, accentuandone la dimensione narcisistica. Nota infatti Zurlo :“Il sistema simbolico della filiazione rende pensabile e dicibile ciò che riguardo le origini e la morte, costituisce l’indicibile. Alle situazioni di anomalia della filiazione istituita, quindi corrisponde un vuoto di pensiero e di simbolizzazione che trova espressione sia a livello collettivo che individuale” (ibid.,59). La problematicità che investe la filiazione a seguito delle nuove tecniche di procreazione assistita costituisce un campo in parte inesplorato, oggetto di studi e riflessioni. Per capire il lavoro di elaborazione richiesto a livello individuale, sottolinea ancora Zurlo : “ (…)è necessario interrogarsi sulle fantasie che precedono e sono sottese al concepimento con tale procedimento.”(61) E’ dunque utile dirigere l’attenzione sugli aspetti narcisistici della filiazione e sulla evoluzione della tematica del desiderio in cui la filiazione si iscrive. Come già sottolineava Freud (1914) relativamente al narcisismo del bambino inteso come prolungamento del narcisismo del genitore, possiamo osservare come il bambino si collochi nella catena generazionale come il frutto del desiderio dei genitori. L’investimento narcisistico nei confronti della prole costituisce le basi dell’ individualità e ne garantisce lo sviluppo armonioso. Questi aspetti rinviano al concetto di contratto narcisistico della psicoanalista francese P. Aulagnier (1975)

PSICOPATOLOGIA DEL LEGAME DI FILIAZIONE

Guyotat sottolinea come il disturbo del legame di filiazione si possa realizzare sia nei confronti degli ascendenti che in quello dei discendenti. Nel primo caso annoveriamo ad esempio il delirio di filiazione in cui la persona sostituisce i propri genitori reali con dei genitori immaginari illustri. Nel 1910 gli psichiatri francesi Serieux e Capgras dettero il nome di “interpretatori filiali” a questo tipo di pazienti. Freud si occupò dell’argomento a proposito del Romanzo famigliare dei nevrotici (1909) e nel Caso clinico del Presidente Schreber (1911). Le psicosi puerperali possono invece essere considerate come un delirio di filiazione proiettato sulla discendenza. La madre non si figura di partorire un bambino reale ma bensì un doppio di sé stessa, grandioso e pericoloso al tempo stesso e il bambino immaginario si sovrappone e si sostituisce a quello reale.
FILIAZIONI PSICOANALITICHE

Nella storiografia freudiana Il tema della Filiazione si inscrive nella trasmissione del sapere psicoanalitico dal maestro all’allievo attraverso l’analisi personale o didattica. La filiazione psicoanalitica ripropone una sorta di sistema di parentela poiché la comunità psicoanalitica è paragonabile ad una famiglia patriarcale. Nel 1927, Ferenczi fu il primo ad interessarsi all’analisi degli analisti affrontando la tematica della fine dell’analisi mentre Balint approfondì il processo di formazione degli analisti . Il termine specifico di Filiazione venne introdotto nel corso di un seminario aperto ( Filiations, l’avenir du complexe d’Oedipe 1974-1975) da Granoff , psicoanalista francese di origini russe, influenzato da Ferenczi. La Filiazione psicoanalitica che si sviluppa tra analista e candidato assume una dimensione particolare poiché implica la presenza sul piano transferale e controtransferale di processi consci ed inconsci di grande intensità che, a seconda del grado di elaborazione, influenzano sia il presente che il divenire del futuro analista. Ad un livello istituzionale invece, la natura esplosiva di questi processi qualora essi non siano stati sufficientemente analizzati , sfocia su attitudini di disaccordo, fratture o ancora di atteggiamenti caratterizzati da eccessive lealtà. La funzione dell’IPA ( Associazione Psicoanalitica Internazionale) esprime a tal proposito la necessità di esercitare un ruolo di sostegno e di mediazione tra i vari gruppi locali, all’interno della comunità psicoanalitica.(De Mijolla, 2002, Napolitano 1999)

BIBLIOGRAFIA

Aulagnier P. (1975). La violence de l’interprétation. Du pictogramme à l’énoncé. Paris, PUF.
Balint M.(1948) On The Psychoanalytic Training System. Int.J.Psycho-Anal., XXIX,p.163-173. Trad.it.: Il sistema didattico in psicoanalisi. In: L’Analisi didattica in psicoanalisi (a cura di Gino Zucchini). Rimini, Guaraldi, 1975,p.17-47.
De Mijolla A.(2002) Dictionnaire International de Psychanalyse. Paris, Calmann-lévy.
Ferenczi S. (1927)Il problema del termine dell’analisi. In: Opere vol.IV, Milano, Raffaello Cortina,2002, p.14-22.
Freud S.(1909) Il romanzo familiare dei nevrotici. O.S.F.,5.
Freud S.(1911) Caso clinico del presidente Schreber. O.S.F.,6.
Freud S.(1914) Introduzione al narcisismo.O.S.F.,7.
Granoff W(19759. Filiations. Paris, Minuit,1975.
Guyotat J. (1980) Mort, naissance et filiation. Etudes de psychopathologie sur le lien de filiation.Paris, Masson.
Napolitano F.(1999)La filiazione e la trasmissione nella psicoanalisi.Sulla consegna transgenerazionale del sapere.Roma, Franco Angeli.
Roudinesco E. Plon M. (1997) Dictionnaire de la Psychanalyse.Paris, Fayard.
Zurlo M.C (2013)La filiazione problematica. Saggi psicoanalitici (a cura di).Napoli, Liguori.
Ottobre 2014

Fobia scolare

A cura di Manuela Moriggia

La fobia scolare è un disturbo caratterizzato dalla paura, irrazionale e non controllabile, di andare e/o restare a scuola. I bambini e gli adolescenti che ne soffrono presentano un livello d’ansia tale da compromettere significativamente la regolare frequenza scolastica. Tale disturbo non ha una sua categoria nosologica specifica all’interno del DSM. La sua insorgenza sembra spesso immotivata in quanto si tratta, nella maggior parte dei casi, di ragazzi intelligenti e studiosi con buona resa scolastica. Il manifestarsi di tale fobia rappresenta solitamente un segnale d’allarme particolarmente rilevante, che non va mai sottovalutato, perché può essere il sintomo di una sottostante struttura psicopatologica in procinto di scompensarsi.

Molti ragazzi che non riescono a frequentare la scuola mostrano delle difficoltà anche nell’affrontare altre situazioni della propria vita; in particolare soffrono di un disturbo di tipo narcisistico, presentando un’idealizzazione del Sé e desiderando in generale alti rendimenti, a livello scolastico in primis ma anche in altre attività (ad es. sport e hobby). Ambiscono ad essere speciali, ad essere sempre “i primi”; hanno un atteggiamento competitivo verso gli altri e pensano che a scuola si debba rendere al meglio, vivendo con ansia ogni prova. Non riescono a vivere la scuola come un luogo in cui condividere delle esperienze con i compagni e dove si possa usufruire della solidarietà degli altri per affrontare situazioni difficili.
In tutti è presente un forte senso di vergogna, legato al timore di non essere percepiti come persone “ideali”, che non deludono mai; pensano infatti che se non saranno sempre “ideali”, “perfetti”, non avranno alcun valore. Proprio a causa di tali caratteristiche la vita scolastica è per loro molto faticosa; in ogni fase di apprendimento ritengono di dover imparare tutto il possibile immediatamente, non riuscendo ad accettare la gradualità nell’apprendimento stesso.
Il meccanismo scolastico, basato su regole, verifiche e confronti, sottopone questi ragazzi ad una costante frustrazione delle proprie aspettative, cioè ad una ferita narcisistica; quando ciò accade, sono pervasi da un’angoscia catastrofica, che impedisce loro di pensare e di agire; non solo non riescono ad andare a scuola ma, molto spesso, non riescono ad uscire da casa ed arrivano a patire anche un isolamento sociale, in quanto, temendone il giudizio, non vogliono più frequentare amici e conoscenti. La casa diventa quindi simbolo di protezione, luogo privilegiato in cui rifugiarsi, proprio perché la realtà esterna è diventata inaffrontabile e spaventosa.
Nella mente di tali ragazzi, quando non riescono più a frequentare la scuola ed a mantenere un contatto con il mondo reale, prende il sopravvento una realtà virtuale, falsificata (quella dei film e dei videogiochi), all’interno della quale essi si sentono gratificati e competenti. La realtà alternativa, utilizzata come rifugio contro l’angoscia, era certamente già presente anche prima che si manifestasse la fobia scolare, ma è solo quando i ragazzi non riescono più ad andare a scuola che tale mondo ritirato rischia di trasformarsi nell’unico mondo possibile; la fobia scolare infatti può evolvere, anche se raramente, in una psicosi con dissociazioni e deliri persecutori.

A livello di struttura familiare si tratta normalmente di famiglie in cui si crea un’innaturale riduzione della distanza intergenerazionale, genitori che perdono il loro ruolo presso i figli e figli che tendono a non riconoscere l’autorevolezza dei genitori. Madre e padre tendono a proiettare le proprie esigenze narcisistiche sui figli, diventando critici e, a volte, apertamente aggressivi, quando i figli non raggiungono più i risultati auspicati nelle varie attività intraprese, scuola compresa. L’atteggiamento ambivalente verso i figli, a volte adorati come bambini ideali ed a volte denigrati, non favorisce lo sviluppo di un’autonomia emotiva e di pensiero. Nella maggior parte dei casi i genitori inizialmente “esaltano” il proprio figlio, proprio perché, fin da piccolo, è sempre stato bravo, coscienzioso, educato e intelligente, prestandosi quindi ad essere considerato il “figlio ideale”; successivamente, con la comparsa della fobia scolastica, di bugie per nascondere le difficoltà e di accessi di rabbia, i genitori cadono in uno stato di panico e di confusione che altera completamente gli equilibri familiari.

Per quel che riguarda l’evoluzione del concetto di fobia scolare, notiamo che, mentre la teoria cognitivo-comportamentale ha cercato di approfondirlo e ha messo a punto alcune modalità per un assessment che permetta d’individuarne i fattori scatenanti, il pensiero psicoanalitico si è occupato solo marginalmente di tale disturbo.
Anna Freud è una delle autrici che ha trattato questo argomento (“L’Io e i meccanismi di difesa”, 1936 e “Scritti”, vol. II, 1957). L’autrice ritiene che le fobie siano generate dalla difficoltà a superare l’ambivalenza edipica (amore-odio verso il genitore dello stesso sesso) durante la fase genitale. Uno dei casi che possiamo prendere ad esempio di fobia scolare è quello del “bambino con il berretto” (1936), così definito perché non poteva separarsi da un berretto che gli ricordava il cappello del padre, verso il quale nutriva una grande gelosia: il piccolo paziente, durante una seduta, decide di smettere di colorare un album da disegno proprio quando il confronto con le capacità dell’analista, nell’eseguire il medesimo compito, gli fanno pensare di non avere eseguito una coloritura perfetta; il bambino resta frustrato dal confronto e decide di non competere più con l’analista in modo da evitare il ripetersi della spiacevole sensazione di fallimento. Ugualmente, quando comincia ad andare a scuola egli si rifiuta di partecipare a lezioni nelle quali non si sente sicuro di sé e si ritira dalle attività che possono procurargli quel tipo di dolore. A. Freud ritiene che il bambino soffra di un conflitto edipico irrisolto: ogni qualvolta una persona ha un successo maggiore del proprio, significa che tale persona ha degli organi genitali più grandi dei propri e che quindi gli fa sperimentare nuovamente la cocente gelosia edipica verso il padre. Il meccanismo di difesa della fobia scolare consisterebbe perciò nell’allontanamento del conflitto edipico dalla famiglia e dal suo “spostamento” sulla scuola, un sostituto più accettabile. Il continuo rifiuto delle attività in cui c’è un confronto che può procurare angoscia, limita sempre di più le funzioni dell’Io e ne compromette ampiamente lo sviluppo. L’autrice ritiene che quando l’Io diventa rigido, e utilizza in modo ossessivo la fuga come meccanismo di difesa, si generi un vero e proprio deficit di sviluppo dell’Io.

Più recentemente sono René Diatkine ed Eric Valentin (“Trattato di psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza”, 1985) ad approfondire tale concetto. Essi affermano che le fobie scolari della fine del periodo di latenza e dell’adolescenza pongono problemi di natura totalmente differente rispetto alle fobie infantili in genere; distinguono i ragazzi che ne soffrono da quelli perfettamente scolarizzati, che non sono intenzionati a studiare non avendo alcun interesse per le materie di studio e che per tale motivo disertano la scuola.
Nel caso dei ragazzi con fobia scolare il quadro è molto più complesso e gli autori ne descrivono quattro possibili evoluzioni focalizzando l’attenzione sul fatto che non si tratta mai di un sintomo “fugace o benigno”.
Il primo tipo di evoluzione, quella più grave ma fortunatamente numericamente poco consistente, evolve verso la schizofrenia, manifestando dissociazione e delirio paranoide.
Il secondo tipo di evoluzione analizza degli adolescenti che sembrano essere incapaci di qualsiasi compromesso con i propri desideri: tali ragazzi vengono considerati come psicotici (“caso limite”, “borderline”), ma non presentano dissociazioni o deliri. Gli autori mettono in evidenza una relazione familiare estremamente problematica, preesistente alla comparsa della fobia scolare e da questa esacerbata, caratterizzata da ambivalenza e da messaggi contraddittori sia da parte dei genitori che dei figli; viene evidenziato il fatto che l’adolescente non più capace di andare a scuola, in precedenza aveva solo apparentemente uno sviluppo armonico, ma che ad un esame più attento l’adattamento alla realtà era solo apparente ed erano già presenti angosce importanti. Concludendo il secondo tipo di evoluzione gli autori rimarcano che il ragazzo resta a casa, trovando una nuova organizzazione che non gli crea alcuna inquietudine, ma che diventa un nuovo modo di vivere in funzione del principio di piacere.
Il terzo tipo di evoluzione, quella più diffusa, ha un esordio simile a quella dei precedenti gruppi ma è caratterizzata da adolescenti che vivono un’atmosfera depressiva, esacerbata dal fatto che mal sopportano la propria incapacità di affrontare una vita normale, oltre ad un isolamento sociale parzialmente presente. Secondo Diatkine molti di loro non hanno sperimentato nell’infanzia il piacere del funzionamento mentale legato all’investimento del processo secondario.
Il quarto tipo di evoluzione riguarda un piccolo gruppo di ragazzi, nei quali si constatano fobie scolari organizzate come delle vere e proprie isterie di angoscia.

Bibliografia

Freud A.
1936 Das ich und die abwehrmechanismen, Internationaler Psychoanalytischer Verlag, Vienna (trad. it.: L’io e i meccanismi di difesa, Psycho di G. Martinelli & C., Firenze 1997)
1957 “Child observation and prediction of development: a memorial lecture in honor of Ernst Kris”, in The psychoanalytic study of the child, vol. 13 (trad. it. “Osservazione del bambino e previsione dello sviluppo: conferenza commemorativa in onore di Ernst Kris” in Opere 1945-1964, vol. II, Boringhieri, Torino 1991)
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Diatkine R., Valentin E.
1985 “Le phobies de l’enfant et quelques autres formes d’anxiété infantile”, in Lebovici S. Diatkine R. Soulé M.(a cura di) Traité de psychiatrie de l’enfant e de l’adolescent, vol. II, Presses Universitaires de France, Paris (trad. it. “Le fobie del bambino e altre forme di ansia infantile”, in Trattato di psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, Borla, Roma 1990)

Novembre 2014

Fobie
Fobie

G. Kieffe, La madre di tutte le fobie - 1923

A cura di Laura Contran

Definizione

Il termine fobia deriva dal greco phóbos – paura – e indica timore irrazionale e incontrollabile di un oggetto o di una situazione sentita come minacciosa in assenza di un reale pericolo.

Dal punto di vista etimologico la paura riferita a un particolare oggetto definisce il sintomo specifico: l’agorafobia significa paura degli spazi aperti, la claustrofobia paura dei luoghi chiusi, la zoofobia paura degli animali, l’eritrofobia paura di arrossire, la rupofobia paura dello sporco (per citarne solo alcune tra le più note). Le fobie hanno inoltre uno stretto legame con il sentimento dell’angoscia e con gli attacchi di panico.

Storia del concetto

La fobia è una nozione prettamente psicoanalitica. Freud ne parla per la prima volta nel 1894 tracciando peraltro una distinzione tra le normali paure, anche se accentuate (del buio, della morte, delle malattie, della solitudine), e le fobie intese come formazioni sintomatologiche.

Le fobie possono presentarsi in forma mutevole o fissa, essere transitorie (come accade di frequente nell’infanzia) o invece croniche, e condizionare in modo più o meno invalidante la vita di una persona a causa  delle restrizioni che esse “impongono”.

Vari tipi di fobie o tratti fobici possono inoltre manifestarsi in quadri psicopatologici anche molto diversi tra loro (nevrosi, psicosi, stati limite).

Freud differenzia innanzi tutto le fobie dalle ossessioni (1894b) in quanto queste ultime hanno un carattere compulsivo assente nelle fobie e sono riconducibili a un pensiero o a un ricordo spiacevole o traumatico. Nell’ossessione, infatti, lo stato affettivo è giustificabile in quanto è possibile risalire “all’idea originaria” associata a una condizione emotiva (ansia, dubbio, timore, collera, colpa) ritenuta “intollerabile” per l’Io e che viene quindi sostituita difensivamente da un’altra più compatibile seppure incongrua. Tra le varie osservazioni cliniche riportate da Freud, un caso letterario famoso è quello di Lady Macbeth, celebre personaggio shakespeariano: il rimorso per la sua infedeltà coniugale e la “purezza morale” perduta la costringono a lavarsi continuamente le mani nel tentativo di scacciare il ricordo del suo tradimento.

Un altro elemento fondamentale che contraddistingue la fobia rispetto all’ossessione è il sentimento dell’angoscia.

Nella prima teorizzazione freudiana, infatti, la fobia è la manifestazione psichica più frequente che accompagna l’isteria d’angoscia (1894a) (contrapposta all’isteria di conversione in cui l’angoscia “libera” cioè slegata da una rappresentazione si trasforma in sintomi somatici). Nell’isteria d’angoscia un accumulo di eccitamento o di affetto (libido) legato a una rappresentazione angosciante (“idee incompatibili”) di natura sessuale si sposta su un oggetto o una situazione esterna dando così origine alla fobia che funge da “costruzione protettiva”. Così, ad esempio, l’agorafobia può rappresentare il tentativo di eludere avventure sessuali o “situazioni sessualizzate” nelle quali una persona può cedere ai propri desideri o impulsi. L’Io reagisce come se il pericolo provenisse dall’esterno mentre l’insorgenza dell’angoscia può essere in una certa misura controllata a condizione che vengano attuate le opportune strategie di inibizione e di evitamento.

Dal punto di vista terapeutico Freud sottolinea che può rivelarsi inutile, se non dannoso, tentare di dissuadere o sottrarre qualcuno alla propria fobia senza conoscerne il significato inconscio: la mancanza della funzione protettiva del sintomo lascerebbe la persona senza difese e quindi esposta all’angoscia e al panico.

Freud affronta più approfonditamente lo studio sulla fobia con il Caso del piccolo Hans (1908).    Hans, un bambino di cinque anni figlio di Max Graf uno tra i primi allievi di Freud non esce di casa perché ha paura di essere attaccato e morso d un cavallo e teme inoltre che il cavallo possa cadere, farsi male e morire. Nel corso del lavoro analitico, condotto dal padre stesso di Hans con la guida di Freud, emergono i sentimenti di rivalità edipica del bambino “innamorato della madre” nei confronti del padre seppure amato e nel tentativo di “sciogliere questo conflitto”, connotato da sentimenti di ambivalenza, si sviluppa la fobia. Il moto pulsionale che soggiace alla rimozione e che provoca l’angoscia è dunque l’ostilità verso la figura paterna che viene sostituita dall’animale-cavallo, oggetto composito di cui Freud sottolinea la polivalenza semantica.

Con il procedere della sua ricerca meta psicologica, Freud giunge a sostenere che il fine ultimo della rimozione è quello di evitare il dispiacere e laddove questo fallisce, a causa di un eccesso dell’ammontare affettivo, si produce una “formazione sostituiva” atta a fronteggiare “il ritorno del rimosso” che si presta particolarmente a spiegare il meccanismo fobico. Nel 1925 nel suo scritto Inibizione sintomo e angoscia Freud rivede la sua teoria e proprio a partire dal caso del piccolo Hans riformula l’ipotesi iniziale: l’angoscia di castrazione-separazione è un’angoscia esterna che rende pericolosi i sentimenti interni che devono essere rimossi. La fobia di Hans, infatti, si era manifestata in concomitanza con le sue prime curiosità e impulsi sessuali (masturbazione) e con la nascita della sorellina di cui era geloso, eventi che lo ponevano a confronto con la differenza sessuale e con la paura di non essere più l’oggetto privilegiato dell’amore della madre.

Freud tuttavia fa un ulteriore passo nel dare al concetto di castrazione un significato più ampio che permette di risignificare i livelli dell’angoscia (di separazione, di perdita di mancanza) a stadi precedenti le vicende edipiche. Il primo distacco, ricorda Freud, è quello del lattante dal seno materno, vissuto come la perdita di una parte importante del proprio corpo (1908) considerata come propria e che in un secondo momento riguarderà la perdita di altri “oggetti” quali ad esempio le feci nel periodo dell’educazione degli sfinteri. Ma ancor prima, ricorda Freud, è la nascita stessa (il trauma della nascita), in quanto separazione dal corpo materno, il prototipo della castrazione.

Tra gli autori post freudiani, Melanie Klein, pur non avendo trattato in modo specifico il tema della fobia, ha tuttavia dato un contributo fondamentale per la comprensione delle nevrosi infantili e, a posteriori, della psicopatologia nell’età adulta. L’autrice colloca la fobia nell’adulto nel quadro più generale dell’angoscia, concetto centrale che percorre il suo pensiero teorico e che si sviluppa intorno alla teoria delle relazioni oggettuali. Secondo Melanie Klein le fobie sarebbero l’espressione nonché la riattualizzazione di angosce primitive che rimandano a meccanismi difensivi precoci risalenti ai primi stadi dello sviluppo dell’Io immaturo. Come già ricordava lo stesso Freud, l’essere umano alla sua nascita viene a trovarsi in una reale (biologica) condizione di impotenza fisiologica nella quale la sua sopravvivenza dipende dalle cure della madre.

Per Klein, dunque, l’angoscia è l’elemento primordiale che determina in senso anticipatorio le vicende edipiche. L’ambivalenza nei confronti dell’oggetto primario (seno-madre) attraversa le varie fasi dello sviluppo psichico dell’infans in cui si alternano pulsioni d’amore e aggressive a seguito delle gratificazioni-frustrazioni derivanti dal rapporto con l’oggetto.  Per Klein la fobia può essere considerata un meccanismo difensivo la cui funzione è quella di evitare una situazione catastrofica per l’Io determinato dall’unione degli aspetti buoni, con quelli cattivi dell’oggetto quando le angosce persecutorie diventano particolarmente intense (Mehler, 1989 ). Alla base delle fobie vi sono sempre angosce persecutorie (che minacciano l’integrità dell’io) e angosce depressive (relative alla paura di danneggiare e quindi di perdere l’oggetto d’amore).

Possiamo affermare che sia per Freud sia per la Klein i processi di internalizzazione ed esternalizzazione costituiscono il punto centrale della fobia, ma mentre Freud evidenzia i meccanismi psichici della sostituzione, dello spostamento, e della deformazione, Klein mette in luce i meccanismo “proiettivi” (e di scissione) che stanno alla base della fobia. Resta comunque che la funzione della fobia è quella di stabilire un confine tra l’interno e l’esterno, di costruire una “barriera psichica” che fa da argine all’angoscia.

Sulla scia di Klein, H. Segal ritiene che lo scopo della fobia è quello di proiettare le fantasie persecutorie e di fissarle in situazioni esterne e quindi evitabili. In un suo lavoro del 1954, descrive il caso di una paziente la cui fobia nei confronti folla e del cibo si manifestava quale reazione a sentimenti di frustrazione nelle relazioni vissuti come vere e proprie minacce di morte e di frammentazione dell’Io.

A partire dalle angosce primitive numerosi autori, (tra cui A. Freud, Winnicott, Fairbain, M. Kahn, Bion, per citarne solo alcuni), seppure con accenti diversi, hanno centrato la loro attenzione sulle prime interazioni del bambino con la madre/ambiente in quanto esperienze fondanti l’organizzazione psichica.

In particolare Winnicott sostiene che un ambiente sufficientemente supportivo e responsivo, in grado di contenere le angosce del bambino, favorirà in lui quella graduale autonomia che gli consentirà, nel tempo, di affrontare le separazioni, di esplorare il mondo, e di creare nuovi legami affettivi. L’acquisizione di queste sicurezze di base permetterà la nascita di quella che Winnicott ha definito “la capacità di stare da soli” (che implica la capacità di simbolizzare l’assenza dell’altro), che si può consolidare grazie all’interiorizzazione delle funzioni genitoriali e al graduale sviluppo dei processi di mentalizzazione di esperienze e sensazioni corporee.

Seguendo questo filone di pensiero molte ricerche psicoanalitiche hanno dedicato studi approfonditi su due tipi particolari di fobie entrambe in rapporto allo spazio – l’agora-claustrofobia – che si caratterizzano per una compromissione delle sensazioni corporee di fronte allo spazio esterno. Tra i numerosi autori va segnalato lo psicoanalista E. Weiss (1966) il quale si è dedicato per cinquant’anni allo studio della sindrome agorafobica.

Rispetto al significato dato originariamente all’agorafobia, come abbiamo precedentemente visto, questi importanti contributi ne hanno ampliato la lettura in termini teorico-clinici. Occorre però sottolineare che già Freud, a proposito della complessità della realtà psichica, nel 1938 scrive che “lo spazio può essere la proiezione dell’estensione dell’apparato psichico […]. La psiche è estesa di ciò non sa nulla”.

La paura di affrontare gli spazi aperti o i luoghi chiusi può manifestarsi con crisi di panico accompagnate da sintomi somatici con sensazioni di vertigini o di svenimento, fino ad arrivare a sentimenti di depersonalizzazione. Ne conseguono una serie in inibizioni motorie, di misurazioni degli spazi percorribili, di tragitti e mezzi di trasporto consentiti o la necessità, per fronteggiare la forte angoscia, di non essere soli, di avere accanto “un compagno fidato”, così definito dalla psicoanalista Helen Deutsch, che verrebbe a compensare il senso del vuoto d’essere o la labilità dei confini dell’Io.

Le fobie dello spazio assumono forme e gravità diverse in base alle angosce sottostanti, a seconda che esse siano più primitive (angosce di sopravvivenza) o invece più evolute quando riguardano la conflittualità nelle relazioni investite affettivamente: desiderio/incapacità di separazione oppure, nel caso di reazioni claustrofobiche, fuga dai rapporti vissuti come soffocanti o pericolosi.

BIBLIOGRAFIA

Amati Mehler J. (1989), Fobie in Trattato di psicoanalisi a cura di A. Semi – Vol. II. Raffaello Cortina Editore.

Deutsch H. Alcune forme di disturbo emozionale e la loro relazione con la schizofrenia. In AA.VV. Il sentimento assente, Boringhieri, 1992.

Freud S. (1894a), Le neuro psicosi di difesa, OSF, 2, Boringhieri.

Freud S. (1894b), Ossessioni e fobie, OSF, 2, Boringhieri.

Freud S. (1908), Analisi della fobia di un bambino di cinque anni. (Caso del piccolo Hans), OSF., 5, Boringhieri.

Freud S. (1915), Metapsicologia, OSF, 8. Boringhieri.

Freud S. (1925), Inibizione, sintomo, angoscia, OSF, 10. Boringhieri.

Freud S. (1938). Risultati, idee, problemi, O.S.F., 11. Boringhieri.

Klein M. (1952), Scritti 1921-1958, Boringhieri.

Segal H. (1954), I meccanismi schizoidi che sottostanno alla formazione delle fobie in Scritti psicoanalitici, Astrolabio 1984.

Ewiss E. (1966), La formulazione psicodinamica dell’agorafobia, in Riv. Psicoanalisi, 12.

Winnicott  (1960), Sviluppo affettivo e ambiente. Studi sulla teoria dello sviluppo affettivo, Armando, 2004.

Fobie infantili

A cura di Laura Colombi

Definizione

Possiamo definire in senso generale le fobie come paure divoranti nei riguardi di oggetti o situazioni che non motivano razionalmente tale paura.

Per quanto possano sembrare imparentate con le normali paure, le fobie sono di natura differente perché, a differenza di queste ultime, non scompaiono di fronte a una verifica della realtà. Le fobie sono manifestazioni – transitorie o radicate più profondamente- di uno stato di angosciabilità che fa sì che la fantasia carichi di pericolosità oggetti/situazioni che di per sé non dovrebbero provocare timore. L’adulto che soffre di fobie, ancor più del bambino, è consapevole dell’irrazionalità dei suoi timori, che tuttavia non riesce a risolvere.

Da questa premessa possiamo capire perché occupandoci di come vengono inquadrate le fobie infantili nella teoria psicoanalitica, sia necessario ancorare l’argomento al carattere dinamico dello sviluppo. Infatti, poiché nel bambino l’Io (struttura deputata al contatto e ai rapporti con la realtà interna-soggettiva ed esterna-oggettiva) non è ancora consolidato e la fantasia infantile ha una sua specifica qualità (fluida, fervida e potente), paure e angosce sono stati emotivi frequenti nell’infanzia, e ciò rende sottile la linea di demarcazione tra le ‘normali’ paure del bambino e quelle che si connotano come fobie.

Paure marcate per animali, insetti, rumori improvvisi e violenti, il buio, gli estranei, sono esperienze diffuse e fisiologicamente compatibili con lo sviluppo psicologico, ma nella maggioranza dei casi esse tendono a risolversi spontaneamente con la crescita, ripresentandosi –se mai- solo in brevi momenti collegabili a specifici fattori di per sé traumatici o a eventi che si verificano in fasi critiche dello sviluppo.

In certe situazioni tuttavia queste paure possono configurarsi, sia per durata nel tempo, che per intensità, complessità e/o connessione con uno stato d’angoscia marcato e diffuso, come un vero e proprio segnale di una sofferenza psicologica che può pregiudicare la qualità della vita emotiva e relazionale del bambino, interferendo con il fisiologico sviluppo psichico. Di questo parliamo quando parliamo di fobie infantili.

L’approccio psicoanalitico al quadro fobico nell’infanzia.

Pur all’interno di un comune riferimento teorico legato al carattere inconscio di dinamiche psichiche fondanti la personalità, in psicoanalisi si sono sviluppati modelli differenti che, partendo da quadri clinici diversi, hanno arricchito la teoria di prospettive e approcci terapeutici differenti.

Un punto che accomuna i diversi approcci è l’origine infantile della sofferenza psichica e, per questo, la psicoanalisi attribuisce molta importanza alla messa a fuoco dei fattori che possono favorire o interferire con lo sviluppo psicologico del bambino .

Pur dando un peso diverso ai fattori soggettivi e/o ambientali nel determinare lo sviluppo (nella direzione di una sempre maggior riconoscimento del peso dell’ambiente sullo sviluppo), tutti i modelli considerano l’eccesso di angoscia come fattore centrale del disagio psichico e, poiché le fobie sono manifestazioni dell’angoscia, è dunque importante focalizzare l’argomento collegandolo alla specificità dei diversi concetti di sviluppo e di angoscia a cui si riferiscono i principali modelli teorici.

Freud.

La prima descrizione psicoanalitica di fobia infantile è dello stesso Freud che, pur non essendosi mai occupato direttamente di clinica infantile, ebbe modo di conoscere, attraverso il resoconto dettagliato del padre, un caso di fobia per i cavalli sviluppatasi improvvisamente in un bambino di 5 anni. Questo caso fu di grande rilevanza per Freud, poiché gli consentiva di “vedere” dal vivo le teorie sullo sviluppo, sulla sessualità infantile, sulle fantasie inconsce, sull’Edipo e sull’angoscia che erano state, fino allora, inferite dalle analisi degli adulti.

In “Analisi di una fobia in un bambino di 5 anni”, meglio conosciuto come “Caso Clinico del piccolo Hans” (1908), Freud ha l’occasione di osservare da vicino le dinamiche sottostanti allo scatenarsi delle fobie nel bambino e ciò gli consente di specificare meglio la genesi e il significato di quella che chiamerà “nevrosi fobica” che inquadra come un possibile esito dell’isteria d’angoscia (da lui considerata la “nevrosi dell’età infantile), poiché rappresenta un tentativo che il bambino fa di liberarsi dall’angoscia “legandola” ad un oggetto specifico. Il caso di Hans permise a Freud di osservare come la fobia segnalava una difficoltà nel fisiologico superamento del complesso edipico ed era un sistema difensivo dall’angoscia di castrazione che deriva dagli impulsi e le fantasie edipiche che si attivano nella fase genitale (3/5 anni). Queste fantasie, per il loro carattere aggressivo e/o sessuale (odio-ostilità per il genitore dello stesso sesso e amore per quello di sesso opposto), sono incompatibili con la coscienza infantile, attivano un “conflitto” e vengono per ciò rimosse, proiettate all’esterno e – nel caso della nevrosi fobica- spostate su un oggetto più controllabile (sistema difensivo).

Freud ricostruì come, apparentemente, il bambino non voleva uscire da casa per il timore di essere morso da un cavallo, ma, in realtà, questa paura sottintendeva un conflitto inconscio tra le sue pulsioni ostili nei confronti del padre e le esigenze dell’Io che disapprovavano sia questa ostilità che le pretese istintuali nei confronti della madre. In sostanza: il conflitto edipico irrisolto di Hans gli faceva vivere un’intensa angoscia di castrazione che non si manifestava come tale, ma, appunto, per effetto della rimozione della sua psicodinamica interna, come fobia di essere morso dai cavalli.

Freud fu il primo a intuire l’importanza delle dinamiche infantili nello sviluppo normale o patologico ma è con Anna Freud e Melanie Klein che nasce la psicoanalisi infantile e il conseguente studio sistematico dei diversi quadri clinici nell’infanzia.

Anna Freud attribuisce particolare risalto all’importanza per lo sviluppo psicologico dell’ equilibrio che l’Io, nelle varie fasi della crescita, riesce a raggiungere tra le differenti esigenze dell’ambiente, dell’Es (istanza istintuale) e del Superio ( istanza morale). Anche nel normale sviluppo il bambino ha, infatti, a che fare continuamente con conflitti e il buon uso dei meccanismi di difesa psicologici più idonei a quella “fase evolutiva”, insieme al ruolo dei genitori reali, è essenziale a mitigare la violenza dell’angoscia e a superare le varie tappe (1936). Dall’infanzia all’adolescenza A. Freud individua 8 fasi evolutive e colloca nella quinta fase (edipica) la matrice di un possibile sviluppo di carattere fobico. Come per il padre anche per lei le fobie appartengono a un disturbo della fase genitale, quando il bambino non è più piccolissimo e hanno le loro radici nella difficoltà a superare l’ambivalenza edipica (attorno ai 4/6 anni) caratteristica di questa fase. Sono il tentativo di controllare l’angoscia attraverso uno spostamento del conflitto in un terreno più ‘neutro’. A. Freud individua per esempio la fobia della scuola – non rara nei bambini – come collegabile ad un conflitto edipico irrisolto che trova una sua ‘soluzione’ nel venir allontanato e trasferito dalla famiglia alla scuola, dove l’angoscia può meglio essere più decantata e razionalizzata spostandosi su compagni, insegnanti e prove scolastiche (1957).

Melanie Klein

Pur partendo dal modello freudiano sviluppò in seguito un proprio approccio di grande rilievo per la comprensione dell’origine di quegli stati di sofferenza psichica che derivavano dalle primissime fasi dello sviluppo.

Lavorando con bambini piccoli introdusse nella tecnica analitica materiale di gioco che le permise di osservare le dinamiche psicologiche interne più precoci in azione. L’esperienza clinica la portò ad affermare la presenza di un Io presente fin dalla nascita, capace di percepire angoscia e di difendersi (contrariamente all’ipotesi freudiana di un costituirsi dell’Io nel corso della crescita). In questo modello l’angoscia diviene un fatto “primario”, che s’innesca fin dagli albori della vita. Tra le angosce primarie la più terribile è l’angoscia di “annientamento”-morte , da cui il bambino si difende attraverso la proiezione di propri impulsi aggressivi su un oggetto esterno (il primo: il seno), oggetto che si tinge di minacciosità. Queste prime dinamiche di proiezioni/introiezioni, legate ai cicli vitali di soddisfacimento-mancanza/dolore, sono connotate da una violenta persecutorietà che caratterizza quell’ insieme di angosce e difese che Klein chiama “posizione schizoparanoide”. Solo quando l’intensità dell’angoscia diminuisce l’Io, più maturo, riesce a percepire e riconoscere che l’ “oggetto”(seno) che soddisfa (oggetto buono) e quello che lo fa attendere (oggetto cattivo) sono un’unica cosa. Nello sviluppo si ha allora accesso alla “posizione depressiva”, in cui al senso di minaccia per l’Io subentra il senso di minaccia/preoccupazione per l’oggetto d’amore (madre-seno) che proviene dai persecutori interni: angoscia depressiva. Il successo di un buon sviluppo è quindi concepito dalla Klein come legato alla possibilità di superare la violenza delle angosce schizoparanoidi e la colpa/struggimento per la perdita/ separazione dall’oggetto buono esterno. Da questa necessaria premessa, si comprende che per la Klein le fobie sono manifestazioni di problematiche molto precoci legate ad angosce persecutorie e depressive.

Nelle sue parole: “ Una caratteristica della nevrosi infantile è costituita delle prime fobie, che appaiono inizialmente nel corso del primo anno di vita e, cambiando forma e contenuto, si presentano e ripresentano durante tutti gli anni dell’infanzia. Alla base delle prime fobie, che comportano difficoltà di alimentazione, pavor nocturnus, angoscia per l’assenza della madre, paura degli estranei, disturbo del rapporto con i genitori e delle relazioni oggettuali in genere, vi sono sempre angosce persecutorie e depressive. Il bisogno di esteriorizzare gli oggetti persecutori costituisce un elemento intrinseco del meccanismo delle fobie e questo bisogno nasce sia dall’angoscia persecutoria (relativa all’Io) sia da quella depressiva relativa alla minaccia dei pericoli per gli oggetti interni che provengono dai persecutori interni”(1952).

D.W. Winnicott

Come la Klein, anche Winnicott sposta l’attenzione della sua ricerca sulle angosce più precoci e primitive, ponendo però maggiormente l’accento sul ruolo cruciale della risposta dell’ambiente. Pediatra e in seguito psicoanalista ha l’opportunità di riflettere a fondo sullo sviluppo nei primi mesi di vita del bambino e sul rapporto speciale che lo lega alla madre in un percorso caratterizzato dal progressivo incontro con la realtà in modo autonomo e indipendente. In questo graduale percorso compito della madre è quello di offrire gli strumenti necessari per supportare la naturale progressione all’autonomia e allo sviluppo del Sé personale del bimbo. Per Winnicott alla nascita il bambino non esiste come individuo, ma all’interno di una diade madre-bambino e il corretto sviluppo deriva da una madre/ambiente capace di holding (sostegno), cioè di offrire quelle specifiche cure fisiche ed emotive necessarie al bambino per progredire da stati di non integrazione a esperienze di sempre maggiore senso di “unità” ed integrità della propria personale continuità dell’essere. Le fobie del bambino mettono dunque in scena primissime angosce derivate dall’assenza di holding, di contenimento e si realizzano in diverse fenomenologie tra cui la paura di precipitare (fobia del vuoto) o di andare a pezzi ( fobie di animali o altro che si tingono di persecutorietà)(1958).

Bibliografia

Freud Anna (1936) “L’Io e i meccanismi di difesa”Giunti Editore, 2012.

Freud Anna (1957). “Osservazione del bambino e previsione dello sviluppo”.in Anna Freud, Opere, Vol. 2,Boringhieri,1979.

Freud Sigmund (1908) “Analisi della fobia di un bambino di cinque anni (Caso del Piccolo Hans)”, in Freud, Opere,Boringhieri, 1972.

Klein Melanie (1952) “Alcune conclusioni teoriche sulla vita emotiva del Bambino nella prima infanzia” in Scritti,Bollati Boringhieri,1978.

Winnicott Donald W. (1958) Dalla pediatria alla Psicoanalisi, Martinelli 1975.

Fornari Franco
Fornari Franco

Franco Fornari

Maestri della Psicoanalisi

Fornari Franco

A cura di Lidia Leonelli Langer

Foto d’archivio

…io amo la vita proprio come i suoi significati.

… ciò che mi appassiona

è scoprire gli inesauribili significati della vita. (1)

Franco Fornari (Niviano di Rivergaro, 1921-Milano, 1985)

Verso una nuova psicoanalisi.

NOTE INTRODUTTIVE

Medico, neuropsichiatra, psicoanalista con funzioni di training della SPI e dell’IPA, Presidente della Società Psicoanalitica Italiana (1974-78), ricercatore, scrittore e divulgatore, Franco Fornari ha vissuto immerso nella storia, nella piccola storia personale, relazionale, familiare, in quella culturale, sociale, politica, e nella grande storia mondiale, e su di essa si è costantemente interrogato.

Considerava la psicoanalisi  una scienza riparativa (2), dotata di  modalità scientifiche di comprensione della drammaticità della vita, ed era convinto che essa potesse costituire uno strumento potente per comprendere la natura umana in tutte le sue manifestazioni e  per favorire lo sviluppo della convivenza e il superamento dei conflitti.

La sua teorizzazione è tesa ad una psicoanalisi oltre le contrapposizioni, in funzione della ricomposizione dei contrari. Corpo-mente, biologico-psichico, ragione-affetti, innato-appreso, mondo interno-mondo esterno, istinto di vita-istinto di morte, natura-cultura risultano intrecciati in un continuum inscindibile.

Il suo stile di fare clinica è segnato dalla convinzione che  fare l’analisi rappresenti un’esperienza  privilegiata di libertà (2) e di conoscenza per l’analista e per l’analizzando, entrambi affettivamente coinvolti nel dispiegarsi del transfert e del controtransfert.

Il suo contributo originale alla ricerca psicoanalitica, radicato nel clima del dopoguerra, è nato e si è sviluppato anche come risposta al trauma inferto all’umanità intera dalla seconda guerra mondiale e dall’esplosione atomica, che lo ha posto di fronte alla pressante domanda sulla natura dell’uomo e sull’origine del male. A partire da lì, il suo pensiero si è sviluppato in varie direzioni e in teorizzazioni complesse e articolate, esposte in numerosi libri e numerosissimi lavori. E, proprio perché radicato nel fluire dell’esperienza storica, è stato un pensiero in continuo divenire, pronto a trasformarsi e a concretizzarsi nell’azione.

Nei suoi scritti, dal primo del 1955 a quelli cui stava lavorando al momento della sua morte nel 1985, pubblicati postumi nel 2005 sulla Rivista di Psicoanalisi (3), si vede come i temi siano in fondo sempre gli stessi e come siano andati sviluppandosi nell’arco di trenta anni, in una continua riflessione sull’origine della vita psichica, sulla psicosi e sulla guerra.

E’ però l’ultima teorizzazione, punto d’arrivo di un’intera vita di ricerca, che dà un senso nuovo e unitario a tutte le precedenti.  In essa Fornari individua la vita intrauterina ed il parto-nascita come fantasmi originari e chiave di lettura per accostarsi alla comprensione dei vari aspetti della vita psichica individuale e collettiva.

LA VITA E L’OPERA

Poiché Fornari traeva spunto di riflessione dagli eventi, nei suoi scritti troviamo tracce della sua vita, usate come esempi e metafore. Attraverso le sue opere quindi, conosciamo l’autore e apprendiamo qualcosa della sua vita. In esse troviamo infatti l’infanzia come nono di dieci figli, la campagna e la natura , la vita e la cultura contadina, il lavoro dei campi, la buona cucina, l’affresco di San Giorgio e il drago.  Troviamo anche le discussioni con insegnanti e  studenti, l’istituzione psicoanalitica, i nervosismi nel traffico,  l’affetto di nonno.

Dal racconto della figlia Gigliola Fornari Spoto (4), possiamo avere anche qualche quadro della vita nella famiglia fondata con Bianca.

Bianca Fornari, psicoanalista SPI e IPA, è stata moglie, compagna di tutta la vita e madre dei suoi cinque figli, tra i quali Gigliola e Silvia, a loro volta psicoanaliste. Bianca ha sempre condiviso e discusso con Franco, fin da quando erano ragazzi, i pensieri che gli si affacciavano, e ha letto e corretto i suoi scritti, fino agli ultimi giorni.  Le opere di Fornari portano traccia della presenza e del pensiero di Bianca, ma una in particolare, “Psicoanalisi e Ricerca letteraria” (1974) è frutto della loro feconda collaborazione e del reciproco innesto. In essa si coglie dal vivo la comune passione per la letteratura, per l’insegnamento e per la trasmissione dell’amore per il bello, oltre alla convinzione condivisa della necessità di trasformare l’educazione sessuale in educazione agli affetti. Ritroveremo l’evoluzione dell’interesse di Fornari per la letteratura, la musica e l’arte in “Coinema e icona” (1979), “Psicoanalisi della musica” (1984), “Carmen adorata” (1985).

Tra la prima e la seconda parte della vita di Fornari, sta la guerra con l’esplosione atomica.

Il romanzo giovanile “Angelo a capofitto”, pubblicato solo nel 1969, che contiene in nuce il suo pensiero e la sua teorizzazione futura, è una riflessione sui mali del mondo, visti attraverso il disperato tentativo di un giovane di riparare individualmente i disastri compiuti dalla follia collettiva.

morraPSICOANALISI e UNIVERSITA’

Da quando Franco Fornari, portandosi nel cuore il suo paese, si spostò dal piacentino a Milano per gli studi universitari, fu sempre legato a Milano e alla sua Università, in cui rimase fino alla morte. Fu il primo allievo di Cesare Musatti , del quale , studente di medicina, seguì nel 1946 il primo corso di psicologia tenuto presso l’Università degli Sudi di Milano. Con lui discusse la  tesi di laurea nel 1947 e da lui fu poi analizzato, divenendo membro della SPI e dell’IPA.

Nel 1962 ottenne la libera docenza in psicologia dell’età evolutiva ed insegnò nelle scuole di Specializzazione in Psicologia e in Psichiatria. Fu assistente di Musatti presso l’Istituto di Psicologia della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Statale da lui diretto e nel 1972  gli subentrò nella direzione di quello stesso Istituto.

Nel 1968, ebbe l’incarico di Psicologia Generale e Dinamica presso la Facoltà di Sociologia dell’Università di Trento, dove venne anche contestato in modo molto acceso dagli studenti, come del resto successe anche quando, dopo questo breve ed intenso intermezzo, tornò all’Università di Milano. Qui la contestazione era in parte innescata dalle sue posizioni sulla sessualità, poi illustrate in “Genitalità e cultura” (1975), che additavano il superamento della pregenitalità in funzione di una sessualità genitale, basata sul reciproco riconoscimento.

Alla scuola rigorosamente freudiana di  Musatti, da cui aveva ereditato la convinzione della necessità di inserire formalmente la psicoanalisi nell’insegnamento universitario, Fornari aveva imparato ad avvicinare la psicoanalisi anche con la mentalità del filosofo e dello sperimentalista oltre che del clinico  e ad applicarne il metodo nello studio dei fenomeni sociali e politici. Aveva imparato a confrontarsi con le altre discipline, a pensare liberamente e ad esprimere con coerenza e coraggio le proprie convinzioni, anche quando  controcorrente.

Fornari  era convinto che fosse necessario e possibile insegnare in Università i fondamenti della psicoanalisi. Come Presidente della SPI, cercava di convincere di questo i suoi colleghi psicoanalisti.  Pensava ad un Polipsichico, un centro clinico un po’ sul modello del Policlinico, all’interno del quale fosse possibile per gli studenti interessati, imparare a mettere in pratica la competenza psicoanalitica.   Non sappiamo se ce l’avrebbe fatta a realizzare questo sogno, non sempre compreso, se fosse rimasto più a lungo tra noi.

A PARTIRE DAL PENSIERO DI FREUD E DELLA KLEIN (1955-1970)

2Fornari Foto rivista

Fornari introdusse in Italia il pensiero di Melanie Klein, partendo dal quale portò avanti la sua prima ricerca sull’origine della vita psichica, sulla psicosi e sul fenomeno guerra.

In un confronto continuo e serrato con il pensiero freudiano e con il dibattito innescato dalle discussioni controverse con Anna Freud, contribuì alla diffusione della cultura psicoanalitica in Italia e all’estero, attraverso numerosi articoli e libri tradotti in varie lingue, in cui si preannuncia già lo sviluppo del suo pensiero originale.

Ne “La vita affettiva originaria del bambino” (1963), Fornari ipotizza che nel bambino ci sia da subito intenzionalità relazionale, tesa a “presentificare” nel mondo esterno, attraverso l’incontro con la madre, “la presenza buona originaria”.  Da qui arriverà alla teorizzazione della vita intrauterina come fantasma originario.

Nel libro “Nuovi orientamenti della psicoanalisi” (1966), tra i molti altri argomenti, afferma che l’essere umano è fin da subito “soggetto” non “oggetto” di tendenze contrastanti e generatrici di angoscia, e ipotizza la presenza  fin da subito di un Io che necessita della capacità di identificazione da parte della madre, per sviluppare la conoscenza e la capacità di vivere.

Sono quindi prefigurati il superamento della teoria degli istinti di vita e di morte, la presenza alla nascita di una competenza innata relazionale, affettiva e cognitiva tesa alla vita, la necessità della risposta relazionale perché questa competenza si sviluppi.

E’ soprattutto la riflessione sul fenomeno guerra nel periodo dell’era atomica, contenuta in alcuni libri, tra cui “Psicoanalisi della guerra atomica” del 1964 e “Psicoanalisi della guerra” del 1966  che, in questo periodo, fa conoscere Fornari in Europa e nel mondo (5).

Con le sue ricerche  Fornari contribuì alla nascita in Italia  di un vero e proprio movimento di impegno per la pace che si concretizzò nel 1965 nel Gruppo anti-H e nell’1967 nell’Istituto italiano di polemologia. Il  suo impegno lo portò anche, alla fine degli anni sessanta,  a partecipare alla conferenza dell’ONU sulla pace a New York e a diventare membro del comitato mondiale di ricerca sulla pace. La visione della guerra, qui vista come esportazione paranoica del lutto, evolverà attraverso l’introduzione della teoria dei codici affettivi e della paranoia primaria (6).

DA UNA NUOVA VISIONE DELL’INCONSCIO  A UNA NUOVA PSICOANALISI (1970-1985)

A partire dagli anni settanta,  Fornari diede impulso ad una intensa attività di ricerca scientifica in ambito clinico, istituzionale e sociale, che lo portò a sviluppare il suo pensiero originale, attraverso lo studio sui sogni in gravidanza, sulla simbolizzazione, sul linguaggio, sulle scelte decisionali, sull’ideologia.  Attraverso tappe successive quali quella della teoria psicoanalitica del linguaggio, della teoria coinemica, della teoria dei codici affettivi, ha così preso forma una visione innovativa dell’inconscio, illustrata in “La lezione freudiana” (1983).

Si tratta di un inconscio funzionale alla vita, dotato di competenza conoscitiva e decisionale innata, dominato dalla tensione a conoscere e a dare significato al mondo, per abitarlo. E’ un inconscio sempre presente e all’opera, che sottende e motiva ogni manifestazione umana in funzione della sopravvivenza.  Questa visione pone le basi per una teoria psicoanalitica del processo decisionale, attraverso la quale è possibile leggere il declinarsi delle scelte di vita individuali, istituzionali, sociali e politiche come tentativi di garantire la sopravvivenza del singolo e della specie. Fornari la applicò nelle istituzioni, come descrisse ne “Il Minotauro” (1977) e in “Psicoanalisi in ospedale” (1985) e, poco prima della morte, contribuì a fondare il Minotauro, Istituto di Analisi dei Codici Affettivi, il cui primo obiettivo era proprio quello di applicare lo strumento dell’analisi di codice in ambito istituzionale.

Sulla base di questa nuova teorizzazione vengono letti in modo nuovo anche i conflitti e le vicende che portano alla guerra, come radicalizzazioni ideologiche di scelte, che diventano pericolose nel loro porsi come assolute. Le ipotesi sull’origine del male e  della guerra mutano infatti con l’introduzione della teoria di codice, secondo la quale il male può originare da un eccesso di bene, dall’ assolutizzazione a fin di bene di una posizione, dal desiderio di difendere a qualsiasi costo il proprio ideale vissuto come bambino indifeso. E raggiungono la forma più complessa e compiuta attraverso l’ultima formulazione teorica, quella sul parto-nascita come fulcro della vita psichica.

NASCITA E VITA INTRAUTERINA
DALL’ELABORAZIONE PARANOICA DEL LUTTO ALLA PARANOIA PRIMARIA

Proseguendo nella ricerca iniziata molti anni prima sui sogni delle madri in gravidanza e sulle vicissitudini legate al parto, e portandola alle estreme conseguenze, Fornari arriva a formulare, negli ultimi anni di vita, la parte del suo pensiero che diventerà il fulcro di tutta la sua teorizzazione precedente.  Si tratta dell’individuazione della vita intrauterina e della nascita come fantasmi originari, da cui prende avvio, attraverso un continuo movimento di transfert, ogni conoscenza e ogni azione nel mondo (7).

Sulla scena del parto nascita incontriamo la violenza originaria e la cesura originaria, di cui la funzione paterna separante e simbolizzante si fa carico, dandole un senso e  additandola come necessaria e funzionale alla vita stessa. E’ questa la paranoia primaria, figura esplicativa originale  di grande portata, solo attraverso il cui buon funzionamento, può venire accettata la morte insita nella vita stessa, fin dal suo inizio, e può quindi essere superato il bisogno di esportarla all’esterno(8).

Da questa nuova prospettiva, unita al nuovo modo di intendere l’inconscio ipotizzato dalle teorie coinemica e dei codici affettivi, deriva una revisione radicale della teoria psicoanalitica, che Fornari stava sistematizzando nel “Trattato di Psicoanalisi”, a cui stava lavorando al momento della morte e di cui sono stati pubblicati due capitoli (3).

OLTRE LA STANZA D’ANALISI

Franco Fornari è stato fin da subito presente ed attivo come psicoanalista anche nelle istituzioni, di cui ha studiato la dimensione affettiva, traendone le sue teorizzazioni. Nelle istituzioni non ha mai lavorato da solo, ma ha sempre contato sull’aiuto di collaboratori, compagni di strada nel suo fare ricerca. Ha svolto, nella società civile, un intenso lavoro di divulgazione fatto di conferenze, dibattiti pubblici, articoli e interventi su riviste e quotidiani, e ha partecipato attivamente, come abbiamo visto, al movimento per la pace.

Nel corso della sua vita ha teorizzato e praticato

– una psicoanalisi clinica intesa come esperienza radicale e privilegiata di conoscenza e di libertà, che si dispiega tra analista e analizzando attraverso il coinvolgimento affettivo del transfert e del controtransfert

– una psicoanalisi delle decisioni affettive individuali, particolarmente adatta nei momenti di passaggio

–  una psicoanalisi delle decisioni affettive collettive, che  favorisca una convivenza di pace

– una psicoanalisi capace di usare molteplici strumenti  di contatto e di comunicazione per risvegliare il buon funzionamento gruppale e istituzionale

– una psicoanalisi in continuo dialogo con le altre scienze, con la cultura e con ogni componente sociale

– una psicoanalisi “pedagogica” tesa ad innescare momenti trasformativi in molti ambiti, dai più quotidiani e vicini, ai più lontani, fino alle Nazioni Unite

– una psicoanalisi “oltre il divano”, usata anche per comprendere la vita e la cultura umana nel suo vario manifestarsi, attraverso la lettura delle ideologie che ispirano i fenomeni culturali, istituzionali, sociali e politici, i conflitti e le guerre.

Le sue intuizioni sullo sviluppo della vita psichica  sono confermate dagli studi più recenti.

La sua lettura della vita istituzionale è oggi particolarmente attuale e utile.

Il suo impegno civile costituisce un esempio.

Autore di moltissimi scritti, ha pubblicato i seguenti libri:

La vita affettiva originaria del bambino (Feltrinelli, 1963); Psicoanalisi della guerra atomica (Feltrinelli, 1964); Psicoanalisi della guerra (Feltrinelli, 1966), Nuovi orientamenti nella psicoanalisi (Feltrinelli, 1966); Angelo a capofitto (Rizzoli,1969), Psicoanalisi e ricerca letteraria  (Principato, 1973, scritto con la moglie Bianca Fornari), Genitalità e cultura (Feltrinelli, 1975), Simbolo e codice (Feltrinelli, 1976), Il Minotauro (Rizzoli,1977); I fondamenti di una teoria psicoanalitica del linguaggio (Boringhieri,1979), Coinema e icona (Il Saggiatore, 1979), Il codice vivente (Boringhieri,1981), La malattia dell’Europa (Feltrinelli, 1981), La lezione freudiana (Feltrinelli,1983), La Riscoperta dell’anima (Laterza,1984) ,  Psicoanalisi della musica (Longanesi, 1984), Psicoanalisi in ospedale (Raffaello Cortina,1985, in coll. con L.Frontori e C.Riva Crugnola), Carmen adorata (Longanesi,1985), Affetti e cancro (Raffaello Cortina,1985).

Inoltre:

F.Fornari  (1985) La nascita psichica. In Rivista di Psicoanalisi, 2005, LI,1,pp 181-190

F. Fornari,  (1985) Il sogno durante la poppata e il transfert onirico. In Rivista di Psicoanalisi, 2005, LI,1 190-199

La bibliografia estesa si può trovare in Rivista di Psicoanalisi, 1986, XXXII,1, pp. 59-71

Note.

1.Faccia a faccia con uno psicoanalista. Intervista a F. Fornari di G.Minoli. In AAVV. La vicenda uomo tra coscienza e computer. Cittadella, Assisi, 1984
2.Cfr. F. Fornari, (1966) Nuovi Orientamenti della Psicoanalisi. Introduzione alla 2° edizione, Feltrinelli, Milano, 1970
3.Si tratta di due capitoli del Trattato di Psicoanalisi cui stava lavorando nel 1985: F.Fornari, La nascita psichica; F. Fornari, Il sogno durante la poppata e il transfert onirico pubblicati sulla Rivista di Psicoanalisi, 2005, LI,1 pp.181-190 e190-199
4.G. Fornari Spoto. Affetti e pensieri. In Conflitti affetti, cultura Franco Fornari 2005. Quaderni del Centro Milanese di Psicoanalisi, Milano 2007
5.Cfr. F.Fornari (1964) La psicoanalisi della guerra. Riduzione all’inconscio del fenomeno guerra e responsabilità individuali della guerra. Rivista di Psicoanalisi, 2005, LI,1 pp. 99-178
6.Cfr. L. Leonelli Langer Note per una rilettura del pensiero di F.Fornari sulla guerra. In Dossier Guerra. Spiweb, 2014
7.Cfr. F. Fornari La riscoperta dell’anima. Laterza, Bari, 1984
8.Cfr. F. Fornari. (1981) Il codice vivente. Bollati Boringhieri, Torino 2001

Funzione paterna

A cura di Giuseppe Pellizzari

In estrema sintesi la funzione paterna consiste nell’interdizione dell’incesto e nell’introduzione della legge che, ponendo un limite all’anarchia delle pulsioni, consente loro di acquistare una forma evolutiva e di accedere al pensiero. Per incesto è da intendersi qui una con-fusione indifferenziata tra sessi e generazioni alla quale si contrappone la legge paterna come limite generativo.
L’interdizione dell’incesto, ma anche contemporaneamente la protezione dall’incesto come rischio di una regressione mortifera, instaura la struttura edipica, cioè fonda la conflittualità tra sessi e generazioni secondo un vettore di sviluppo che consente una evoluzione, una crescita, un apprendimento dall’esperienza altrimenti impossibile. La funzione paterna è dunque garante della civiltà, sia nel microcosmo familiare, sia nella società.
La parola “allevamento” indica il gesto col quale il padre sollevava il piccolo nato verso il cielo staccandolo dalla terra. In molti miti dell’origine in principio vi è uno stato caotico, dove tutto è indifferenziato, privo di forma. L’atto che dà inizio al “cosmo”, contrapposto al “caos”, consiste in una separazione: la luce dalle tenebre, la terra dal cielo, le acque dalla terraferma, via via fino alle diverse specie viventi, al maschile e al femminile. Il principio generativo è dunque rappresentato dalla rottura di una continuità. La proibizione dell’incesto è da intendersi come l’introduzione di tale discontinuità, che separa il bambino dalla madre, che rompe la loro fusione e in questo modo fa sì che la madre sia madre e il bambino sia bambino e non un’unica cosa. Dà inizio alla relazione. Perché ci sia relazione infatti occorre ci siano due reciprocamente “altri”.
La funzione paterna è ciò che rende fecondo il materno proprio attraverso il limite che separa. Il fallo maschile è divenuto il simbolo di tale funzione generatrice e ordinatrice. Lo ritroviamo nello scettro dei re, nel bastone dei profeti, nelle chiavi che conferiscono al Papa il potere di sciogliere e di legare. Diviene cioè simbolo del potere legislativo del padre, che gli conferisce il diritto di giudicare e di punire, l’”auctoritas”. La piramide del potere parte dal padre capo della famiglia, arriva al sovrano come capo del popolo e giunge fino a Dio come capo dell’universo. Ciò che li unisce è l’”axis mundi”, l’asse attorno al quale si organizza la realtà che diviene mondo, cosmo, vale a dire realtà stabilita, ordinata e non caotica e indifferenziata.
Occorre però notare che con l’inizio della modernità questa organizzazione semantica incentrata sulla figura del padre è entrata sempre più in crisi. Le grandi concezioni del mondo, politiche, religiose, ideologiche, che la fondavano sono progressivamente tramontate. Oggi la funzione paterna conosce una crisi profonda ed inedita. Ciò è dovuto a molteplici fattori. L’avvento della democrazia ha fatto decadere l’idea di un potere assoluto, di origine divina, e introdotto l’idea di un potere laico, condiviso e in perenne discussione. L’emancipazione femminile ha portato all’uguaglianza dei sessi e alla fine dell’istituzione del “capofamiglia” con tutte le conseguenze sul piano pratico e simbolico che ancora non si sono completamente delineate.
Tutto ciò, se da un lato rappresenta una conquista di civiltà, dal momento che nel nome del padre, sia esso identificato con Dio, con un Idea, con l’Autorità sono state commesse le peggiori efferatezze (anche oggi purtroppo), dall’altro comporta, come tutti i grandi cambiamenti socioculturali, confusione, ansia e disorientamento.
E’ significativo che tutti i dittatori si siano sempre fregiati del titolo di “padre” e fatti ritrarre, sorridenti e benevoli, circondati da un popolo di facce felici e devote, a sottolineare che la loro autorità era una autorità naturale, come quella del padre appunto, e non poteva dipendere da nessuna delega elettiva reversibile.
Un tempo il padre era percepito come rappresentante di un potere che andava oltre lui come persona particolare. Poteva anche essere un individuo debole e insignificante, ma era il padre e come tale detentore di un potere indiscutibile. Così i sovrani e gli imperatori. Oggi non più. Ogni padre deve conquistarsi credibilità e rispetto per così dire “sul campo”, senza che nulla venga dato per scontato. Lo stesso vale per i governanti eletti dal popolo, sempre pronto a voltar loro le spalle. Non vi è più un potere certo, stabile e sicuro. Una simile situazione determina fenomeni regressivi mossi dalla nostalgia di padri ideali che diano sicurezza e certezze. Le varie forme di fondamentalismo lo testimoniano quotidianamente.
Franco Fornari, distinguendo tra “codice materno”, che interpreta sulla base dell’affetto e della comprensione, e “codice paterno”, che interpreta invece sulla base del rigore e della frustrazione, ha espresso l’idea che la nostra società soffra di un eccesso di codice materno a discapito di quello paterno. Ciò comporta una stagnazione evolutiva, una difficoltà a crescere per impreparazione ad affrontare le durezze della vita adulta. Se questo è ampiamente condiviso, resta tuttavia difficile immaginare una rifondazione del codice paterno in una società non più sorretta da orizzonti simbolici in grado di giustificarlo e renderlo attendibile e riconoscibile.
Se la funzione paterna resta sempre la medesima nel suo compito di introdurre una separazione fondante, senza la quale vi sarebbe un caos informe ed infecondo, un trionfo della pulsione di morte, come possiamo osservare in tante patologie legate alle varie forme di dipendenza, tuttavia il suo esercizio non può più essere appannaggio dei soli padri reali, deve diventare una tensione condivisa, sia in ambito familiare che sociale.
La funzione paterna è oggi una funzione che astrae dalla concretezza sessuale del maschile, che pur ne rappresenta la testimonianza simbolica, per diventare un compito culturale che interessa l’intera società alla ricerca di nuovi parametri di senso che sappiano conferire un ordine semantico ed etico non più riconducibile a dogmi assunti come assoluti.

Novembre 2014

Dibattito su: “la funzione paterna ieri e oggi: analogie e differenze” a cura di G. Bambini

Gaburri Eugenio
Gaburri Eugenio

Eugenio Gaburri

Maestri della psicoanalisi

A cura di Noemi Pepe

Foto d’archivio

Gaburri, Eugenio (Soresina, 1934 – Milano, 2012)

La vita

Nato a Soresina, in provincia di Cremona, il 26 Febbraio 1934, figlio di Gilberto, cancelliere di tribunale, e di Alda Lanzi docente di storia dell’arte. Fin da piccolo coltivò la passione per la vela ed il violino, passioni che lo accompagnarono per tutta la vita.

Dopo aver frequentato il Liceo Scientifico, si laureò in Medicina a Parma, specializzandosi poi in neuropsichiatria. Nel 1962 si trasferì a Milano per lavorare nei centri di base e nel 1967 venne chiamato a dirigere l’ospedale psichiatrico di Varese, dove elaborò un modello di ristrutturazione dei manicomi; la sua idea era di non abbandonare i pazienti a se stessi e alle loro famiglie ma di creare una rete di servizi territoriali. Fu tra i primi a introdurre in Italia il pensiero di Bion.

Da sempre appassionato e sensibile alle tematiche di gruppo, nel 1975 fondò “Il Pollaiolo”, bottega di ricerca sulla teoria e la clinica dei gruppi, con Francesco Corrao, Claudio Neri, Nando Riolo ed altri. Nel 1995 si trasformò nell’Iipg (Istituto Italiano di Psicoanalisi di Gruppo).FOTO 2OK

Dopo la legge Basaglia si trasferì a Milano per insegnare alla SPI.

Dalla sua prima moglie, anch’ella psicoanalista, Gilda De Simone, ebbe due figli: Luca e Stefano. Fu nel 1992 che conobbe la sua seconda moglie, Laura Ambrosiano, in occasione di un congresso a Parigi sulla femminilità. Iniziò così anche una feconda collaborazione che esitò in diversi scritti a quattro mani (Ululare coi lupi, La spinta ad esistere, Il futuro sul lettino).

Fu segretario scientifico del Centro Milanese di Psicoanalisi “Cesare Musatti” e della SPI, redattore della Rivista di Psicoanalisi e presidente del CMP.

E’ scomparso il 6 Dicembre 2012, all’età di 78 anni, in seguito ad una lunga malattia, vissuta fino alla fine con grande coraggio e passione.

Il contributo alla psicoanalisi

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Uomo e pensatore estremamente generoso, contribuì in modo creativo a far avanzare il pensiero psicoanalitico. “Battitore libero”, come lo definisce Massimo Recalcati, insofferente alle teorizzazioni scolastiche responsabili di irrigidire i concetti separandoli dall’esperienza clinica, era un vero navigatore, capace di navigare a vista nella realtà clinica, perdendosi nella confusione e nell’incertezza, da cui riusciva sempre a produrre un pensiero non convenzionale.

La sua grande passione per il mare e per la vela si rispecchiava, infatti, nel suo modo di pensare sempre originale, seguendo la direzione imprevedibile del vento, rotte nuove, non ancora note.

Gaburri imbeve i concetti freudiani del pensiero di Bion dando origine ad un pensiero innovativo, stimolante e coraggioso che propone una concezione della mente dialogica e relazionale, non timorosa di esplorazioni affettive. Come Spinoza, non si propone, infatti, di allontanare e controllare le passioni, ma di comprenderle, avendo il coraggio di soffermarsi su temi nuovi e complessi.

E’ proprio la disponibilità a lasciarsi “infettare” che permette la conoscenza profonda dell’altro, intesa come capacità di non tenere a distanza le emozioni e di avvicinarsi in una reciproca condivisione e coinvolgimento.

Ecco che lo spazio dell’interazione psicoanalitica si connota come un bagno denso di contagi dove “i processi di personificazione indicano la presenza di una disponibilità a perdere l’ancoraggio alla propria identità consolidata, a lasciarsi turbare e contagiare dall’impatto emotivo dell’incontro con l’altro” (Gaburri & Ambrosiano, 2003). Il ruolo dell’analista è quello di co-protagonista in grado di tollerare uno sostare spaesato, aiutato dalla corrente di tenerezza che lo lega al paziente. Fondamentale è la capacità negativa dell’analista, che “apre la mente ad un pensiero liberamente associativo che sigla una prospettiva etica della psicoanalisi” (Gaburri & Ambrosiano, 2008), e che caratterizza un analista con la mente libera, “senza memoria e senza desiderio” direbbe Bion, ma anche libera dal pensiero del gruppo di riferimento, capace di fare spazio dentro di sé al paziente, per poter rilanciare la bioniana spinta ad esistere.  È solo dalla capacità negativa che può emergere la rêverie “un pensiero sognante e non lineare che si muove come unità funzionale tra associazioni libere e attenzione fluttuante. E’ un atteggiamento mentale senza memoria e senza desiderio, vale a dire (relativamente) libero di vagare fuori dal senso comune e dai significati condivisi” (Gaburri & Ambrosiano, 2003). L’incapacità negativa, di converso, è legata al socialismo (termine che indica l’identificazione a massa e usato da Bion come radice pulsionale delle organizzazioni che provvedono alle aggregazioni gruppali) in cui non è possibile ascoltare ciò che è diverso rispetto alle attese consegnate dagli assunti del gruppo.

E’ come un abbraccio il movimento della mente dell’analista verso l’altro, verso elementi inediti e non ancora pensati dell’incontro con il paziente.  Quello che Romain Rolland chiama sentimento oceanico e che descrive una tensione a immergersi nell’universo condiviso, a sentire con l’altro, ad accorgersi delle implicazioni degli eventi e di avvertire la propria responsabilità rispetto ad essi e che permette la realizzazione della rêverie, in quanto “esperienza emotiva che consente di avvicinare intuitivamente, prima che razionalmente, gli aspetti di contiguità tra realtà interna ed esterna” (Gaburri & Ambrosiano, 2003).

Entrambe le dimensioni, consensuale, tipica dell’uomo oceanico, ed edipica, caratteristica dell’uomo terrestre, strutturano la mente.

Un altro tema centrale e trasversale del pensiero di Gaburri è proprio il conflitto tra identità e appartenenza, già presente in Freud (1921) e ripreso da Bion (1992) in termini di oscillazione tra narcisismo e socialismo, funzionale a rendere conto della trasformazione da individuo-massa a individuo autonomo. Gaburri avverte del pericolo insito nella spinta socialistica che “diffonde la speranza delirante di poter essere tutti ugualmente amati, di poter essere trattati secondo una giustizia uguale per tutti, di poter essere immortali […] essere ugualmente amati […] organizza una fantasia delirante fruita come tanto benefica e protettiva da ostacolare l’individuazione” (Gaburri & Ambrosiano, 2003). Il conflitto tra narcisismo e socialismo è centrale nell’Edipo in quanto è la dimensione edipica ed il ruolo terzo del padre ad aprire a possibili trasformazioni, promuovendo disidentificazioni e movimenti di allontanamento rispetto alla seduzione del socialismo e dell’indifferenziato, incoraggiando ad avventurarsi nella vita e a vivere le passioni.

Around the end

Se si nasce si muore eppure quanto è difficile far entrare nella realtà della vita l’idea della morte

 (Freud, 1915)

Tematica che spaventa e riguarda tutti e terreno fondamentale d’indagine in psicoanalisi, la morte, è sempre stata un tema molto caro e presente nel pensiero di Gaburri. La morte è intesa come ciò che spinge a fare spazio all’inedito, al non ancora pensato; come qualcosa che apre a possibilità nuove. La morte, e in particolare la preconcezione della morte, non affrontata come contrapposizione alla vita ma come condizione dell’esistere.

Scrive Gaburri nel 2011, a malattia già inoltrata, in occasione del 1° colloquio italo-spagnolo  :“la passione dei geni creativi (i mistici di Bion) che per tutta la vita si sono dedicati  a ricerche scientifiche o artistiche, non si spegne con l’avvicinarsi della morte. Un caso esemplare di questa evenienza è l’opera di Michelangelo che, animato dalla passione, riuscì a lavorare fino agli ultimi giorni di vita rappresentando se stesso come un Cristo Morto sostenuto da un fantasma materno nell’ineguagliabile “pietà Rondanini”. In quest’opera artistica esemplare […] affiora la potenza della passione che travalica la morte”.(Leggi la Relazione )

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La sublimazione diventa il prototipo di ogni possibile processo di soggettivazione e di umanizzazione della vita, allargando il proprio mondo alla creatività e al pensiero.

Nonostante la morte sia il limite inevitabile dell’esistenza umana, “il fatto di tenere così lontano il pensiero della morte e le paure connesse, finisce per conferire al vivere un andamento affannoso e affannato le cui espressioni estreme non sono tanto la perenne mancanza di tempo, ma l’illusione di poter fare a meno del tempo” (Rustad, 2001). Ecco che la mentalità di gruppo, l’identificazione a massa, il socialismo, diventa tanto più seducente per l’individuo in quanto prospetta un mondo senza tempo, in cui la caducità ed il terrore della morte sono allucinatoriamente assenti.

Nel 2009, il Professor Gaburri venne invitato all’Università Cattolica di Milano a partecipare ad una tavola rotonda dal titolo “Around the end, intorno alla morte”.

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La tavola rotonda, organizzata dal Professor Osmano Oasi vede dialogare intorno al tema della morte il Prof. Gaburri, il Prof. Marco Sarno e il Prof. Marco Riva a partire da un filmato (prodotto dal Dr. Riva) in cui Freud, Jung, Bion, Lacan e Musatti parlano della morte.

Freud, nel 1938, prossimo ormai alla morte, parla delle pulsioni di vita, vero e proprio motore per l’inconscio.

Jung, nel 1959, descrive il distacco della psiche con le direttive di spazio e tempo, sancendone una sorta di immortalità della stessa e facendo della morte un traguardo per un inconscio minacciato.

Lacan definisce la morte come territorio della fede e afferma anche che la consapevolezza della sua non esistenza renderebbe la vita insopportabile.

E’, guarda a caso, Wilfred Bion che si addentra verso il nocciolo della questione, toccando la tematica principe dell’angoscia di morte in un malato terminale. Bion ritiene ingiusto definire una malattia o una persona come “terminale”, poiché bisogna considerare la prospettiva di morte in funzione del tempo che ancora deve venire e che deve essere vissuto al meglio. Ed è proprio su questo periodo che è ancora da vivere che la psicoanalisi deve spremere le sue forze, levando quell’angoscia che lega l’uomo al tema della morte.
«La morte non è una malattia, non prevede una cura, eppure durante la nostra esistenza ne siamo angosciati – spiegava Eugenio Gaburri-, ma la spiegazione è da cercare dentro Bion, quando ci suggerisce che ciò deriva dall’accanimento delle cose che non sappiamo spiegarci come affrontare. La paura della morte attiva quindi la psicoanalisi proprio perché la morte è irreversibile».

Gaburri sollecita ad affrontare questo limite per giungere alla rielaborazione del lutto e riuscire a sconfiggere l’atteggiamento “ipocrita” dell’uomo.

Il lutto è l’angoscia che si produce nell’emergere dalla condizione mentale indifferenziata. Ecco che “il lavoro psichico è innanzitutto il lavoro del lutto, che non riguarda solo gli aspetti di mancanza ambientale traumatica, ma anche il dolore e la paura di emanciparsi dai legami a massa” (Gaburri & Ambrosiano, 2003).

A Gaburri si deve la trasmissione di un pensiero libero e autonomo, caratterizzato da risposte non saturanti e suscettibili di colonizzare il pensiero dell’altro, ricordando sempre il pericolo di illusori passepartout. Essere psicoanalisti comporta un’assunzione di responsabilità e la costante riflessione sui nostri disagi personali e collettivi.

La passione per la ricerca del Professor Gaburri, per il gusto di pensare insieme, sono rinvenibili nelle pagine, nei testi che ha lasciato, come giacimento culturale per le nuove generazioni con l’auspicio che le sue idee percorrono il tempo a venire rimanendo feconde e aperte alla creatività di chi le incontra.

D’altronde una citazione tanto cara a Freud, dal Faust di Goethe, sembra racchiudere questo auspicio e l’invito ai futuri analisti a prendere le distanze dal socialismo, dall’identificazione a massa , dagli “abiti usati” e a mantenere viva la tensione conoscitiva della disciplina psicoanalitica:

Was du ererbt von deinen Vatern hast,

Erwirb es, um es zu besitzen.

[Ciò che hai ereditato dai padri,

Riconquistalo, se vuoi possederlo davvero.]

Tenere la rotta nel mare della psicoanalisi

Il 25 Gennaio 2014 si è tenuta presso la Casa della Cultura di Milano una giornata di lavoro in memoria del Prof. Gaburri, occasione per ricordarlo come persona e per ricordare gli importanti contributi del suo pensiero per la psicoanalisi.

La giornata si è aperta con un breve filmato del Dr. Marco Riva intitolato “Around Bion” e poi risoprannominato “Around Gaburri”.

Il pensiero di Gaburri può essere interpretato come un’opera musicale che lascia ad ognuno libertà di interpretazione e che proprio per questo permette l’incontro tra persone, pensieri diversi.

Il ricordo del Professore è andato articolandosi mano a mano grazie agli apporti dei relatori che hanno saputo intrecciare aspetti della persona, dell’uomo e del pensatore attraverso il racconto di esperienze che sono state generate dall’incontro con lui.

Durante la mattinata, ognuno dei relatori ha sottolineato un aspetto del pensiero e della persona di Eugenio Gaburri: la tenerezza, l’irrequietezza e la dimensione sociale.

Il primo a parlare è stato il Prof. Claudio Neri che ha presentato una relazione su “La tenerezza e la capacità di relazione” in cui la tenerezza emerge come un costrutto psicoanalitico ben preciso, con nuovi significati rispetto a quelli legati al senso comune, e come caratteristica dell’uomo Gaburri, dotato di una capacità di relazionalità interpersonale e interna in grado di rigenerare continuamente l’interesse per l’altro, di fargli spazio e di fungere da calco per il suo sviluppo.

La relazione del Dott. Jaffè, “Il campo gruppale. Eugenio Gaburri lungo il filo dei suoi personaggi: Conrad, Kurosawa, Velasquez … e altri ancora” ci mostra un affresco gruppale, fatto di personaggi cari e discussi dal Professore, che ne hanno costituito l’animo.

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Ecco allora prendere vita il personaggio del bambino zoppo, dalla favola de “Il pifferaio magico” dei fratelli Grimm, unico bambino, che proprio grazie a questa sua specificità si salva dall’indifferenziato della comunità in cui vive; di Dersu Uzala, del regista Kurosawa, personaggio semi selvaggio dalla conoscenza magico-intuitiva che permette la buona riuscita del viaggio grazie alla sua grande intelligenza, al suo istinto e all’acuto senso di osservazione; de “Il coinquilino segreto” di Conrad, che esemplifica il continuo lavoro tra Sè e il doppio per poter lavorare nell’incontro col paziente; “Las Meninas” di Velazquez e le successive reinterpretazioni, trasformazioni, di Picasso che parlano di un analista che non solo entra nel campo, come Velazquez, ma che anche, all’interno del campo, non si sottrae al dialogo con l’altra parte di Sè e mostra come da questo dialogo interno si può creare un campo allargato con personaggi multiformi collegati tra loro.

Il Dott. Marco Sarno, parte da una caratteristica del pensiero scientifico del Prof. Gaburri, il coraggio di non fermarsi di fronte a temi complessi e nuovi. E sceglie come parola guida il “degrado”, concetto presente nel libro Ululare coi lupi e che trova uno sviluppo nel lavoro del 2005 “Paranoia primaria e degradazione” e nel lavoro del 2007 “La promessa delirante e i pifferai magici”. Sottolineando la passione del Prof. Gaburri per la ricerca, la sua competenza gruppale, sviluppata proprio a partire dal concetto di “degrado”, e ricordando che indagare lo spirito dei tempi e dei luoghi è fin da Freud una frontiera in continua espansione per la psicoanalisi, il Dott. Sarno ci propone una ricerca di psicoanalisi allargata sugli aspetti intrapsichici e intersoggettivi che caratterizzano le culture criminali in Italia.

Il Dr. Conforto, nella sua relazione, ricorda Gaburri anche attraverso questa citazione di Freud: “ La vita si impoverisce e perde interesse se non è lecito rischiare quella che, nel gioco dell’esistenza, è la massima posta cioè la vita stessa”. Ed è proprio la preconcezione della morte a permetterci di non evacuare l’angoscia per la caducità dell’esistenza e ad avventurarci nei legami affettivi, nelle passioni, nella sessualità … nella vita.

ll pomeriggio ha visto riuniti in una tavola rotonda i Prof. Antonino Ferro, Martin Cabrè, Fausto Petrella e Massimo Recalcati che hanno continuato a ricordare il Professor Gaburri, fornendone una presentazione tridimensionale a completamento del quadro iniziato nella mattina.

Bibliografia

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Gaburri E. (1979). Enzo Funari. La struttura e il desiderio. Rivista di Psicoanalisi, vol. 25, pp. 473-474.

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Gaburri E. (1982). Una ipotesi di relazione tra trasgressione e pensiero. Rivista di Psicoanalisi, vol. 28 (4), pp. 511-25.

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Gaburri E. (1990). L’ultimo Freud e le premesse della psicoanalisi attuale. Rivista di Psicoanalisi, vol. 36 (4), pp. 831 – 61.

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Gaburri E. (2003). Ululare con i lupi. Conformismo e rêverie. Con Ambrosiano L. Bollati Boringhieri, Torino.

Gaburri E. (2006). La promessa delirante e i pifferai magici. Psiche, 2, pp. 13-29.

Gaburri E. (2008). La spinta a esistere. Note cliniche sulla sessualità oggi. Con Ambrosiano L. Borla, Roma

Gaburri E. (2013). Pensare con Freud. Con Ambrosiano L. Raffaello Cortina, Milano.

Gaddini Eugenio
Eugenio Gaddini

Eugenio Gaddini

Maestri della psicoanalisi 

A cura di Darwin Mervoglino

Gaddini Eugenio (Cerignola, 1916 – Roma, 1985) 

Presentazione

Eugenio Gaddini è stato uno psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana e della International Psychoanalytical Association. Ha dato un contributo fondamentale alla formazione di molti analisti italiani e all’ingresso della psicoanalisi italiana nella comunità psicoanalitica internazionale.
Gli interrogativi fondamentali cui Gaddini ha tentato di rispondere riguardano la nascita psicologica del soggetto e l’azione terapeutica della psicoanalisi. La sua ricerca si è incentrata sui modi in cui si organizza l’attività mentale nei primissimi tempi della vita, sul rapporto fra mente e corpo, sui processi evolutivi grazie ai quali si forma psicologicamente un individuo e sullo sviluppo della sua capacità di mettersi in rapporto con la realtà e con l’altro. Si è inoltre molto occupato del metodo psicoanalitico nel continuo collegamento fra teoria e clinica, fornendo un importante contributo sia all’approccio psicoanalitico alle patologie non-nevrotiche che all’individuazione delle aree non-nevrotiche nei pazienti nevrotici.

Gaddini english Eugenio Gaddini was a psychoanalist of the Italian Psychoanalytic Society and of the International Psychoanalytic Association. He gave a very important contribution to the training of many Italian analists and to the admission of Italian psychoanalysis in the International psychoanalytic community.
The fundamental questions Gaddini tried to answer concern the psychological birth of the subject and how psychoanalysis operates. His research focused on the ways in which mental activity organizes itself in the earliest times of life, on the relationship between mind and body, on the developmental processes thanks to which an individual psychologically forms himself and on the development of his ability to take in the relation with the reality and the other. He was very concerned as well to psychoanalytic method in its continuous connection between theory and clinic, giving an important contribution both for the psychoanalytic approach to non-neurotic pathologies and for the attention to non-neurotic areas in any patients.

La vita 

gaddini foto_piccola_Eugenio Gaddini nasce il 18 gennaio del 1916 a Cerignola, in provincia di Foggia. La sua famiglia d’origine si costituisce fin dall’inizio in una situazione conflittuale, che ne caratterizzerà gli sviluppi. Il padre, Guglielmo Gaddini, proveniva da una famiglia riminese di intellettuali antifascisti e aveva tentato, senza fortuna, un’attività imprenditoriale nei pressi di Cerignola. La madre, Palmira Strafile, molto più giovane di lui, proveniva da una famiglia pugliese di origini modeste e legata alla terra, le cui attività imprenditoriali durante il primo conflitto mondiale avevano però avuto molta fortuna. I due, pur di sposarsi, avevano inizialmente organizzato una “fuga”, usanza del tempo per quelle coppie che volevano sposarsi senza il consenso dei genitori. Il conflitto tra il nonno materno e il padre di Eugenio caratterizzerà le dinamiche della famiglia esitando nella rottura definitiva tra i due.
Gaddini, sesto di nove figli, ultimo maschio, fu molto presto allontanato dalla famiglia insieme con la sorella Ester e affidato ad alcuni amici di Foggia. Contribuì a questo allontanamento, oltre alla situazione familiare conflittuale, la malattia della sorella Rosaria, più grande di lui di soli tredici mesi, che la condurrà alla morte a soli 14 anni. Egli rievoca la drammaticità della vicenda nel racconto Ragazzi (1936).
In seguito alla chiusura dell’attività paterna, il nonno decide il trasferimento della famiglia a Napoli. Gaddini rimane a Napoli fino all’età di 17 anni, in una situazione familiare in cui al padre era impedito di vivere con la famiglia. La madre di Eugenio era presente, ma emotivamente distante, mentre il legame con la nonna materna fu, fin dall’inizio, di profonda vicinanza.
Nel 1933 Gaddini si trasferisce a Roma per volere del nonno. Qui termina gli studi classici e partecipa alla vita intellettuale dell’epoca, fondando insieme a due intellettuali d’avanguardia, Ventruoli e Stradone, una rivista letteraria: Accademia.
Nel 1936 si iscrive alla Facoltà di Medicina e si laurea il 15 Luglio 1942, discutendo una tesi su un trattamento specifico delle leucemie. Sono gli anni del Secondo Conflitto Mondiale e Gaddini viene destinato all’Ospedale militare di Mirano Veneto come Allievo Ufficiale di Marina. Dopo l’Armistizio, nel Settembre del 1943, lascia la Marina e fa ritorno a Roma.
Il 1945 è un anno caratterizzato dalla conquista di stabilità. Anzitutto si sposa con Renata De Benedetti, con cui avrà due figli, Silvia e Andrea. Con Renata condividerà per il resto della vita, oltre agli interessi personali, anche quelli scientifici e professionali. Nello stesso anno diviene Primario dell’Ospedale della Croce Rossa di Forte Aurelio, a Roma, mantenendo l’incarico fino al 1956.
Fin da subito Gaddini si era interessato agli aspetti psicologici dei suoi pazienti ed alle malattie che egli considerava di origine psicofisica. Nel 1946 inizia un’analisi personale con Emilio Servadio e successivamente la formazione psicoanalitica. Nel 1953 diventa Socio della Società Psicoanalitica Italiana e negli anni successivi contribuisce in modo fondamentale a riorganizzare la SPI, tentando nel contempo di fornirle un respiro internazionale. Dal 1967 al 1969 è Vice presidente della SPI; nel 1970 diviene didatta; è Presidente dal 1978 al 1982. Collabora attivamente con l’International Psychoanalytical Association dal 1963, come membro di molti comitati di programma dei congressi dell’IPA e di commissioni per lo sviluppo delle società psicoanalitiche di altri Paesi. Nel 1983 è Chairman della Conferenza sull’analisi di training di Madrid; nel 1985 è Co-Chairman alla Conferenza sull’analisi di training di Amburgo.
Eugenio Gaddini avrebbe dovuto far parte del comitato scientifico del Congresso Internazionale di Montreal del 1987. Purtroppo non gli fu possibile a causa di una embolia polmonare che ne causò la prematura scomparsa, il 27 Settembre del 1985.

gaddini foto_grande_2Il contributo alla psicoanalisi 

Il contributo di Gaddini alla psicoanalisi è vasto ed articolato. Qui si tenterà di fornire alcune linee guida del pensiero dell’autore, rimandando il lettore interessato all’ampia bibliografia disponibile. Per avere un’idea del contesto teorico in cui si colloca il suo pensiero è importante tenere presente che Gaddini fu particolarmente vicino alla psicoanalisi anglofona. Due punti di riferimento del suo pensiero psicoanalitico sono stati Donald W. Winnicott e Phyllis Greenacre, con i quali ebbe occasione di intrattenere anche rapporti personali.

La questione mente-corpo e i processi imitativi

Secondo Gaddini la psicoanalisi considera il corpo e la mente sotto l’aspetto di un continuum funzionale in cui l’elemento fondamentale è un processo di differenziazione del funzionamento mentale dal funzionamento fisiologico.  Esso avviene attraverso l’apprendimento mentale del funzionamento fisiologico, che si realizza attraverso manovre protettive (precursori delle difese) fondate sulle percezioni imitative (1969a). Il primo modello, secondo Gaddini, è quello dell’imitare per percepire, il cui significato risiede nel fatto che l’infante inizialmente non percepisce lo stimolo reale ma la modificazione avvenuta nel proprio corpo. In questo senso l’identità di percezione acquista un significato nuovo: percepire costituisce inizialmente la garanzia della propria esistenza, dell’esistenza di sé. E’ questo il modello dell’imitare per essere, che si instaura gradualmente con lo scopo di ristabilire la fusione. L’imitazione ha dunque una funzione omeostatica perché, se essere l’oggetto vuol dire “essere tout court”, questo comporta contemporaneamente la strenua difesa dalla minaccia dell’alterità dell’oggetto.
Questa concezione induce Gaddini a distinguere un’area psico-sensoriale, legata a fenomeni primari di tipo imitativo, da un’ area psico-orale, connessa cioè alla possibilità dell’investimento d’oggetto.  Vi è dunque, in questo modello, l’ipotesi di fondo di un’attività mentale che si differenzia dal somatico attraverso un processo di elaborazione del funzionamento fisico. Ne consegue che, nei primissimi tempi di vita dell’infante, il funzionamento psichico sia embricato con quello fisiologico e dipenda in gran parte da esso.
E’ in questo contesto teorico che Gaddini sviluppa le sue concezioni sulle sindromi psicofisiche (termine che egli preferiva a quello di “psicosomatiche”) ed in particolare sulle sindromi datate (1980c): le sindromi psicofisiche dei primi diciotto mesi di vita, la cui caratteristica fondamentale è che non si presenterebbero prima di un determinato tempo dalla nascita. E’ in questo senso che Gaddini le definisce datate. Esse sono il mericismo (o ruminazione), che comparirebbe a partire dal terzo mese; la dermatite atopica, a partire dal sesto mese; l’asma, che non comparirebbe prima della fine del primo anno. Tali sindromi si riferiscono ad una patologia della mente relativa al distacco e alla separatezza e si sviluppano, come soluzioni difensive, in un momento dello sviluppo psichico in cui il problema della separatezza emerge pressante.
L’aspetto fondamentale di questa concezione sta nel fatto che non vi sarebbe un ritorno al somatico per inaccessibilità del mentale, ma una trasformazione da parte del mentale del funzionamento somatico. La patologia psicofisica sarebbe il risultato di un’attività creativa della psiche e, pertanto, la fantasia non sarebbe assente in essa, ma espressa attraverso il corpo. A tale riguardo Gaddini parla di protofantasie nel corpo, distinguendole dalle più evolute fantasie sul corpo(1981a).

La costruzione del senso di sé 

Nel modello teorico proposto da Gaddini, sulla linea di Winnicott, il soggetto si costituisce attraverso un processo di costruzione di un senso di continuità di sé. A partire da una condizione iniziale di non distinzione fra sé e non-sé prende le mosse, come abbiamo visto, un graduale processo di differenziazione che, sulla base dei processi imitativi dell’area psicosensoriale, conduce ad una Organizzazione Mentale di Base (OMB). La OMB (1980c) è dunque una prima forma di organizzazione psichica. Essa ha carattere autarchico e magico, e il suo scopo è di ristabilire in modo onnipotente la fusione del Sé con l’oggetto. In tal senso tale organizzazione è qualcosa di diverso dalla struttura psichica descritta da Freud. La OMB rappresenta dunque il primo nucleo psichico operativo formatosi allo scopo di fronteggiare la graduale esperienza della separatezza.
Proprio l’esperienza graduale di separatezza determina, secondo Gaddini, lo sviluppo di meccanismi introiettivi. I processi dell’introiezione sono successivi ai primissimi tempi della vita e cominciano ad instaurarsi nel momento in cui si istituisce una differenza tra dentro e fuori. Il modello psicofisico sulla base del quale si sviluppa l’introiezione è quello dell’incorporazione, cioè il meccanismo del “mettere dentro”. L’integrazione di processi imitativi e processi introiettivi, infine, dà luogo alle identificazioni.
Con i processi dell’identificazione siamo nell’area di una soggettività che può rapportarsi all’oggetto percepito come esterno. E’ molto importante rimarcare come, per Gaddini, tutti questi processi appartengano ad aree di funzionamento psichico, seppure primitive, e non ad aree di funzionamento puramente fisiologico.
Si può dunque sostenere che il modello gaddiniano si occupa prevalentemente del protomentale e della sua evoluzione in ciò che diverrà la struttura psichica descritta da Freud. Una struttura, quest’ultima, che tende allo sviluppo dell’autonomia attraverso il riconoscimento della realtà e il rapporto con un oggetto distinto da sé. La questione della relazione oggettuale, strettamente connessa a tutto questo, incrocia quindi in modo pressante il rapporto del modello di Gaddini con la teoria strutturale e la teoria pulsionale freudiane.

La relazione oggettuale

La relazione oggettuale – intesa come la possibilità del soggetto di entrare in rapporto con un oggetto distinto da sé – è in stretta connessione con la possibilità dell’investimento oggettuale e, quindi, con la dimensione pulsionale.
Come abbiamo detto sopra, nel modello gaddiniano la OMB rappresenta la prima organizzazione psichica risultante dall’esperienza della separatezza, che attua delle manovre difensive di tipo imitativo volte a negare l’alterità dell’oggetto. La natura paradossale di un tale processo risiede nel fatto che la prima esperienza di un Sé separato è un’esperienza di angoscia, che Gaddini definisce come angoscia di integrazione (o angoscia di perdita di sé). L’evento più straordinario che si verifica nel Sé sopravvissuto alla separazione è l’emergenza delle pulsioni istintuali (1984c). L’autore sostiene infatti una ipotesi di emergenza delle pulsioni nel momento di costituzione del Sé.
Le pulsioni istintuali esisterebbero fin dalla nascita, in ossequio alla teoria freudiana, ma sarebbero inattive. Emergerebbero, cioè entrerebbero in funzione, nel momento in cui si forma un sé separato che può entrare in rapporto con un oggetto percepito come altro da sé. (Va rimarcato che Gaddini, pur sottolineando la differenza fra pulsioni e istinti, usa spesso, confusivamente, i due termini come sinonimi). Nel modello gaddiniano sembra prevalere l’idea che non sia possibile parlare di primato della pulsione. Il primato riguarda la costituzione dell’unità di sé, cioè del soggetto, e la pulsione ne rappresenta una funzione in direzione dell’oggetto. E’ inoltre possibile osservare come egli consideri in primo piano il ruolo dell’aggressività in questo processo. Gaddini sostiene infatti che, all’inizio, le cariche aggressive sarebbero rivolte all’esterno, mentre le cariche libidiche all’interno. Solo gradualmente la libido verrebbe portata all’esterno (poi verso l’oggetto) proprio attraverso le cariche aggressive.
Un altro elemento fondamentale che istituisce la possibilità della relazione oggettuale è il processo di scena primaria e formazione del padre (1974a). All’interno della relazione fusionale con la madre, in cui l’infante va gradualmente differenziandosi, si sviluppa un ulteriore processo di trasformazione della madre in una figura che è percepita prima come estranea, aliena. Solo in un secondo momento, gradualmente, ella è percepita come esterna. In questo processo il padre è percepito inizialmente dall’infante come la madre estranea che attacca la fusione imitativa. Solo gradualmente il padre sarà prima percepito in quanto aspetto dicotomico della madre estranea e successivamente, gradualmente, come oggetto differenziato e separato dalla madre.
Si comprende come il processo della scena primaria e l’emersione del padre dalla madre rappresentino l’elemento fondamentale di uscita del bambino dall’illusione magica dell’identità imitativa fusionale. Inoltre, questa concezione di processo della scena primaria può fornire una lettura alternativa al concetto di fantasma originario di scena primaria, di derivazione filogenetica. In questo senso, infatti, essendo il processo di separazione ed il vissuto di separatezza delle esperienze universali, la scena primaria può essere considerata come derivato di una esperienza esclusivamente ontogenetica.

Rappresentazione e simbolizzazione

Il modello teorico di Gaddini, come abbiamo visto, è fondato sullo studio dei processi attraverso i quali si costituisce un senso della continuità di sé, a partire dalle primissime esperienze di vita dell’infante. Si tratta, utilizzando una terminologia diversa da quella strettamente gaddiniana, del processo di costruzione del soggetto (o soggettivazione).
Se il concetto di apprendimento mentale del funzionamento fisiologico nel continuum corpo-mente può   far pensare ad una visione lineare-genetica dello sviluppo psichico, ad uno sguardo più approfondito si coglie chiaramente l’impegno di Gaddini nel mostrare la creatività dell’attività psichica, già a partire dai primi modelli di funzionamento mentale. Di fatto, egli sottolinea la drammaticità del processo di costruzione di sé. Un processo che richiede la capacità di sostenere un’angoscia profonda, l’angoscia di perdita di sé (integrazione) e che consente l’invenzione dello spazio e del tempo (1978), inizialmente non presenti. Tutto questo è alla base dello sviluppo dei processi rappresentazionali che, come l’angoscia, sono strettamente connessi all’emersione pulsionale e all’investimento oggettuale.
Il processo di costruzione del soggetto è, dunque, un processo attraverso il quale l’attività psichica, agli albori embricata con il corpo, si emancipa dai funzionamenti fisiologici assumendo un senso suo proprio che non ha più a che fare col funzionamento fisico. La costruzione della soggettività diviene la costruzione della rappresentazione di sé, di un soggetto che continuamente crea se stesso.
In questo senso l’attività presimbolica della mente infantile (1984c), teorizzata da Gaddini, rappresenta anche il motore continuo di quei processi elaborativi che determinano l’attività psichica di simbolizzazione.

Aspetti della clinica

Nel continuo rimando dalla teoria alla clinica e dalla clinica alla teoria, che caratterizza la psicoanalisi, il contributo del pensiero di Gaddini risiede nella continua attenzione che egli poneva nel cercare di distinguere, in analisi, quei funzionamenti che appartengono all’area psico-sensoriale da quelli che appartengono all’area psico-orale. In altri termini, il suo impegno è sul come comprendere quando, con il paziente, ci si trovi nell’area del conflitto pulsionale e della relazione oggettuale e quando, invece, ci si trovi nell’ambito della relazione basata sul funzionamento primario imitativo.
Risulta necessaria, a questo proposito, una precisazione. E’ chiaro che una tale distinzione di funzionamenti ha un ottimo valore in termini esplicativi, ma va declinata in maniera non radicale nella clinica. In tal senso Gaddini è attento a mostrare modalità di funzionamento prevalenti,  a volte in dati i momenti, in tutti i soggetti, e non ad incasellare certi funzionamenti in determinate patologie.
L’attenzione ai processi imitativi che possono attivarsi in ogni analisi si condensa nel concetto di transfert imitativo. Il transfert imitativo è una difesa dal riconoscimento dell’alterità dell’analista e, quindi, della propria separatezza. Esso può attivarsi ad un livello diverso rispetto al transfert oggettuale, come una sorta di “spinta a fare uno”, difendendosi dall’angoscia. Per comprendere meglio la portata di questo concetto occorre sottolineare che se è vero che in ogni transfert vi è una tendenza all’evitamento della separatezza, è altrettanto vero che qualcosa dell’analizzando viene trasferito sull’analista in quanto altro. Nel transfert imitativo, invece, non vi sarebbe trasferimento bensì imitazione. E’, questa, la dimensione del bisogno prevalente su quella del desiderio, e diventa fondamentale che l’analista sia in grado di riconoscerla.
E’ importante rimarcare che, essendo stato Gaddini anche un formatore di analisti, la sua attenzione al problema delle analisi imitative (1985d) era anche molto legata al problema delle analisi di training dei candidati.

Bibliografia

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1975a La formazione del padre nel primo processo infantile. In: Scritti 1953-1985 Cortina, Milano, 1989, p.362
1975b Una nota sui processi creativi. In: Scritti 1953-1985 Cortina, Milano, 1989, p.370
1975c Ricerca, controversie ed evoluzione della tecnica terapeutica in psicoanalisi. In: Scritti 1953-1985 Cortina, Milano, 1989, p.375
1978 L’invenzione dello spazio in psicoanalisi. In: Scritti 1953-1985 Cortina, Milano, 1989, p.387
1976 Note su alcuni fenomeni del processo analitico. In: Scritti 1953-1985 Cortina, Milano, 1989, p.405
1977 Seminario sul dolore mentale. Rivista di psicoanalisi, XXIV, 3, sett.dic.1978. Il Pensiero Scientifico Editore, Roma. Tenuto al XV Convegno Scientifico della S.P.I. Bologna, 22-23 ottobre 1977.
1978a Dialogue on “Different Types of Anxiety and their Handling in the Psychoanalytic Situation” (Dialogue Report). Int.J.Psycho-Anal., (1978) 59, 237. Baillière Tindall for the Institute of Psycho-Analysis, London. Reported by Eugenio Gaddini, Rome and Albrecht Kuchenbuch
1978b Sessualità (voce della Enciclopedia italiana). Lessico Universale Italiano Treccani. Ist. della Enciclopedia Italiana (G. Treccani), Roma 1978.
1978c Stadi nell’organizzazione del sé e dell’angoscia. Inedito. Presentato a Firenze il 12 ottobre 1978.
1979a Intervista in Argentina. Boletìn de Candidatos, anno IV, n.9, giugno 1979.
1979b Il tempo di un anniversario. In: Scritti 1953-1985 Cortina, Milano, 1989, p.427
1979c Sigmund Freud a Lavarone. In: Scritti 1953-1985 Cortina, Milano, 1989, p.430
1979d Seminari Argentini In: Scritti 1953-1985 Cortina, Milano, 1989, p.433
1980a Relazione introduttiva al 4° Congresso nazionale della Società psicoanalitica italiana In: Scritti 1953-1985 Cortina, Milano, 1989, p.462
1980b Preghiera e onnipotenza. In: Scritti 1953-1985 Cortina, Milano, Appendice III, p. 827
1980c Note sul problema mente-corpo. In: Scritti 1953-1985 Cortina, Milano, 1989, p.470
1980d Discussione del lavoro presentato dal dottor Feldman. In: Scritti 1953-1985 Cortina, Milano, 1989, p.502
1981a Fantasie difensive precoci e processo psicoanalitico. In: Scritti 1953-1985 Cortina, Milano, 1989, p.508
1981b Itinerari nella creatività di Bion. In: Scritti 1953-1985 Cortina, Milano, 1989, p.521
1981c Acting out nella situazione analitica. In: Scritti 1953-1985 Cortina, Milano, 1989, p.535
1982a Il problema mente-corpo e la psicoanalisi. In Cervello e Sogno. Neurobiologia e Psicologia. Feltrinelli Editore, Milano 1982
1982b Discorso di apertura al V Congresso Nazionale della S.P.I. In: Scritti 1953-1985 Cortina, Milano, 1989, p.547
1982c Terapia e conoscenza in psicoanalisi. In: Scritti 1953-1985 Cortina, Milano, 1989, p.551
1982d Trad.: D.W.Winnicott: Piggle. Una bambina (con R.Gaddini). Boringhieri Editore, Torino, 1982
1982e Il Sé in psicoanalisi. In: Scritti 1953-1985 Cortina, Milano, 1989, p.559
1982f La preistoria dell’individuo torna a galla nel sonno. In: Scritti 1953-1985 Cortina, Milano, 1989, p.570
1983a Gli stati di non-integrazione nell’esperienza gruppale. In: Scritti 1953-1985 Cortina, Milano, 1989, p.576
1983b Sulla traduzione italiana del lavoro di Melanie Klein Der Familienroman in statu nascendi. In: Scritti 1953-1985 Cortina, Milano, 198, p.590
1984a Trauma della nascita e memoria della nascita. In: Scritti 1953-1985 Cortina, Milano, 1989, p.592
1984b La frustrazione come fattore della crescita normale e patologica. In: Scritti 1953-1985 Cortina, Milano, 1989, p.603
1984c L’attività presimbolica della mente infantile In: Scritti 1953-1989 Cortina, Milano, 1989, p.618
1984d Psicologia in Orwell. In: Scritti 1953-1985 Cortina, Milano, 1989, p.633
1984e Se e come sono cambiati i nostri pazienti fino ai nostri giorni. In: Scritti 1953-1985 Cortina, Milano, 1989, p.644
1984f L’ultimo Bion. In: Scritti 1953-1985 Cortina, Milano, 1989, p.663
1984g Il processo analitico (seminari). Inedito. Seminari tenuti presso il C.P.R. dal 5 novembre 1983 al 2 giugno 1984.
1984h La discontinuità come unica dimensione possibile della continuità nella crescita individuale. In: Scritti 1953-1985 Cortina, Milano, 1989, Appendice III, p.836
1985a Genesi della creazione in arte. Dipinti di Ennio Calabria. In: Scritti 1953-1985 Cortina, Milano, 1989, p.669
1985b La nascita, la crescita. In: Scritti 1953-1985 Cortina, Milano, 1989, p.702
1985c La maschera e il cerchio. In: Scritti 1953-1985 Cortina, Milano, 1989 , p.731
1985d Il Candidato-paziente e l’istituzione. Inedito. Nota: Relazione presentata alla Riunione scientifica dl Comitato Generale del training della S.P.I. “Presenza del paziente e del candidato nei reciproci rapporti con l’analista e con l’istituzione psicoanalitica”. Firenze, 26-27 gennaio 1985.
1986b Creatività tra fantasia a immaginazione. Atti Convegno sull’immaginario. Venezia, 23.24 marzo, 1985

Bibliografia su Gaddini 

Volumi

Genovese C. (a cura di) Corpo-mente e relazione, Dunod, Milano 1998.
Lambertucci-Mann S. Eugenio Gaddini, Psychanalystes d’aujourd’hui, Presses Universitaires de France (PUF), Parigi, 1999.
Mascagni M.L. (a cura di)  Studi sul pensiero di Eugenio Gaddini,  Soteria, Editore Metis, Chieti, 1994.

Articoli 

Carratelli T.I., Eugenio Gaddini, Ricercatore di frontiera in psicoanalisi.  Psicoanalisi, 1,2,1997,
Ferretti Levi Montalcini A., Sulla imitazione di Eugenio Gaddini: elementi per una discussione.  Psicoanalisi,  1,2,1997.
Manfredi Turillazzi S., Ricordo di Eugenio Gaddini, maestro di psicoanalisi.  Rivista di Psicoanalisi, 32, 1986.
Genovese C., Aggressività: istinto o pulsione?. Psicoterapia Psicoanalitica, 12, 2, 2005.
Genovese C., Organizzazione mentale di base: Eugenio Gaddini e il percorso circolare Freud-Winnicott-Freud. Rivista di Psicoanalisi, 55, 2009.

Riferimenti in rete 

www.istitutoricci.it

Generali Clements Lina

I maestri della Psicoanalisi 

Lina Generali Clements

A cura di Riccardo Brunacci, Renata Rizzitelli e  M.Angiola VignaTaglianti

Profilo di Lina Generali Clements
La dottoressa Lina Generali Clements nasce nel 1923 in provincia di Cremona; laureata in medicina, si specializza in neurologia e pediatria. Già in questo periodo scopre la passione per il lavoro con i bambini. Citando dall’ Intervista a Lina Clements, “Sulla storia della psicoanalisi infantile in Italia”, a cura di Maria Luisa Algini, Borla editore:
“L’idea di lavorare nel campo dei disturbi psicologici infantili è nata dall’esperienza fatta in clinica pediatrica come studente, prima, e come specializzando in Pediatria, poi. Mi aveva colpito allora la sofferenza a cui i bambini andavano incontro quando erano lontani dai genitori, sofferenza che niente poteva alleviare, nemmeno l’ambiente accogliente, caldo e pieno di affetto quale era il Reparto in cui a quel tempo lavoravo.
Se ci ripenso, devo dire che la mia successiva scelta non è stata mossa da sollecitazioni culturali o ambientali: la verità è che non avrei potuto fare altro”.
Come psicoanalista, la sua formazione avviene a Milano: ella infatti effettua la propria analisi didattica con Musatti, facendo poi un secondo training a Londra, nel gruppo kleiniano.
A Milano la dottoressa opera come libera docente in neuropsichiatria infantile e professore incaricato di psicoterapia all’Università fino al trasferimento a Londra, dove approfondisce la sua competenza sia per quanto riguarda il lavoro con gli adulti, sia per quello con i bambini, divenendo esperta anche di osservazione del bambino nel rapporto con la madre e l’ambiente familiare, l’ “Infant observation”. Le sue maestre sono Martha Harris e Esther Bick. Ai maestri, italiani e londinesi, che l’hanno accompagnata nel suo percorso di formazione, la dottoressa Generali, nella medesima intervista, mostra la propria riconoscenza:
“La mia grande fortuna son stati i miei compagni di viaggio, dai docenti dell’Università e della Scuola Psicoanalitica ai miei compagni di corso, agli assistenti di sala. Penso che anche loro avessero ascoltato e che per questo siano stati i miei migliori alleati, sempre disposti ad aiutarmi, e a tollerarmi senza farmelo pesare.
I loro nomi? È un elenco molto lungo; il prof. Musatti, e i suoi allievi; non ultima Vanna Giaconia, che è stata come una sorella per me.
Più tardi, dei miei compagni di viaggio citerò soltanto alcuni nomi: Ruth Riesemberg, Martha Harris, Hanna Segal, Betty Joseph, Nuscia Bick, tutte persone indimenticabili, e col passare del tempo a me sempre più care”.
E ancora:
“A un certo punto è arrivato per me il momento di pagare il mio debito verso chi mi aveva aiutato: in primo luogo verso la Società Italiana di Psicoanalisi, che mi ha dato l’incarico di insegnamento. E da qui si è ancora allargato il gruppo dei miei compagni di viaggio: Dina Vallino, Annalisa Ferretti, Alessandra Piontelli, Marinella Lia e tanti altri… è un lungo ponte verso il futuro”.
Il lavoro pionieristico di Lina Generali Clements consiste soprattutto nell’aver introdotto l’osservazione del neonato in Italia e di aver stimolato una direzione di ricerca a partire da esso. Ella portò, infatti, l’Infant Observation dapprima (intorno agli anni 70) nell’ambito della formazione dei neuropsichiatri infantili dell’Università Statale di Milano e quindi in ambito più squisitamente psicoanalitico, dal 1978 al1984, sia privatamente che al Centro Milanese di Psicoanalisi con un gruppo di candidati e di psicoanalisti provenienti da diverse città italiane ( fra cui Dina Vallino, Gina e Franco Mori, Giusi Tirelli, Giuliana Boccardi, Antonino Ferro, Franco Borgogno, Barbara Serrati…), gruppo in cui si lavorava sulla comparazione della relazione madre-bambino dell’Infant Observation e l’osservazione della relazione analista-paziente nella situazione analitica. Frutto del fervente lavoro di quegli anni furono la relazione “Correlazioni fra la relazione analitica e la relazione madre- bambina ” presentata da Lina Generali e da Gina Mori al IV Congresso Nazionale della Società Psicoanalitica Italiana (Taormina, 1980) ed il Pane “Dall’osservazione all’interpretazione: un vecchio metodo sempre più attuale” al V Congresso della Società Psicoanalitica Italiana (Roma, 1982), con relazioni di Ferro, Borgogna, Girelli, Serrati e Boccardo.
Nel 1990 Lina Generali si trasferisce a Ruta di Camogli, proseguendo da lì il suo impegno formativo di nuove leve di psicoanalisti; negli ultimi anni 90 rientra definitivamente a Londra, pur ritornando periodicamente in Italia per tenere seminari di psicoanalisi infantile, soprattutto a Firenze e Cremona. Rispetto ai contesti dell’esperienza italiana ed alle sollecitazioni che l’hanno sostenuta, la dottoressa ricorda:
“Durante la mia Specializzazione in Malattie Nervose presso l’Università di Milano la Prof.ssa Adriana Guareschi ha avviato un Ambulatorio di neuropsichiatria Infantile, in cui ho mosso i primi passi.
Le mie difficoltà erano la scarsa preparazione: il sostegno mi è venuto dalla stessa professoressa Guareschi, a cui sarò sempre grata. Con il suo incoraggiamento ho proseguito il cammino, a Londra nel Bethlem Hospital, negli Stati Uniti presso l’Università di Harvard, e successivamente ancora a Londra nella Tavistock Clinic”

“Attorno agli anni ’70 e ’80 vi era la tendenza a richiedere e a volte ad attuare un trattamento psicoanalitico per un ampio spettro di disturbi psicologici e psichiatrici, tendenza che si è successivamente attenuata.
Il mio primo paziente è stato un bambino di otto anni con difficoltà di apprendimento, che si esprimeva soprattutto con il disegno.
L’aiuto migliore mi è venuto dalla pratica dell’Osservazione, di cui già Freud era stato fautore. Per molti anni, direi per tutto il periodo del mio lavoro, ho condotto Seminari di Osservazione del neonato (Osservazione madre-bambino) condotta secondo il metodo di Esther Bick.
Penso che il saper osservare secondo questo metodo sia alla base del lavoro analitico; non per niente i Seminari di Infant Observation fanno parte del training della Società Psicoanalitica Britannica, oltre ad essere alla base dell’insegnamento alla Tavistock di Londra”.
Si tratta di un lavoro faticoso, emotivamente impegnativo per chi lo attua e chi lo conduce; per cui non fa meraviglia che susciti delle resistenze […] .
Che cosa ho imparato dal mio lavoro, o meglio, cosa valuto di più di quello che ho imparato?
Non ho dubbi: il rispetto, l’apprezzamento, la gratitudine per tutti i genitori, fortunati o sfortunati; con il loro coraggio e la loro determinazione sono parte della vita – e sono loro che.
Cosa ho imparato su di noi esseri umani? Mah, potrebbe essere meglio.
Ma potrebbe anche essere peggio!”.
Vasta è stata l’attività della dottoressa in termini di formazione nel campo degli adulti e dei bambini e nell’osservazione dei neonati, piuttosto che in termini di pubblicazioni. Lina Generali è stata, infatti, psicanalista didatta e analista di bambini, adolescenti ed adulti.
Tra le pubblicazioni della dottoressa, in ogni caso, troviamo due lavori importanti:
“L’osservazione del neonato come metodo di studio in psichiatria infantile”, del 1971, sulla “Rivista di psicoanalisi” (XVII);
“Correlazioni tra la relazione analitica e la relazione madre – bambino”, del 1980 (Generali L., Ferrara Mori G., Quaderni di Psicoterapia Infantile, n. 55, 2007).

Genitorialità

A cura di Marta Badoni

Se nella parola genitore è iscritto l’atto del generare, nella parola genitorialità dovremmo trovare, seppure in maniera condensata, quello che la società si aspetta dagli adulti in quanto genitori; di conseguenza quello che lo Stato fa per sostenere la funzione genitoriale.

Siamo subito in un rapporto dialettico tra privato e pubblico, tra quella che è una spinta creativa largamente sostenuta da un bisogno di portare a compimento una propria visione di sé e del mondo, di buttare uno sguardo oltre il limite delle proprie esistenze e, d’altra parte, un compito pubblico che la società assegna che è quello di educare.

Sul generare la questione è oggi assai complessa: si genera sempre più tardi rispetto al periodo naturalmente fertile della donna, si genera per procura, la coppia genitoriale non ha più confini stabili e ristretti, ma si estende alle coppie omosessuali, alle famiglie allargate che devono affrontare equilibri delicati tra figli di genitori diversi, nei casi di fecondazione eterologa la coppia genitoriale è caricata dalla fantasia di un terzo, il donatore, presente nei pensieri anche se sconosciuto. Pensieri che conoscono bene i genitori adottivi, con l’aggiunta del compito di lenire una ferita all’origine.

Inutile aggiungere che in un quadro di tale complessità l’intervento pubblico, che in Italia è da sempre carente, rischia di naufragare o di essere manipolato a seconda delle scelte politiche o delle regole religiose.

Eppure i genitori sono, tra gli umani, gli esseri più esposti a quello che (a partire dal saggio di Freud del 1914) chiamiamo il lavoro del lutto. Tale lavoro, che significa la capacità di trattare con i sentimenti di delusione che inevitabilmente gli “oggetti” ci infliggono, è, nel caso dei genitori, diretto a una costante ricerca di equilibrio tra la necessità di investire i propri figli, sui propri figli, di tifare per loro, e una continua, vigile attenzione a che le aspettative nei loro confronti non costituiscano una cappa soffocante e le inevitabili delusioni non scardinino, magari silenziosamente, la fiducia e la speranza. Fiducia anche nel proprio ruolo di genitori, speranza nelle rispettive risorse.

E’ lavoro di lutto quello che accompagna la nascita e che confronta i genitori allo scarto inevitabile tra bambino immaginato e bambino reale; è lavoro di lutto l’inserimento al nido, alla scuola materna, alla scuola elementare, ampliato dai primi non sempre incoraggianti confronti con altri modi di essere bambini, di essere genitori, di essere educatori; è lavoro di lutto quello che si presenta di fronte al figlio adolescente, in quanto esso mette al vivo, più degli altri momenti citati, assieme al tifo per il successo dei figli, il problema del succedersi delle generazioni e quindi il problema della propria morte.

Come resiste la coppia a questo tipo di pressioni? Come si distribuiscono compiti e ruoli tra i due o più genitori, quando le famiglie si allargano? Come lo Stato e le Istituzioni intervengono o potrebbero intervenire a rendere il lavoro dei genitori meno impossibile? E infine che cosa può dire, suggerire e fare la ricerca psicoanalitica al riguardo?

APPROFONDIMENTI

Nascita della genitorialità

A cura di Sandra Maestro

Da sempre la psicoanalisi si è interessata della costruzione dei primi legami tra il neonato e le sue figure di attaccamento, la madre e il padre, per offrire dei modelli interpretativi sulle fasi iniziali dello sviluppo psicoaffettivo e dare al tempo stesso delle chiavi di lettura della sofferenza e del disagio.

Winnicott sosteneva che, “non esiste un bambino senza la madre”. Questa affermazione, apparentemente paradossale, sta a significare che per comprendere il comportamento di un bebè, il filtro che l’osservatore deve utilizzare è quello dato dalle “rappresentazioni”, consce e inconsce che i genitori hanno di lui.

Ma da dove scaturiscono queste rappresentazioni? Secondo Palacio Espasa ogni individuo nel diventare adulto sedimenta nel proprio inconscio delle immagini di se stesso bambino e dei propri genitori che vanno a costituire delle “identificazioni”. Tali identificazioni si riattivano con la nascita del bambino nel complesso processo trasformativo che l’autore definisce “lutto evolutivo”. La nascita del bambino comporta, infatti, l’inclusione di una “neoformazione” nella personalità del genitore, il “bambino reale”, per natura diverso da quello immaginato, e la perdita dello statuto esclusivo di figlio, che normalmente tende a risolversi con l’identificazione da parte del neo-genitore con i propri genitori. Ma il bambino reale non è mai solo “il bambino”, ma è anche il “bambino che i genitori avrebbero voluto essere…” e specularmente i genitori si identificano con “i genitori che avrebbero voluto avere…” Questa “gioco “di identificazioni incrociate è cruciale per la formazione dei primi legami ed è una delle chiavi di lettura per comprendere le interazioni tra genitori e figli.

Quindi per capire qualcosa di un bambino dobbiamo anche vedere ed ascoltare le persone che si prendono cura di lui. Dal punto di vista di Winnicot la “cura” prevede:

1) la “preoccupazione materna primaria” ovvero una condizione mentale della madre di intensa e totale dedizione al neonato capace di alimentare in lui l’illusione di essere tutt’uno con lei;

2) l’holding ovvero la capacità della madre di fungere da contenitore delle angosce del bambino, intervenendo per soddisfare i suoi bisogni emotivi e riuscendo a mettersi da parte nel momento in cui il bambino non ha bisogno di lei;

3) la “madre sufficientemente buona” cioè una madre che attivamente si adatta alle necessità del bambino, un adattamento attivo che a poco a poco diminuisce a seconda della capacità del bambino che cresce, di tollerare la “disillusione” e la frustrazione, conseguente al venir meno della totale corresponsione materna ai suoi bisogni emotivi.
Per Bion un’altra dimensione della cura materna è data dalla funzione di rêverie, ovvero uno stato mentale aperto alla ricezione di tutti gli stimoli provenienti dal bambino e in particolare alle “identificazioni proiettive” legate alle intense angosce di morte, elicitate nel neonato dalla condizione di assoluta dipendenza. Attraverso la sua “funzione alfa”, ovvero attraverso la sua capacità di pensiero, la madre metabolizza le ansie del bambino e gliele restituisce in un modo per lui più tollerabile.
Indipendentemente dalla declinazione che il concetto di cura ha per la psicoanalisi, il ruolo del padre è centrale, inizialmente per il sostegno dato alla madre, successivamente per la sua funzione di modulatore della separazione all’interno della coppia madre-bambino e per consentire passaggio da legami di tipo diadico a legami di tipo triadico.

Quindi per la psicoanalisi una dimensione centrale dell’ “l’ambiente” di crescita del bambino è rappresentata dall’assetto emotivo e dall’intrapsichico dei genitori, per la cui comprensione ed esplorazione servono contesti e strumenti specifici.

Ma il bambino come interagisce con tutto ciò?

La psicoanalisi oggi è molto interessata ad integrare le nuove conoscenze derivate dalla psicologia dello sviluppo e dall’infant research che hanno rivoluzionato l’immagine del neonato, non più rappresentato in una condizione di “autismo fisiologico” o di “ritiro narcisistico primario” ma al contrario, “orientato” con tutto il suo apparato sensoriale, fin dalle prime ore di vita, verso il contatto con madre.

Questa innata predisposizione del neonato all’interazione sociale con gli altri esseri umani, nonché all’interazione con altre “menti”, come suggerito da tutti quegli esperimenti che dimostrano la presenza fin dalle prime ore di vita dell'”intersoggettività primaria”, (Trevartheen) non esclude tuttavia la necessità di poter disporre di teorie relative allo sviluppo emotivo e psicoaffettivo, che forniscano delle ipotesi sulle “premesse della vita psichica”.

Nella storia della psicoanalisi alcuni autori hanno sviluppato le loro teorie a partire da osservazioni comportamentali empiriche dei neonati, seguendone lo sviluppo longitudinale nell’arco dei primi due anni di vita.

R.Spitz ha introdotto il concetto di “organizzatore” per descrivere alcune tappe evolutive fondamentali , coincidenti con salti evolutivi nel comportamento del bambino e della qualità delle sue relazioni con l’ambiente. Il primo organizzatore è la risposta del sorriso e si colloca al terzo mese di vita; il secondo organizzatore è “l’angoscia per l’estraneo” e coincide con l’VIII mese, l’ultimo organizzatore è “la risposta del no”, attorno al 18° mese.

L’interesse di queste intuizioni empiriche è stato confermato dall’evidenza che in questi periodi il SNC del neonato subisce dei cambiamenti strutturali maturativi che ne rendono il comportamento sempre più più finalizzato ed organizzato.

M. Malher ha concettualizzato lo sviluppo psico affettivo del bambino nel periodo che va dai quattro-cinque mesi di vita fino circa al trentesimo-trentaseiesimo mese denominandolo come “processo di separazione ed individuazione”: Separazione e individuazione rappresentano due sviluppi complementari: la separazione consiste nell’emergenza del bambino da una fusione simbiotica con la madre e l’individuazione consiste nella progressiva assunzione da parte del bambino delle proprie caratteristiche individuali.

Più recentemente Daniel Stern si è impegnato attraverso un’attenta e approfondita ricapitolazione di tutte le conoscenze derivate dall’infant research, nella costruzione di ponti teorici tra il bambino della psicoanalisi e quello della psicologia dello sviluppo, proponendo una teoria dello sviluppo psico-emotivo, basata sullo sviluppo del Sé e della soggettività.

Si potrebbe concludere che uno dei punti di forza dell’approccio psicoanalitico sta nel fornire delle teorie esplicative dello sviluppo infantile strettamente connesse con lo sviluppo del suo sistema relazionale, offrendo quindi delle chiavi di lettura per comprendere le turbolenze emotive e i conflitti che accompagnano i processi di crescita del bambino. A questo proposito Anna Freud, in “Normalità e patologia” descrive la fisiologica fluttuazione dello sviluppo del bambino nelle diverse “linee evolutive”, per cui nel processo di maturazione ci si può aspettare una certa disarmonia, con momenti di regressione. Parallelamente i processi della genitorialità vanno incontro a periodi critici che possono essere legati a snodi specifici della crescita del bambino, o della vita familiare, o della storia personale… ma nella maggior parte dei casi i genitori si rivelano “sufficientemente buoni”, ovvero, sufficientemente permeabili e recettivi al cambiamento e capaci di maturare nel rapporto con il loro bambino quelle competenze necessarie a favorirne la crescita armonica.

Ma quando al contrario, nel processo di accudimento si re-iterano micro-fallimenti (“non riesco a farlo dormire”, “non riesco a calmarlo”, “non riesco a farlo mangiare”) il genitore non percepisce “il rinforzo del sentimento di competenza e fiducia nella propria funzione genitoriale” (Abidin) e il rischio è che gradualmente si strutturi una rappresentazione negativa speculare, ovvero quella di un “cattivo bambino con un cattivo genitore”…In questi casi è importante farsi aiutare!

Bibliografia

Abidin, R. R. (1983). Parenting stress and the utilization of pediatric services. Children’s Health Care, 11(2), 70-3.
Bion W. (1962). Apprendere dall’esperienza. Roma, Armando, 1996 .
Cramer B., Palacio-Espasa F. (1995). Le psicoterapie madre-bambino, Milano, Masson.
Freud A (1965) .Normalità e patologia del bambino: Valutazione dello sviluppo . Milano Feltrinelli,1974 .
Mahler S.M., Pine F., Bergman A. (1975). La nascita psicologica del bambino. Torino Boringhieri, 1978 .
Manzano J, Palacio Espasa F., Zilkha N. (2001). Scenari della genitorialità. La consultazione genitori-bambino, Ed Cortina.
R. Spitz: (1962). Il primo anno di vita del bambino. Firenze Giunti.
Daniel Stern. (1985). Il mondo interpersonale del bambino. Torino, Bollati Boringhieri, 1987.
Trevarthen C. (1998). Empatia e Biologia. Psicologia, cultura e neuroscienze. Milano, Raffaello Cortina Editore.
Winnicott D,(1971). Gioco e realtà. trad. Giorgio Adamo e Renata Gaddini, prefazione di Renata Gaddini. Roma, Armando, 1974.
Winnicot D (1974). Sviluppo affettivo e ambiente: studi sulla teoria dello sviluppo affettivo. Roma, Armando, 1974.

Genitori si nasce o si diventa?

A cura di Barbara Piovano

Esiste una preistoria infantile del desiderio adulto di paternità e maternità.
Le fantasie infantili di procreazione che risalgono all’infanzia e l’ipotesi di una pulsione universale a essere genitori costituiscono il substrato fantasmatico e biologico del desiderio di avere un figlio.

Il figlio, fin dal momento della programmazione e del concepimento promuove un cambiamento nei genitori. Un’intensa produzione di fantasie si attiva durante il processo di riorganizzazione della identità personale e di genere cui vanno incontro i genitori nelle fasi del concepimento, della gravidanza, parto, post-partum, allattamento. Il desiderio del bambino (e quindi il progetto cosciente) crea nella mente del genitore uno spazio virtuale atto a contenere l’idea del bambino e di se stessi come genitori. E’ il nuovo nato, diverso dall’irrappresentabile bambino immaginario, il bambino reale che sollecita i genitori a creare uno spazio psichico effettivo e non solo virtuale per il figlio .

La genitorialità è considerata nella teoria classica come uno stadio di sviluppo nella vita di un adulto (J. and K. Novick, 1998).

In termini più attuali la genitorialità va intesa non tanto e non solo come una fase dello sviluppo che viene raggiunta sotto la spinta biologica e fantasmatica a procreare, ma come un processo trasformativo che evolve nel corso della vita e attraverso il quale viene sviluppata una costellazione di capacità affettive e psichiche. Questo processo viene attivato dal progetto di avere un figlio e dalle interazioni con lui e richiede un tipo di funzionamento mentale e di disposizione affettiva in ciascun genitore ed un tipo di relazione coniugale – la genitorialità è quindi funzione della coppia nella sua totalità e non del singolo – che promuovono crescita e cambiamento psichico.

La creazione di uno spazio per l’investimento emotivo e la rappresentazione del figlio e di uno spazio di riflessione sulla relazione con il figlio, presuppone:

1— una triangolazione nella relazione di coppia.

Se si deve creare uno spazio per il figlio non può essere mantenuta l’illusione di una relazione fusionale simbiotica. Il passaggio da una relazione a due – che nell’innamoramento era per molti versi una relazione ad uno – ad una relazione a tre, comporta una serie di modifiche dell’assetto di coppia e un fondamentale processo di ri-distribuzione di energie e di investimenti affettivi.

2 — una triangolazione introdotta dal bambino reale.

3 —lo sviluppo di funzioni genitoriali sufficientemente buone.

Le funzioni genitoriali vanno considerate non come competenze innate o da acquisire, ma come funzioni psichiche che condensano la capacita di pensare, in contrapposizione all’agire o all’aderire all’altro, e quella di sostenere emotivamente ed affettivamente la crescita del figlio.
Ciascun genitore può svolgere adeguate funzioni genitoriali, intese come funzioni della mente, se può fare riferimento a un duplice referente materno e paterno, che gli consente di svolgere funzioni paterne e funzioni materne in armonica interazione.

La funzione materna di contenimento e rispecchiamento consente al bambino di sperimentare una continuità del sé e di raggiungere uno stato di coesione del sé.

La funzione paterna, introduce separatezza, profondità e processualità (senso del tempo) nella relazione con il figlio, favorendo in quest’ultimo l’accettazione del diverso da sé, la costruzione di un sé separato, la conquista di uno spazio psichico e di un’attività psichica (capacità di provare emozioni, di immaginare, di sognare).

La disposizione genitoriale affettiva include la capacità di generare amore, di sostenere la speranza, di contenere la sofferenza, oltre a quella di pensare ( Meltzer, 1986).
Essa presuppone che siano di continuo elaborati gli aspetti conflittuali delle relazioni dei genitori con gli oggetti del passato e con gli altri significativi del presente e che nel figlio possa essere proiettato il proprio sé infantile investito narcisisticamente (come dire una buona dose di autostima) ( Freud, 1914).

L’esperienza clinica insegna che in situazioni favorevoli, che non necessariamente conseguono al desiderio e al progetto cosciente di avere un figlio, quest’ultimo, per il fatto stesso di esistere, e per il suo potenziale di sviluppo può rappresentare un momento di crescita per i genitori nel senso che sollecita una serie di aggiustamenti che vanno dalla creazione di uno spazio psichico per il figlio, all’elaborazione di traumi e conflitti con figure significative del passato, alla revisione del legame di coppia, all’elaborazione del lutto dei genitori rispetto a superati valori, ad una maggiore apertura e confronto dialettico con l’ambiente sociale. E’ quello che si può definire come il contributo del figlio alla genitorialità (Piovano, 1998,2004). Se succede che i sintomi del bambino non siano più gestibili all’interno del nucleo familiare i genitori sono allora sollecitati a chiedere interventi specialistici dei quali essi stessi possono usufruire. E’ in questo senso che il sintomo del figlio rappresenta una speranza anche per i genitori. L’analista interviene a riparare dove il disagio e la sofferenza del figlio non è riuscita aprire spazi di riflessione su quello che non ha funzionato o non sta funzionando, nella speranza di saperne un po’ di più su ‘come fare crescere i bambini di qualunque età’ (Bion, 1975).

Bibliografia

Bion, W.R (1975). Memorie del futuro. Trad.it. Raffaello Cortina, Milano
Freud.S (1914). Introduzione al narcisismo.OSF vol.7
Meltzer, D.Harris M. (1968).Il ruolo educativo della famiglia: un modello psicoanalitico dei processi di apprendimento. Centro Scientifico Torinese.
NovickK.K., Novick,J.(2009).Il lavoro con i genitori. Franco Angeli Milano
Piovano.B. (2004).Parenthood and Parental Functions as a Result of the Experience of Parallel Psychotherapy with Children an Parents. Int.ForumPsychoanal 13: (187-2004)
Piovano, B (1994) Le esperienze parallele: percorsi psicanalitici dal bambino al genitore. BorlaRoma-Trad. Ingl. Parallel Psychotherapy with Children and Parent, NY Jason Aronson 1998.

Interrogativi sull’oggi della maternità-genitorialità

A cura di Carla Busato Barbaglio

Riflettere sull’oggi della maternità- genitorialità è un invito a ripensare ad un ‘gioiello’ di possibilità che abbiamo come psicoanalisti, psicologi, psichiatri, ginecologi, pediatri, operatori dei servizi, insegnanti: possibilità attinenti alla cura e alla prevenzione, e più precisamente perché la prevenzione si attivi prima della cura. Il “gioiello” è costituito sia dalle acquisizioni teoriche sulla crescita e lo sviluppo di un bambino, che ormai sono patrimonio comune, sia dalle possibilità di lavoro a contatto con la nascita e la crescita della maternità quale genitorialità. Infatti, non c’è solo la nascita del bambino ma nel concepimento viene avviata quella maternità in fieri, data dalla possibilità di farlo crescere, che è la genitorialità e poi la “nonnità”.
La maternità oggi sembra collocarsi in una linea di frontiera complessa. Ci sono, infatti, ricerche sempre più raffinate, frutto del lavoro di osservazione della relazione madre bambino che si estende all’indietro fin dal tempo del concepimento, (da segnalare il bel lavoro a cura di Gina Ferrara Mori sulla maternità interiore ) tese ad approfondire il difficile compito della costruzione del’grembo materno’. Anche le ricerche accuratissime dell’Infant Research, vedi per esempio Tronick, presentano un modello di regolazione reciproca secondo il quale madre bambino sono legati da un sistema di mutuo adattamento,in cui il bambino costruisce le proprie capacità di regolazione emotiva. Gli studi stessi delle neuroscienze sembrano supportare tali ricerche. Rizzolati afferma che il possesso dei neuroni specchio e la selettività delle loro risposte determinano uno spazio di azione condiviso, all’interno del quale ogni atto e ogni catena di atti, nostri o altrui, appaiono immediatamente iscritti e compresi, senza che ciò richieda alcuna esplicita o deliberata “operazione conoscitiva”. Lettura questa interessante, perché dà consistenza agli studi sull’identificazione proiettiva, sottolineando un movimento riflesso tra i partners della relazione che non passa immediatamente e sempre per una struttura rappresentativa, eppure è presente. E questo riguarda l’essere l’uno di fronte all’altro, l’uno con l’altro. Possiamo perciò ipotizzare che ci sia fin dal concepimento l’iscrizione nel corpo non solo di un programma genetico, ma anche di un alfabeto relazionale che si tradurrà poi nell’esistere in un determinato modo e con una certa qualità di reciprocità.

Si sa inoltre che la depressione, l’ansia, la rabbia, perfino l’ottimismo/pessimismo vissuti dalla donna incinta possono avere effetti stressanti sul feto. Lo stress materno è sempre più associato allo stress del feto e in particolare l’ansia, collegata ad alti livelli di cortisolo (“l’ormone dello stress”) e presente soprattutto negli ultimi mesi di gravidanza, si ritiene possa essere un fattore predittivo di un ritardo mentale e motorio ai 3 mesi del neonato e soprattutto di un ritardo motorio agli 8 mesi.( Tiffany Field). Ogden afferma che “l’esperienza sensoriale è il bambino”, e ogni brusca discontinuità di forma, simmetria, ritmo, pressione epidermica e così via, segna il “non-essere” del bambino.

Gli studi sull’allattamento confermano tutto ciò. Nell’andamento della relazione tra il bambino e la madre, dal modo di essere tenuto in braccio, al rispetto delle pause, dei tempi e alla risposta ad essi, non solo viene favorita l’alimentazione, ma sono poste le basi della comunicazione vera e propria.

Tutte queste ricerche sembrano andare in controtendenza rispetto ai ritmi di una società il cui comun denominatore è la fretta, il consumo, il guadagno. La debolezza, la fragilità, le angosce e tutti i fantasmi legati alla maternità sembrano in essa trovare ancora più difficoltà di radicamento e accoglienza. Quale posto trovano la solitudine e l’angoscia a diventare madre, e quale contenimento viene dato al nuovo rapporto che si va creando quando i ritmi di lavoro poco tutelano la crescita di un bambino? Interessante poi come la proposta che viene dal mondo che si occupa della nascita di un bambino solleciti una risposta materna di azione, più che di pensiero e di interiorità. Pensiamo alle diete cui si sottopongono le madri in gravidanza o alle visite mediche che sembrano essersi moltiplicate su un crinale molto difficile da reggere, tra il vivere un evento che fa parte della vita e una medicalizzazione troppo forte che sposta l’ottica di ciò che sta avvenendo. Si moltiplicano studi sulla vita intrauterina, studi sulla placenta… e poi la donna è lasciata sola, assolutamente non aiutata, anzi spesso si infierisce su di lei in momenti delicatissimi. Quante donne prese da mille visite si sottraggono all’ascoltare il proprio corpo e a costruire l’alfabeto relazionale che come il codice genetico nasce già in utero? Non accadono continuamente espropri? Barbara Duden segnalava il problema del corpo della donna come luogo pubblico, quanto continuamente ancora ciò accade?
Nuovi problemi vengono anche posti dalla grande offerta di possibilità di andare oltre l’infertilità. Possibilità bellissime e inedite, difficili a volte da coniugare nell’esistenza senza che si traducano in un attacco al corpo, alla vita di coppia nella non accettazione di un limite che a volte la vita pone. E che spazio c’è per pensare alla fecondazione eterologa e a ciò che mette in atto prima che ci siano problemi seri per il bambino? Un bambino che uno dei genitori guarderà sempre per scrutarvi un oltre. Non segnalo tutto ciò per chiudere alla ricerca e alla scienza ma per continuare incessantemente a pensare sul fatto che ogni scelta mette in atto meccanismi di cui è meglio sapere prima, per quanto possibile. Così come per le fecondazioni nelle coppie lesbiche, o per i bambini adottati da coppie omosessuali. Quale spazio viene dato, fuori dalle ideologie, al riflettere seriamente su come viene costruita una ‘maternità interiore’, una genitorialità? Questo vale anche per le adozioni. Quale la domanda sottesa alla ricerca di un bambino, e quale spazio c’è perché genitori e bambino crescano assieme?

Vedo poi sempre più adolescenti nati da coppie miste. Altre culture, sradicamenti forti che non hanno trovato accoglienza e comprensione e che rendono difficilissimo il passaggio adolescenziale nel figlio. Interessante a questo proposito il bel testo ‘Maternità in esilio’ di Marie Rose Moro, Dominique Neuman e Isabelle Réal ).

Tutto ciò pone interrogativi sull’eccessiva medicalizzazione della prevenzione, gestita esclusivamente sul fronte degli accertamenti diagnostici strumentali ed ematochimici, che pure debbono avere un loro posto, ma non possono saturare il campo e lo spazio tra madre-feto-bambino-padre-ambiente.E come integrare il lato medico, le ricerche con un tempo di contatto profondo al proprio interno con ciò che sta avvenendo dandosi anche tempi per sognarlo? Questo vale anche per altri percorsi nei quali la richiesta istituzionale non veglia a sufficienza sulla buona riuscita dell’incontro. A questo proposito ci sono interessanti sperimentazioni in Italia. Alcune si collegano al metodo osservativo di Ester Bick, e propongono una formazione agli operatori che si occupano del farsi della vita, aiutandoli ad essere attenti ai loro stessi vissuti per poter accogliere al meglio e sostenere ciò che sta avvenendo.

La costruzione della maternità-genitorialità è un cantiere aperto che non si esaurisce con il concepimento e la nascita ma richiede un continuo lavoro di integrazione tra ciò che la vita propone, a volte anche crudelmente ( aborti, lutti in famiglia, malattie, difficoltà nella coppia stessa, figlio diverso dal sogno, propria storia personale) e la possibilità di mantenere viva e vitale, ricca di interrogativi, curiosità e capacità di pensare e ripensare, la ‘camera gestazionale’ .

Bibliografia

Busato Barbaglio C., Mondello Ml., Tra femminile e materno: l’invenzione della madre. Milano Franco Angeli, 2008.
Busato Barbaglio C., Maternità: fortezza da due debolezze? In N.Neri e C.Rogora., Desideri di maternità. Roma Borla 2010
Duden B., (1991) Il corpo della donna come luogo pubblico Torino, Bollati Boringhieri 1994
Ferrara Mori G., a cura di Un tempo per la maternità interiore Roma, Borla 2008
Field T., 2007, “Being a fetus (Prenatal Growth and Development)” in “The Amazing Infant”, Blackwell Publishing.
Moro MR., Neuman D., I Réal., Maternità in esilio.Milano, Raffaello Cortina Editore, 2010
Ogden T. H., (1989). Il limite primigenio dell’esperienza. Roma, Astrolabio 1992.
Rizzolati G., Sinigaglia C., So quel che fai. Milano, Raffaello Cortina Editore, 2006.
Soubieux M-J.,Soulé M.,La psichiatria fetale. Milano, Franco Angeli, 2007
Tronick E., Regolazione emotiva. Milano, Raffaello Cortina Editore, 2008.
Attualità della figura paterna nello sviluppo psichico dei bambini

A cura di Mario Priori
Nella famiglia della cultura occidentale le figure genitoriali hanno subito profonde trasformazioni negli ultimi decenni. La madre, da “angelo del focolare” totalmente assorbita dalla cura dei figli, si è trasformata in una figura orientata verso nuove realizzazioni che la vedono superare i confini della famiglia, protesa verso nuove mete di lavoro e di impegno sociale. Ancor più radicale è stata la trasformazione della figura paterna. Erede di una tradizione che lo ha visto in una posizione a dir poco marginale rispetto al compito dell’allevamento della prole, il padre ha comunque rappresentato nella famiglia la massima espressione dell’autorità. Con il crollo dei grandi totalitarismi che dell’autorità paterna erano l’espressione simbolica, ha preso avvio un processo che nel periodo delle contestazioni giovanili del sessantotto ha definitivamente messo in discussione il principio di autorità paterna.
Tutti questi cambiamenti sembrano aver restituito una figura paterna rinnovata: siamo ormai quasi abituati alle immagini patinate di questi nuovi padri in atteggiamenti di tenerezza verso i loro figli neonati, coinvolti nelle mansioni di un quotidiano che la tradizione aveva esclusivamente attribuito alle figure femminili. La figura del padre sembra essere sopravvissuta ai mutamenti degli ultimi decenni proprio enfatizzando quei tratti di partecipazione alla cura dei figli che nella tradizione gli erano valsi, invece, la denominazione di “padre assente”. Messo in discussione nei suoi ruoli tradizionali, il padre è stato infine convocato ad una partecipazione, meno istituzionale e più esplicitamente affettiva, nella crescita dei figli.

Il pater familias ha rappresentato per secoli la funzione del padre all’interno della famiglia. In una rigida ripartizione di funzioni con il ruolo materno, preposto all’educazione più che alla cura dei figli, il padre ha rappresentato in seno alla famiglia la legge e l’ordine, la continuità della tradizione ed ha avviato la prole alla vita sociale. Una figura, quindi, che interviene nella vita dei figli in un secondo tempo. Sarà con la psicoanalisi freudiana che il ruolo paterno verrà riconsiderato in modo più completo e ne saranno poi mostrate le profonde funzioni rispetto allo sviluppo psichico dei figli, fin dalle epoche precoci della loro vita.

Molti termini psicoanalitici fanno ormai parte del linguaggio comune ed hanno finito per sostituire in modo approssimativo parole di uso corrente. Così come “rimuovere” è spesso usato come sinonimo di “dimenticare”, in maniera analoga, il “complesso di Edipo” è usato più che altro per indicare un eccessivo attaccamento alla figura materna. Seguendo queste brevi considerazioni sulla funzione del padre, è il caso di chiarire che per la psicoanalisi il “complesso di Edipo” sottende un elemento di novità che irrompe nella scena, un passaggio dal “due” del rapporto madre-bambino al “tre” che si realizza, appunto, con l’entrata in scena della figura paterna. Se nelle origini mitologiche di questo concetto psicoanalitico la comparsa del padre è riferita alla proibizione dell’incesto (S.Freud, 1913), secondo un’ottica riferita allo sviluppo psichico del bambino la funzione della figura paterna che rompe il sodalizio madre-bambino è più che altro rivolta ad un passaggio evolutivo che si realizza nel distogliere il bambino da un vissuto di totale e continua disponibilità della figura materna. Uno stato mentale che prende origine dall’allattamento e che se non trovasse nel “terzo incomodo” paterno un’esperienza di limite renderebbe un figlio poco adatto a vivere in una realtà che prevede inevitabilmente rinunce, attese e frustrazioni. Un padre che contende l’esclusivo possesso della madre e che fa tramontare la fantasia del bambino di essere un tutt’uno con la madre svolge una funzione separativa, permettendo l’instaurarsi di una realistica distanza che crea i presupposti per le future identificazioni. Bisogna pensare a questa funzione paterna non soltanto come esercitata da un padre in carne ed ossa ma anche come una funzione presente nella mente di una madre che, orientata verso un progetto evolutivo, vede nell’esperienza della separazione un passaggio importante e necessario nella vita di suo figlio, qualcosa che le consentirà di tollerare con maggiore serenità le proprie inevitabili indisponibilità alle richieste del figlio. Ma la funzione del padre inizia ancor prima della nascita di un figlio. Già durante la gravidanza egli è chiamato a svolgere una funzione contenitiva, condividendo con la sua compagna le ansie e le preoccupazioni che le trasformazioni corporee della gestazione possono generare, così come sarà chiamato, alla nascita del figlio, a svolgere una funzione protettiva per la delicata esperienza della coppia madre-bambino.

Questa nuova esperienza di vicinanza può sprigionare vissuti spesso difficili da conciliare con i tratti di una identità maschile ancora venata dai lasciti della tradizione. L’avvicinamento dei padri all’intimità dell’esperienza della maternità può far balzare in primo piano più espliciti sentimenti di tenerezza o di esclusione, se non di gelosia o di invidia, sentimenti a cui è spesso difficile dare una collocazione. Quella del divenire padri è diventata quindi un’esperienza complessa che investe livelli profondi dell’identità maschile.

Se la figura materna è impegnata in una più intensa partecipazione alla vita sociale che la costringe ad esitare meno a lungo nelle cure primarie della prole, il padre si allontana dagli antichi fantasmi dell’autoritarismo diventando spesso una figura amicale per i figli. Da queste nuove figure genitoriali crescono nuovi figli modellati da precoci richieste materne sul piano dell’autonomia e delle prestazioni, figli assai poco conformati in relazione ad un principio di autorità, sicuramente poco inclini ad accettare le norme costituite, le opinioni e l’operato stesso dei genitori. Tutto ciò produce una contrapposizione generazionale più esplicita ma espone anche le nuove generazioni ad un bisogno di protezione che si traduce molto spesso in una ricerca di rassicurazione attraverso il successo economico e nel perseguimento di obiettivi socialmente riconosciuti.

In definitiva, il contraccolpo delle trasformazioni socio-culturali della figura paterna da un lato espone l’uomo ad una rivisitazione profonda dei canoni della propria identità e dall’altro rischia di imporgli un radicale allontanamento dai fantasmi dell’autoritarismo degli antichi padri attraverso la totale rinuncia a qualsiasi tratto di autorevolezza. Sembra che il padre debba trovare un nuovo modo di svolgere il proprio ruolo attraverso la possibilità di rappresentare anche quella funzione di limite che, senza risvegliare le ombre del padre-tiranno, possa costituirsi come elemento che orienti e protegga la crescita dei figli.

Bibliografia

Freud S. (1913), Totem e Tabù in O.S.F., vol.7, Boringhieri Ed. 1974.
Guerriera C., Il padre nella mente, Idelson-Gnocchi Ed., Napoli, 1999.
Quagliata E. (a cura), Essere Genitori, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 2010.
Quilici M., Storia della paternità, Fazi Editore, Roma 2010.
Ugarte U., Un padre (romanzo)- Zero91 Ed., Milano, 2009.

Genitorialità (Nuove)
Genitorialità (Nuove) 1

Joaquín Lavado, in arte Quino, Mafalda

A cura di Carla Busato Barbaglio

Nuove forme sociali, nuove identità relazionali

‘Le persone usano il linguaggio non solo per segnalare stati emotivi o confini territoriali ma anche per influenzare la mente altrui. Il linguaggio è uno strumento squisitamente adatto per descrivere luoghi, persone, altri oggetti, eventi e perfino pensieri ed emozioni. Lo usiamo per descrivere il passato e anticipare il futuro, per raccontare storie immaginarie, per lusingare ed ingannare’ (M.C. Corballis). Una delle caratteristiche del linguaggio come afferma Whitehead è la ‘generatività’. Le nuove forme sociali, almeno nella loro consolidata prassi quotidiana, sono generative di nuovi linguaggi che attivano la necessità di ascolto e di studio: ‘nuovi fatti’ nella complessità relazionale.

Riporto di seguito alcune affermazioni che in modo plastico rendono le novità della vita dell’oggi.

Mamma, ma lui è mio fratello? No, risponde la mamma, che cosa ti viene in mente mica è nato da me. E allora che cosa è per me? Mah, risponde la mamma un po’ confusa, è un ‘semi cugino’. Dopo poche ore Matteo, 7 anni, si ritrova con degli amichetti e con molta fierezza presenta il nuovo arrivato dicendo: E’ il mio semi- cugino. Con molta serietà tutti si salutano e si rimettono a giocare.

Federica 9 anni viene portata in consultazione perché aveva sempre creduto che Roberta fosse sua sorella e invece realizza improvvisamente che è figlia sì del padre, ma non della mamma. E’ molto turbata, si sente tradita e non sa più bene lei di chi sia figlia.

Roberta 26 anni racconta tra le lacrime che a sette anni mamma e papà si sono separati e mamma è andata a vivere con una signora da lei chiamata zia. Papà aveva un’altra moglie. Tra le lacrime dice ma si figuri dottoressa come a Natale potevo fare il presepe?

Dottoressa, racconta con aria tra il malizioso e il turbato Roberto di 8 anni, sono andato a dormire da papà e sotto al cuscino ho trovato una camicia da notte che non avevo mai visto. E sono sicuro: assolutamente non era di mamma.

Non so più chi sono, dice una ragazza adottata, mi hanno presa e poi ognuno si è rifatto una vita, ma io di chi sono? Per giunta sono di colore, mi guardo allo specchio e rimango male mi vorrei bianca.
E ancora Roberta 16 anni. Mio padre mi mette a parte della sua nuova vita compresi i particolari dei suoi rapporti fisici….Mi ha anche confidato che la sua bella ha avuto un aborto spontaneo e che sta tanto soffrendo, ma chi se ne frega. La odio, li odio…

I miei genitori sono schegge impazzite, dice Donatella 14 anni: una non mangia, l’altro mi chiede aiuto per coprirlo e farlo uscire con la fidanzata. Io ho tutti i miei casini: che faccio?

Flash che in positivo o in negativo interrogano comunque il mondo degli adulti e interrogano il nostro pensare situazioni che sono diventate molto più complesse e che richiedono forse nuove riflessioni, studi, proposte.

Questi piccoli flash e molti altri che potrei aggiungere parlano di nuove configurazioni familiari e di diverse espressioni di genitorialità. Linguaggi che, se pur per certi aspetti indicano situazioni conflittuali che potevano clandestinamente esserci anche nel passato, ora immettono in narrazioni e linguaggi che realmente sono dicibili.

Tra genitorialità e coniugalità

Si è passati da un sistema familiare nel quale la funzione coniugale e quella genitoriale coincidono, ad una serie di ‘discontinuità rispetto al passato che vertono sulla non coincidenza tra genitorialità e coniugalità (la funzione genitoriale può essere esercitata in assenza della relazione coniugale); sulla non sovrapponibilità tra nucleo familiare e famiglia (famiglie allargate e ricostituite); sulla non omogeneità tra cultura famigliare e cultura della comunità sociale di appartenenza (coppie miste); sulla non consequenzialità tra genitorialità biologica e universo affettivo (case famiglia, comunità per minori); sulla non coincidenza tra ruoli familiari e ruoli di genere (coppie omosessuali). (P.Bastianoni e A Taurino).
Tutto questo è espresso in una pluralità e molteplicità di forme nuove e particolari. Troviamo ad esempio famiglie omosessuali accanto a famiglie etero, famiglie d’immigrati o miste con figli adottati con i canali internazionali…Oppure famiglie di diverse provenienze geografiche con figli di diversi nuclei familiari.

L’ultima legge che sancisce l’uguaglianza di tutti i figli, anche se nati fuori dal matrimonio firma in modo irrevocabile a livello istituzionale molti di questi cambiamenti e in qualche modo sancisce nuove narrazioni genitoriali rendendo il luogo della crescita più fluido. E in questa fluidità può esserci sia una maggior ricchezza sia un minor contenimento, sicuramente una difficoltà maggiore a concepire limiti e debolezze.
Una pluralità di forme nelle quali si declina il vivere, forme che cambiano la tessitura sociale, il modo di relazionarsi, di comunicare, di appartenere di crescere. Una tessitura più composita e più complessa. La genitorialità in questa prospettiva sempre più sembra non essere legata all’avere direttamente